C’è una parola che diverse volte mi ha messo nei guai: “patria”.

Ricordo un martedì mattina d’inverno a scuola, la nebbia fuori dalla finestra, la Guala con un Meridiani di Leopardi leggeva gli Idilli. Nell’intervallo ero andata in bagno, si fumava seduti sul davanzale, tutto un entusiasmo nella testa.
Tornati in classe la Guala aveva ripreso la lezione. Il martedì le prime tre ore erano di letteratura e dopo due di ginnastica, la giornata migliore della settimana, per me. Quel martedì, contenta com’ero degli Idilli, la terza ora la Guala aveva cominciato a spiegare la canzone civile All’Italia.

O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l’erme
Torri degli avi nostri,
Ma la gloria non vedo…

La canzone proseguiva e la Guala andava avanti. Avevo portato gli occhi fuori dalla finestra, i rami scuri degli alberi nella nebbia bianca, la mente chi sa dove.
Ma a parte quella poesia, che non l’avevo neanche letta, l’interrogazione poi era andata benone. In biblioteca avevo preso il Meridiani e l’avevo letto per intero, anche le parti non fatte in classe, avevo preso nove e mezzo.
Poi alla maturità il professore di lettere era esterno. Avevo fatto un buon tema. Mi chiede di cosa voglio parlare, mi lascia la scelta.
“Leopardi”, dico.
“Bene”, fa lui. Apre l’antologia alla pagina della canzone civile All’Italia.
“Mi parli della patria per Leopardi, signorina.”
Non dico scena muta, ma insomma, quasi.

Un’altra volta che si parlava di patria, ricordo, era ancora più indietro, 1988.
Scuola elementare di Vascagliana, quaranta bambini in tutto per una frazione di trecento abitanti in totale. Due aule e un cortile, prima e seconda in una stanza, terza quarta e quinta in un’altra.
Ci avevano portati in gita, due viaggi separati, i piccoli all’Artesina, la fabbrica del gelato, mentre i grandi, terza quarta e quinta, in centro al paese di San Damiano, visita ai monumenti.
Per monumenti a San Damiano si intendono una chiesa e il monumento dei caduti. Nella strada per raggiungerli, sotto i portici, ognuno metteva il naso in una bottega per salutare la mamma panettiera, il nonno ferramenta, la zia verduriera. Personalmente non avevo nessuno da salutare, i miei non lavoravano a San Damiano, però ero entrata con Nadia nella drogheria di sua zia, ci aveva offerto un estatè e una barra di cioccolato.
Arrivati in piazza ci aspettava il bibliotecario, che quel giorno sarebbe stato la nostra guida.
Avevamo finito le merende alla svelta, quindi ci eravamo sistemati in fila per due e la maestra si era raccomandata: “Orecchie bene aperte, bambini!”

 

