È una serie di schianti di schianti di schianti di schianti a svegliarti, a interrompere processi di condensazione, a tranciare traiettorie di spostamento, a vanificare sforzi di un inconscio lanciato centrifugo dal gorgo del non detto in veglia – la sveglia non ha fatto in tempo, anticipata da una sequela di urti entrati dapprima nel basso ventre a scuoterti le viscere per poi fare lo stesso col letto; prima ancora di trapanarti in sincopi le orecchie e scendere a incontrare all’altezza dello sterno la prima scarica di onde salita dal basso – dal basso proviene il fracasso: dal basso, però, di un ambiente esterno a quello del tuo corpo stupito, un ambiente che vai a consultare, finestra tua in aiuto, per comprendere, speri, che cazzo sta succedendo là fuori.

Due scie di auto lunghe un chilometro e continuamente alimentate dal didietro non procedono: la tangenziale, sospesa tre metri sotto il tuo punto di osservazione, è una vasta lamiera che offre le terga a un tentativo frustrato di sodomia a catena a opera della più grande varietà di parafanghi in arrivo: non penetrano ma continuano a schiantarsi a schiantarsi a schiantarsi a schiantarsi e deformarsi, a far saltare fari posteriori e anteriori, a far concavi bagagliai, a sbriciolare vetri, a stimolare ingegni bestemmiatori a ogni nuovo componente che si aggiunge ai serpentoni auto-alimentati che ti hanno buttato giù dal letto. Pochi metri ancora più in basso la linea del tram imita lo spettacolo di sopra.

Prima di iniziare a capirci qualcosa, prima di ogni volontà, attraversi in un secondo un’innumerevole quantità di pensieri, dai più neri ai più gai, dai più nobili agli inconfessabili: meditazioni sincrone che ti fanno esplodere la testa. Dal profondo delle tue sensazioni impastate, dal nucleo delle idee fuse, fuoriesce un boato che ha poco di umano ma che sei tu a produrre a bocca spalancata, con occhi iniettati di sangue, proiettandolo fuori dal rettangolo da cui ti sporgi, pericolosamente, per meglio puntare il getto verso chi si affanna laggiù per tirarsi fuori d’impaccio, sulla sopraelevata: quasi a vomitarglielo addosso. Sembra non finire più: ti rimane in testa una volta estinto, provi a scacciarlo ma si è mutato in fischio costante, sottofondo e tortura, che si avvolge come filo attorno a una matassa di voci di te che ancora cianciano a tutto spiano e a intermittenza si svolgono e avvolgono, svolgono e avvolgono, svolgono e avvolgono…
Sono tutti fuori uso, ecco il fatto: ceppi di ganasce abbandonano il loro equilibrio di spinte su tamburi – ogni sorta di attrito radente va a farsi benedire – capi di nastro scioperano strappati via da cerniere e da leve di co- mando – piste di strisciamento inerti – bracci di leva non ne vogliono più sapere di tramutare trazioni in pressioni contro cerchi – flussi di aria caparbia se ne infischiano di dispositivi che pretendono di sfruttarli ai propri fini: fottuti tutti i dragster, tutti i flap su fusoliere di aeroplani. Sono tutti fuori uso, ecco il fatto: le redini non hanno più niente a che fare coi cavalli – la gente in strada in casa al bar si scrolla di dosso ogni rassegnazione a ogni stato di soggezione; i disordini interni ed esterni di ogni essere umano si moltiplicano, così come si moltiplicano, espliciti, gli istinti di ogni fatta – si dà sfogo si dà sfogo si dà sfogo si dà sfogo… tutti, tutto, a tutto.

 

Il quadro ti è divenuto chiaro dopo esserti scaraventato sul ballatoio e giù per le scale; una volta oltrepassato a grandi passi l’interno uno al pianterreno, dal quale ti giunge l’immutato pianto isterico della piccola; una volta uscito in strada…
Un vocabolo come sparito da un dizionario, che si è portato via dal mondo significante e significati, ti fa sentire il peso di un’assenza tanto più influente di mille presenze affastellate, e se poni mente alle conseguenze che avresti immaginato per un simile avvenimento, ecco che quelle conseguenze sono tutto il contrario di ciò che sta accadendo. Perché ti saresti figurato, in assenza di quella combinazione di cinque lettere che pare averti abbandonato – avervi tutti abbandonati – un mondo di scorrevolezza assoluta. Invece a non aver più nessun tipo di ***** la realtà si rivela a intoppi: se vuoi spostarti da un punto a a un punto b devi fare i conti con un’infinità di punti intermedi che ti coinvolgono in reazioni incontrollate: punti intermedi in forma di incontri, voglie improvvise, subitanee secrezioni (emozionali e non) e così via…

Difatti, oltrepassato il cancelletto pedonale dall’interno del cortile, il tuo sguardo si arresta sulla pensilina della fermata del bus: copertura in vetro con apposito spazio per cartelloni pubblicitari: apposito spazio che ti schiaffeggia gli occhi con l’immagine di quattro natiche ben fatte dei due sessi, ornate da biancheria intima d’indubbia qualità.
Subito ti metti ad armeggiare coi bottoni delle brache, indeciso se accordare i tuoi favori onanistici a questo o a quel didietro, ma, ahimè, il controllo di un autobus in discesa è assai problematico quando non si disponga di strumenti di decelerazione efficaci, ed è così che muori travolto da altalenanti impulsi sessuali e da qualche ton- nellata di mezzo di trasporto pubblico.
Condoglianze.

 

Testo: Carlo Sperduti
Immagini: Simone Manfrini

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