Le nostre case aspettavano l’arrivo dell’esaminatore verso la fine dell’estate. Quando le giornate cominciavano ad accorciarsi e la notte il vento percuoteva i muri ci tornava in mente la sua figura. Sarebbe spuntato in fondo alla gola obliqua e avrebbe costeggiato il fiume di pietrisco che dalla gola risale fino alle prime case del villaggio. Avrebbe ignorato il campo di grano e non avrebbe guardato i nidi delle allodole. Si sarebbe fermato in una delle prime case. L’abitante avrebbe aspettato sulla soglia. Sarebbero entrati in casa e scomparsi ai nostri occhi.
Quando il suo ricordo veniva a visitarci ci cominciavamo a preparare. Pulivamo le stanze da cima a fondo. Raccoglievamo quello che avevamo accumulato durante l’anno. Quello che era superfluo lo buttavamo. Quello che era utile provavamo a nasconderlo. Ma nessun posto era abbastanza nascosto. Così ne facevamo dono a qualcuno dei nostri vicini che accettava a malincuore e che spesso donava a noi qualcosa di suo che non poteva tenere. Le case dovevano essere ogni anno identiche all’anno precedente.
L’usura del tempo non era un problema. Una crepa nel muro o un vetro rotto non preoccupavano nessuno. L’esaminatore guardava il danno causato dal vento o dalla pioggia o dalla materia che collassa. Annotava su un quaderno dalla copertina di pelle verde il segno nuovo della casa. Richiudeva il quaderno con un nastro anch’esso verde che penzolava dalla copertina mentre scriveva. Non avremmo più potuto ripararlo. Se il giorno prima della visita si fosse rotto un vetro avremmo dovuto tenerlo rotto per sempre. Perché sempre sul quaderno verde ci sarebbe stato scritto che il vetro si era rotto. Così dovevamo riparare le nostre case prima dell’arrivo dell’esaminatore. E dovevano essere riparazioni o sostituzioni invisibili.
Se avesse trovato un oggetto nuovo l’avrebbe studiato attentamente senza toccarlo. Avrebbe controllato più volte sul quaderno. Sarebbe andato alla pagina precedente e alla pagina successiva. Avrebbe controllato ancora puntando con dolcezza e disattenzione il dito sulla pagina. E poi avrebbe chiesto conto. L’abitante della casa avrebbe risposto: Mi è stato regalato da qualcuno. Avrebbe detto il nome e l’esaminatore avrebbe ascoltato il nome, avrebbe ragionato in silenzio e in silenzio rimasticato quel nome, avrebbe annuito e poi se tutto fosse andato bene avrebbe annotato nel quaderno la nuova informazione. E se tutto fosse andato bene da quel momento in poi l’oggetto sarebbe diventato per sempre parte della casa. Fino alla sua dissoluzione naturale o alla distruzione accidentale. Ma in quel caso sarebbe servita una spiegazione. Se l’esaminatore non l’avesse più trovato ne avrebbe chiesto il motivo. Il mestolo, avrebbe detto. Lo specchio, avrebbe detto. La bottiglia, avrebbe detto. E poi avrebbe ripetuto: Qui manca uno specchio.
L’abitante avrebbe dovuto spiegare. Avrebbe portato esempi e avrebbe chiamato altri a testimoniare. Una volta in una casa si sono radunate una decina di persone. L’esaminatore diceva di non capire. Continuava a chiedere conto. Quella volta mancava un cuscino. L’abitante della casa non sapeva che fine avesse fatto. Man mano che parlava la voce aveva cominciato a tremargli e questo aveva indispettito l’esaminatore ancora di più. Aveva strizzato gli occhi e arricciato la faccia come per un rumore troppo forte o troppo lontano. E allora erano stati chiamati altri vicini. Tutti ripetevano che il cuscino era semplicemente sparito. Tutti lo ricordavano perché era sempre stato lì. Era un cuscino arancione che era sempre stato sul letto. Qualcuno ricordava anche che aveva un angolo più scuro e quasi rosso, anche se nessuno sapeva spiegarsi il perché. L’esaminatore era rimasto in piedi ad ascoltare. L’abitante continuava a gesticolare e si grattava i polsi e strabuzzava gli occhi. L’esaminatore ascoltava e poi quando tutti facevano silenzio diceva con calma e scandendo le parole: Non ho capito però ora dov’è il cuscino. Diceva: Voi capite che il cuscino deve uscire fuori. Diceva: Voi capite che un cuscino da solo non può sparire. E l’abitante ricominciava, più nervoso, avvilito, soffocando scatti rabbiosi. Intorno anche gli altri alzavano la voce. E poi tutti restavano in silenzio perché capivano da una mossa delle spalle o del collo o delle palpebre che l’esaminatore avrebbe parlato. E diceva: Però non ho capito dove si trova il cuscino. Quella sera è diventata notte e nel villaggio l’unica luce accesa era nella stanza da letto di quella casa. Nessuno si sedeva perché l’esaminatore restava in piedi. L’abitante era scoppiato a piangere. Qualcuno era uscito ed era tornato a casa sua. Si era chiuso dentro e si era seduto sul letto nel buio. Aveva chiuso le finestre. Ma poi all’improvviso era finita. L’esaminatore a un certo punto della notte aveva aperto il quaderno. Gli uomini e le donne radunati nella casa avevano visto il polso e il dorso della mano e la punta delle dita raccolte intorno alla penna tracciare un piccolo segno obliquo sopra una parola scritta.