Eravamo entrati nella chiesa di San Giuseppe, una chiesa barocca del Settecento. Il bibliotecario raccontava le figure sulla cupola, la storia di San Giuseppe. Il santo che si sposava, andava a dormire e sognava un angelo, dopo faceva un viaggio in Egitto e alla fine moriva.
Praticamente nessuno lo stava a sentire, invece a me piaceva la storia che raccontava, e poi aveva una faccia rotonda, rossa, sembrava un gatto dei cartoni animati.
Solo che poi Giacomo Calorio e Gaspare Tini, in fila dietro di noi, avevano cominciato a bussarci sulla schiena. Loro bussavano e a noi scappava da ridere, così alla fine ci siamo girate a sentire cosa volevano.
Proponevano il cambio della fila, Gaspare Tini voleva tenere la mano di Nadia e Giacomo Calorio la mia.
Ci eravamo consultate, eravamo migliori amiche e sul pullmino per tornare a Vascagliana ci saremmo di nuovo sedute vicine. Così senza farci vedere dalla maestra io ero saltata nella fila dietro e Gaspare Tini in quella davanti.
Dopo la chiesa ci avevano portato dal monumento dei caduti, il bibliotecario continuava a parlare, ogni tanto sentivo qualche parola, specie quelle con la esse, aveva la esse che sibilava. Per esempio avevo sentito che la patria è la vostra casssa, ma ormai la mia testa era tutta nella mano che teneva quella di Giacomo Calorio.
Solo che poi, dopo, quando stavamo tornando a Vascagliana col pullmino, la maestra aveva assegnato il compito, Tema: “Che cosa è per noi, bambini degli anni Ottanta, la patria?”Quel pomeriggio avevo pensato tanto. Era un’età in cui tenevo a fare bella figura a scuola, e soprattutto la maestra sapeva vendicarsi con delle punizioni che facevano passare la voglia di ridere. Eppure niente, non sapevo.
Allora per rimediare, per non andare a scuola senza il tema, avevo scritto un foglio protocollo intero sulla storia di San Giuseppe. E per fare ancora meglio, per ogni tappa della vicenda, il matrimonio, il sogno, il viaggio in Egitto e la morte, avevo fatto vicino un disegno.
La mattina dopo in classe tutti i bambini di terza quarta e quinta, venti in tutto, ciascuno aveva letto il proprio tema davanti al bibliotecario che era stato invitato a sentire i nostri componimenti.
Patria, diceva qualcuno, erano le colline rigogliose coi vigneti, un altro l’Italia gloriosa e i suoi valorosi caduti, Nadia aveva detto l’Italia e i suoi tesori dell’arte (sua cugina studiava al liceo artistico e sicuramente c’era la sua impronta), per Gaspare Tini la festa del santo patrono San Bartolomeo ad agosto.
Quando era arrivato il mio turno avevo letto della chiesa di San Giuseppe, la maestra aveva detto che ero andata fuori tema. Avrei saltato l’intervallo per riscrivere il componimento.
Così quando era suonata la campanella tutti erano volati in cortile a giocare a pallone e a mangiare il gelato che l’Artesina, la fabbrica del gelato, aveva offerto in seguito alla gita dei piccoli. E io ero stata un buona mezz’ora, l’intervallo a Vascagliana era molto lungo, a pensare cosa significava la patria per me, bambina degli anni Ottanta. Avrei saltato la colazione, se non fosse stato per il bibliotecario che era entrato a portarmi una coppetta di gelato. Gusti limone e pistacchio. Il pistacchio non mi piaceva ma l’avevo mangiato lo stesso per evitare che si squagliasse, combinasse qualche pasticcio e la maestra si infuriasse ancora di più.
Comunque anche dopo la colazione non mi era venuto in mente cosa scrivere. Neanche a sentire i temi dei miei compagni mi ero chiarita le idee.
Per la maestra il tema migliore era stato quello in cui Vittorio Valsania. Diceva che la patria era la sua terra, dove erano nate tante persone importanti come per esempio Gianni Agnelli e Pietro Ferrero.
Ma a me non veniva in mente niente. Pensavo a cosa avevo sentito il giorno prima vicino al monumento dei caduti mentre tenevo la mano di Giacomo Calorio, la patria è la casssa. Niente. Casa mia era la cascina dove stavo coi miei nonni e mia zia, i cani, i conigli. Era la patria?
Eppure non volevo rischiare un’ulteriore punizione. Magari fermarmi a scuola anche al pomeriggio come ogni tanto toccava a Bruno Cotto o a Gaspare Tini.
Così avevo cercato di prendere spunto dal tema di Vittorio Valsania, senza essere troppo esplicita, non volevo che fosse chiaro che stavo copiando una sua idea.
E insomma avevo scritto il mio tema per cui la mia idea di patria era la mia terra dove c’erano tante cose importanti come per esempio la Fiat Panda (automobile che effettivamente guidava mio nonno in quegli anni) e la Nutella.
Mi era sembrata una buona strategia, la Panda ad Agnelli come la Nutella a Ferrero.Dopo la ricreazione avevo letto il mio tema col terrore addosso che la maestra si accorgesse che avevo copiato l’idea di Vittorio Valsania.
Invece non se ne era accorta, però ancora peggio. Si era infuriata. Gonfiava le narici e soffiava come un cinghiale, aveva cominciato a urlare che non era possibile che per me, bambina degli anni Ottanta, la patria fosse la Nutella. Facevo vergognare lei e la scuola intera davanti al bibliotecario che ci aveva fatto l’onore di parlarci della patria e renderci visita.
