Il cornetto
(dove si indaga cosa fa di un padrone il suo essere “padrone”)
E per quanto riguarda lei in persona se ne sta ancora più in là, occupando coi gomiti metà del bancone. Poi di colpo si stacca e attraversa tutto lo spazio come se non ci fosse nessuno. Ma ci sono io. Che mi faccio da parte, mentre lei continua a parlare con la vecchia barista dal naso camuso.
Stavano già parlando di qualcosa quando io sono entrato e hanno continuato a farlo. Non capisco di cosa si tratti, e neanche mi interessa. Sono là solo per fare colazione e poi andarmene.
Quella donna, adesso ricordo, l’ho già incontrata alcune settimane fa, davanti a quello stesso bar. Era con un uomo dai tratti asiatici, filippino, o forse indiano, adesso io non lo saprei dire con esattezza, malgrado la distanza che separa quei paesi.
Ricordo per certo che c’era lei, la donna, che chiamava l’asiatico per nome. Ripeteva a voce alta quel suo nome esotico che adesso non ricordo e lo trattava con rispetto, cioè con il rispetto che si riserverebbe a uno schiavo. Lo chiamava sempre per nome e gli dava degli ordini. Forse le sue frasi avevano il tono di domanda, ma non erano delle vere domande. Lei se ne stava là davanti al bar con questo suo servitore asiatico e ricordo anche di aver pensato che era bello non aver nulla a che fare con lei.
Adesso la donna è di nuovo vicino a me, che parla con la barista e occupa quasi tutto lo spazio disponibile. Ho chiesto il mio caffè macchiato come ogni mattina e preso un croissant dal vassoio. La barista dal naso camuso mi ha rivolto la sua attenzione, maggiore rispetto al solito, sotto lo sguardo della padrona.
Io sono il cliente, e dopo che ho fatto la mia richiesta le due donne hanno ripreso a parlare di qualcosa che non mi interessa e sono stato solo un po’ infastidito dal fatto che lei occupasse quasi tutto lo spazio disponibile e parlasse con un tono di voce inutilmente alto, ma mi è indifferente la sua vita, i suoi vestiti cari, i suoi orecchini d’oro e la sua borsa di Prada. Oggetti che servono a occupare lo spazio che lei non può occupare personalmente.
Poi la donna ha chiesto alla barista dove si trovasse Agata, o Agnese, o un altro nome femminile con la A. Ma questo la barista non lo sa. Come potrebbe sapere dov’è A.? La barista è dietro al bancone che ha da fare le sue cose. Deve preparare i caffè e la colazione per me, dare il resto ai clienti, non può sapere dove sia A., ma la padrona lo chiede lo stesso. Lo chiede anche se sa bene che la barista non ne ha la più pallida idea. Poi, sempre con quello spirito là, chiede alla sua dipendente il permesso di passare dietro al banco, nella stanzina sul retro.
Alla barista non importa. È una barista vecchia, con una faccia da africana, pur essendo bianca, e anche se non è buona sa farsi volere bene dai clienti. Non è nemmeno una brava barista, ma nessuno la manderà mai via. Certo che la signora può passare dietro, risponde, ma non pensa che A. si trovi là, anzi, sembra esserne certa. La signora continuando a parlare va dietro, nel magazzino e per un momento il bar della mattina torna a essere il solito bar della mattina: vuoto, con spazio e silenzio. Ma è un attimo.
La donna riemerge dal retro e chiede alla barista se il croissant che sta là sia stato messo da parte per qualcuno o se invece è là perché quello di ieri.
“Esatto”, risponde la barista che non la teme, lasciandoci incerti se sia per la prima o la seconda opzione. “Di ieri”, aggiunge dopo un po’. Allora la donna dice che ne prenderà un pezzetto, del vecchio croissant, e sarà la sua colazione. Che inzupperà in un caffè macchiato tazza grande con poca schiuma (quante richieste per un caffè, penso, una cosa in fin dei conti semplice) e non farà caso alle parole della barista anziana con il naso camuso, ma bianca, che le dirà: “ma prenda una di quelle di oggi”; o meglio ci farà caso, dal momento che giustificherà la sua scelta con: “no, tanto ne prendo giusto un pezzetto”.
Però il suo è chiaramente un discorso fasullo: lei il cornetto lo mangerà tutto, inzuppandolo per renderlo più morbido.
Io lì per lì guarderò la scena senza pensare a niente, mentre i suoi orecchini d’oro oscillano vicino al mio viso. Una parte di me ignorerà deliberatamente quella scena e continuerà il complicato processo di risveglio. Solo una parte della mia mente registrerà quel dato come decisivo e mi porterà a scrivere, ore dopo: non sono gli orecchini d’oro, o lo schiavo cingalese, è quella pasta vecchia da buttare che fa di lei la padrona.