Il quaderno era stato richiuso con un tonfo morbido e il laccio era stato riannodato. L’esaminatore era ripartito per il suo giro. Nonostante fosse notte era andato a bussare alle porte delle poche case rimaste i cui abitanti non avevano osato mettersi a dormire.
Per giorni l’abitante che aveva perduto il cuscino si era angosciato in casa timoroso di un’inclemenza tardiva. La gente intorno lo guardava come si guarda un violento incorreggibile o come si guarda un pazzo che annega indifferente. Ma poi niente è successo. L’abitante temeva soprattutto, aveva detto una volta nella bisca, di ritrovare accidentalmente il cuscino che era stato dato per perso. Tutti concordavano che in quel caso avrebbe dovuto distruggerlo.
L’esaminatore non mostrava interesse per nulla che fosse organico. I suoi piccoli occhi blu – così distanti che un bambino avrebbe potuto posare tra loro un pugno intero – non sembravano registrare le piante o gli animali della casa. Non notava le donne incinte o i bambini che crescevano. Ignorava le urla dei neonati. Ma conosceva le morti. Quando qualcuno moriva non chiedeva nulla. A un certo punto della visita diceva: Dovreste avere una chiave in più.
Allora l’abitante sopravvissuto gli dava la chiave che il morto non avrebbe più usato. L’esaminatore la intascava e proseguiva il giro sulle gambe larghe e corte che ondeggiavano nei pantaloni flosci.
Quando l’ultimo abitante della casa moriva, l’esaminatore chiedeva la chiave a uno dei vicini che l’aveva presa in consegna. Tornava nella casa vuota e perlustrava le stanze e i corridoi. Nessuno si avvicinava alla casa. Spalancava le finestre e le porte e poi le richiudeva. Alla fine sfilava dalle tasche le chiavi degli abitanti morti della casa e le posava nel cassetto del mobile che si trovava in ogni ingresso. Usciva e chiudeva la porta con la chiave dell’ultimo morto della casa. Poi la appendeva al piccolo gancio che tutte le nostre abitazioni hanno sul muro esterno accanto alla porta principale. Sull’anello di ogni chiave è infilato un sottile laccio nero che si adegua perfettamente al gancio. Questo laccio è importante quanto la chiave a cui è attaccato. La chiave dell’ultimo morto della casa resta appesa per tutto l’inverno al gancio accanto alla porta.
E poi appena il gelo si schiude arriva qualcuno a occupare la casa abbandonata. È un uomo o una donna oppure una famiglia. Si insediano nella casa e per i primi giorni non parlano con nessuno. I loro occhi scattano spaventati a imparare ogni cosa intorno. Poi piano vengono in visita alle case dei vicini. Se ci sono bambini giocano tra loro. Gli adulti bevono insieme la sera e parlano a bassa voce. Portano cibo in dono e diventano parte di noi. Stanno attenti a non toccare nulla della casa in cui vivono. Non costruiscono e non riparano. Come noi tutti aspettano. Custodiscono la propria chiave. Tutto dipende dalla loro chiave. Nessuno di loro può perdere la chiave. Il laccio non si deve spezzare. Quando la sera rientrano in casa non possono fare a meno di guardare accanto alla porta il loro gancio ancora vuoto.
Testo: Andrea Esposito
Immagini: Sara Flori
Perché nessuno commenta mai?
Questo racconto, per esempio, è interessante. Sarebbe bello discuterne, o quanto meno sentire l’opinione degli altri. Io personalmente l’ho trovato ben scritto e ben riuscito. L’atmosfera che si crea fin da subito è quella che rimane fino alla fine e la coerenza di questo equilibrio e piacevole da riscontrare in un racconto.