Insomma stavo già per prepararmi a una bella punizione quando per fortuna il bibliotecario era intervenuto a prendere le mie difese. In fondo un po’ era vero, la Nutella era un prodotto conosciuto in tutto il mondo, aveva detto, qualcosa di vero c’era, nel mio tema.
E allora grazie al gatto rosso la maestra aveva lasciato perdere, ma insomma, da quella volta, fino ancora agli anni di università, ogni volta che tornava l’occasione di parlare della patria per me c’erano dei guai.
E oltretutto se effettivamente col tempo ne avevo compreso il significato letterale, il concetto continuava a restare vuoto.E poi nel 2007 avevo finito di studiare. L’anno dopo, il 2008, è cominciata la grande recessione che i giornali, la televisione, internet e tutti hanno preso a chiamare crisi.
I primi tempi ho cercato di fare il lavoro per cui avevo studiato. Poi ho abbandonato l’idea ed è cominciato il periodo in cui rispondevo a ogni annuncio di lavoro senza ricevere a mia volta risposta.
Dal 2009 al 2011 ho scritto tesi di laurea su commissione per un centro di formazione che offriva questi servizi agli studenti fuori corso.
L’ultima tesi su cui avevo lavorato era per una triennale. Combinazione si intitolava: “Benedetto Croce, Una parola desueta: l’amor di patria”.
In quel periodo stavamo dando il bianco in cascina e per stare tranquilla andavo in biblioteca. Il bibliotecario era ancora sempre il gatto rosso che avevo conosciuto alle elementari, vent’anni prima.
Stava in biblioteca insieme alla madre che si metteva vicino alla finestra e lavorava a maglia mentre lui faceva il sudoku, parlavano mai.
Il tempo che io avevo scritto la tesi, una decina di giorni, lei aveva finito un maglione, rosso corallo di lana grossa. E il giorno stesso che l’aveva finito il bibliotecario l’aveva infilato.
Chioma, barba, lentiggini e maglione, tutto rosso. La madre invece era tutta bianca, anche la barba, anche se donna aveva la barba.
A ogni modo si stava bene in biblioteca, non c’era mai nessuno, giusto qualche bambino che entrava per usare il computer. Se non altro meglio della cascina, dove ogni momento qualcuno entrava in stanza per chiedere qualcosa.
Ma quella è stata l’ultima tesi perché poi il centro di formazione non mi ha rinnovato il contratto. Sarà una combinazione, ma anche lì si parlava di patria. Comunque.
Ho fatto il giro delle scuole, delle redazioni dei giornali, delle case editrici, poi delle biblioteche, le librerie, via via i negozi di quaderni, poi di cartelle, alla fine presentavo la mia domanda di lavoro a supermercati e ristoranti.
Fin che nel frattempo è arrivato il 2012 e ho lasciato l’Italia, sono diventata un’emigrata. O un’immigrata, a seconda.Da casa mia, nella campagna piemontese, con la macchina carica di borse, scatole e la bicicletta legata sopra il tetto ho raggiunto la Liguria, percorso la riviera, costeggiato la Costa Azzurra, e mi sono fermata nella prima città abbastanza grande che ho incontrato, Marsiglia.
Probabilmente il fatto di essermi trasferita comodamente in macchina, con tutte le mie cose, anche le più inutili come la coperta di lana e la fisarmonica che suono ogni mille anni. Oppure la semplicità nelle comunicazioni, o anche il fatto di avere trovato alla svelta un lavoro per cui le giornate passano rapide. E che Marsiglia è una città con trecento giorni di sole l’anno, il cielo celeste e il mare altrettanto celeste, dove si può fare il bagno buttandosi dagli scogli e incontrare molti pesci che ti vengono vicino.
E poi anche che ogni due, tre mesi torno in cascina e quando riparto per Marsiglia ho il cofano carico di marmellate, grappe e conserve che fa mia nonna.
Insomma, per una serie di ragioni non ho mai avuto l’impressione di essere emigrata, o immigrata, a seconda.Gli emigrati partivano sulle navi con centolire nelle tasche, nella mia idea. E la domenica sera non stavano su skype con Nadia per commentare i risultati del Toro e della Juve. La sola cosa su cui non siamo mai state d’accordo.
E tutto questo per dire che nonostante nei giornali si faccia gran parlare di flussi migratori e cervelli in fuga, magari anche per una mancanza di acume da parte mia, ma mai ho avuto l’impressione di far parte di quelle migrazioni e fughe.
Però poi ieri ricevo una telefonata da mia zia.
Si parla del più e del meno. Mi racconta che sono andati a raccogliere le castagne e ora stanno accendendo la stufa. Si sono radunati per festeggiare il compleanno di mia cugina, è diventata maggiorenne. Mio cugino, al primo anno di alberghiera, sta preparando le tagliatelle, mia nonna cuce sul divano. Il cane Tobia ha ammazzato un altro gatto che è entrato in cortile e gli è andato vicino per giocare, Tobia gli ha morsicato via la testa.
E poi sento mio cugino dire che le tagliatelle sono pronte e mentre ci stiamo salutando mia zia si ricorda di informarmi di una lettera del comune.
Veloce legge il contenuto, parlano di residenza, sono desolati, ma non risulta, mi sollecitano a chiamare il prima possibile per risolvere la situazione, il referente della questione il signor Camillo Camisola.
Le chiedo se lo conosce, mia zia conosce praticamente tutti in paese.
Il nome le dice qualcosa, ma non le sembra.

