BOLIVIA
Se arrivate dal Nord dell’Argentina avete due modi per entrare in Bolivia:
La linea di confine tra La Quiaca e Villanzon esiste nell’immaginario di burocrati e cartografi, ma la realtà somiglia più a un sistema portale di scambio ematico: flussi di beni che entrano ed escono, tanti globuli rossi o policromatici che scambiano il proprio carico di merce a buon mercato in cambio di platain un flusso continuo.
Il consiglio è di aggregarsi a un gruppo di argentini con la chitarra, perché da gringo non si è mai abbastanza al sicuro intorno alle frontiere. Poco importa se il gruppetto in questione sia dei quartieri buoni di Buenos Aires: chitarra e braccialetti di spago formeranno comunque un velo protettivo che renderà più opaco il grosso simbolo di $ (a voi invisibile) impresso sulla fronte di chi nasce nel primer mundo.
Sopportate l’imbarazzante rumorosità dei viajeros argentini, la ripetività delle canzoni Folk-rock-cantautoriale-nacional, dei cori del River Plate e la loro dipendenza fisica dal THC. Vi farà piacere parlare di Tool e Porcupine Tree sobbalzando tra le voragini della strada in un autobus senza sospensioni, condividere i lividi e il freddo delle notti andine con qualcuno che, come voi, viaggia perché gli va e non perché deve, in fondo loro sono lì per sentirsi ricchi e fingersi poveri, mal comune mezzo gaucho.
Non dimenticate gli occhiali da sole se non volete macchiare indelebilmente la vostra retina al salar de Uyuni. Bene, ora vi dovreste essere acclimatati all’altitudine, al riso con pollo e al sapore amaro delle hojas, per cui liberatevi della “zavorra” albicelestee andate a Oruro, non c’è niente laggiù ma andateci lo stesso.
Potreste imparare qualcosa sulle divisioni sociali acute del paese, su quanto profonde siano le cicatrici nel suolo e nella gente, causate dallo sfruttamento minerario; dei venti di cambiamento e dei danni che alcuni di questi venti causano, le contraddizioni di chi vuole assomigliare all’occidente senza conoscerlo davvero e di chi crede che delle bandiere a scacchi colorati possano cancellare secoli di sofferenze e ferite.
La Paz è una città al contrario: di solito le città si ergono su un poggio o su un crinale o quanto meno si sviluppano su un piano. Beh, La Paz sembra affossarsi in una conca. Non fatevi ingannare dall’aspetto scosceso e dalle vette all’orizzonte, vi trovate comunque oltre i 3600 metri di altitudine (700 metri sopra il Gran Sasso, per capirsi).
Vi convinceranno a scapicollarvi per la “strada della morte” in bicicletta, e altre attività che tanto appassionano il backpacker medio.
Di certo avrete voglia di compagnia occidentale nel caso in cui decideste di scalare il monte Potosì. Penserete che ormai siete acclimatati all’altitudine, che tra i quattro e i seimila mila metri non cambi poi tanto. Che una scorta di foglie di coca da succhiare in un grosso bolo tra la guancia e le gengive ha permesso ai piccoli inca di saltellare tra i picchi andini come Heidi su un lama in calore.
Si pensano tante cose. Mentre riprendete fiato a ogni passo (cercando di ricordare chiccazzovelohafattofare di spendere il budget di una settimana per patire come in un’ultra-maratona con i postumi da sbornia di Baileys) la vostra guida vi aspetterà impaziente, con lo sguardo di chi si fumerebbe anche una sigaretta. Qualcuno del gruppo non arriverà in cima e questo vi gratificherà quasi quanto il sorgere dell’alba sui picchi aguzzi, il vento che sembra fischiettare gli Inti-Ilimani e la rielezione di Evo Morales.