E quindi stamattina prendo il telefono e cerco di chiamare il comune di San Damiano. Dico cerco, perché prima che rispondano passa circa una mezz’ora.
Poi risponde una donna con la voce trafelata, molto gentile, si scusa, dice che da sotto sentiva il telefono ma oggi è giornata di mercato e allora…
Il collegamento con la giornata di mercato non è chiaro ma insomma espongo la mia questione, spiego della lettera e nomino il referente Camillo Camisola.
La Voce si scusa ma ribadisce, è giorno di mercato e lui non può venire al telefono. Poi al pomeriggio c’è l’inventario quindi si passa a domani, ma domani è martedì,  giorno di riposo, posso richiamare mercoledì, tra le dieci  e le undici.
Faccio presente che la lettera aveva un tono di grande urgenza e che mercoledì tra le dieci e le undici sarò al lavoro. Al che la Voce, sempre molto gentile, mi domanda nome, cognome e telefono per segnarsi un appunto e vedere cosa si può fare.
Mi presento, nome cognome e telefono.
“Ah ma è lei, dov’era finita? Sono due mesi che Camisola la cerca. Aspetti un momento che vado a dirglielo.”
Cerco di fermarla, la chiamata è internazionale.
Ma lei è già sparita. Partono le Quattro stagioni di Vivaldi. Guardo l’orologio digitale sul forno, 10.45.
Lo immagino talmente bene il lunedì mattina a San Damiano, gli uomini radunati al bar Piemonte che parlano di umidità, mini lepri, lumache e moschini che rovinano i raccolti. Sotto i portici i banchi dei vestiti. Estati intere con Nadia, ogni lunedì mattina avanti indietro per il mercato. Si comprava il “Cioè”, un bracciale di gomma, un tatuaggio cancellabile, poi il primo reggiseno e il mascara blu.
A mezzogiorno meno un quarto puntualissime al monumento dei caduti. Appuntamento con mio nonno che passava a prendere “la Stampa” e ci portava a casa, salivamo tutte e due dietro per sfogliare il “Cioè” senza che lui vedesse dentro.
Intanto sono le 10.51 e le Quattro stagioni riprendono dall’inizio. Se tra un minuto non risponde metto giù.
Mi viene in mente quel lunedì che Nadia era ad Alassio e Giacomo Calorio mi aveva chiesto se facevamo un giro ai giardini, ci eravamo seduti sulle altalene e mi aveva domandato chi mi piaceva di più nella classe.  Non gliel’avrei mai detto che era lui che mi piaceva di più nella classe e anche di più in assoluto. Avevo risposto che non c’era nessuno che mi piaceva.
E avevamo cominciato a giocare con l’acqua della fontana fino a essere bagnati anche sulla testa e non avevo capito più niente fino quando la campana di San Giuseppe aveva preso a suonare mezzogiorno.
Allora ci eravamo messi a correre per raggiungere la piazza ma mio nonno davanti al giornalaio non c’era. Ero andata al bar Piemonte, avanti e indietro per tutto il paese ma non c’era, avevo cercato la Panda nera nel parcheggio, non c’era.
Alla fine mi aveva portata a casa la zia di Nadia, all’una, dopo aver chiuso il negozio.
Quando ero arrivata a casa, ancora bagnata, mio nonno aveva lasciato la tazzina con mezzo caffè sul tavolo ed era andato dritto in camera. Non aveva nemmeno aperto “la Stampa”, era ancora chiusa in quattro sul davanzale del telefono.

“Signorina? Pronto. Pronto.”
“Eccola!”, rispondo forte ma la Voce non sente.
“Signorina? Pronto. Pronto.”
Sono le 10.58, se adesso stacca non richiamo più.
Invece per fortuna mi sente e riprendiamo la comunicazione.
“È molto fortunata – dice – Sono riuscita a trovare Camisola, adesso non può ma oggi pomeriggio viene in Comune apposta per lei”.
Dice di chiamarlo tra le 15.00 e le 15.15, non più tardi che dopo fa l’inventario. Ribadisce, sono proprio fortunata, viene apposta per me.
Inutile il tentativo di spiegarle che a quell’ora ho una lezione e non posso chiamare.
Niente, disdico la mia lezione che non verrà conteggiata nello stipendio mensile, pazienza. Comincio a essere parecchio curiosa. Va bene che a San Damiano siamo duemila anime, ma che perfino la Voce del Comune sappia di questa lettera mi mette in allerta.
Intanto però approfitto di questa giornata in cui comincerò con due ore di ritardo per andare a fare le spese e già che ci sono, un po’ esaltata dalla notorietà del mio nome e del mio caso in Comune, mi lascio andare e prendo duecento grammi di gamberi.

Poi alle 15 puntuale mi metto al telefono e comincio a aspettare. Il telefono suona, suona.
Alle 15.10 comincio a pensare che sarei dovuta andare a scuola invece di dar retta alla Voce.
Ma alla fine risponde. Risponde praticamente rivolgendosi a me, come se fosse certa di trovarmi dall’altra parte del telefono, e mi passa Camillo Camisola che, ribadisce, è venuto apposta.
Comincio a essere stranita da tante attenzioni. Non so se temere o essere contenta.
Ma ho presto la sensazione di dovermi invece preoccupare. Camillo Camisola è meno gentile della Voce.
Dove ero finita, il telefono mi dice irraggiungibile. Sono due mesi che cerca di contattarmi e non c’è verso. A casa irreperibile. Sparita, dice.
Mi pare di riconoscere la sua parlata, forse una maniera che somiglia a tanti. E che non trovo così piacevole, anche mio cugino sta cominciando a parlare in quel modo, un accento troppo forte.
Camisola dice che ho causato ritardi, che non possono stare tutti ad aspettare me.
“Tutti chi?”, tento di ribattere, ma Camisola continua a inveire.
Quindi comincia con una serie di domande precise: nome, cognome, data di nascita. Ma se perfino la Voce mi ha riconosciuta, perché riprende dal principio con le generalità?
Eppure Camillo Camisola incalza, stato civile, titolo di studi, professione. Cerco di tirarmi fuori dall’inquisizione chiedendo a mia volta di cosa si tratta, la ragione della conversazione, ma lui non dà tregua.
“Professione?”, torna a domandare.
“Insegnante.”
“Non corrisponde”, dice.
“In che senso?”
“Qui risulta redattore tesi di laurea.”
“È quello che facevo prima. Ma dov’è che risulta?”
“Sul formulario. Pieno di inesattezze.”
Non so di cosa stia parlando, di quale formulario. Eppure quando torno a chiedere riparte l’investigazione.
“Insegnante, dove?”
“Al liceo.”
“Quale?”
Comincio a innervosirmi. Dico che non posso perdere altro tempo e saluto.
“Guardi che rischia grosso.”
“Cosa intende, rischio grosso?”
“Che se continua a fare la misteriosa il premio lo diamo a qualcun altro.”
Premio? Quale premio? Mi passa la voglia di staccare. Ora voglio sapere quale premio.
Camillo Camisola diventa matto e comincia a parlare con qualcuno accanto a lui, probabilmente la Voce gentile.
Esclusa dalla loro conversazione i minuti passano e il costo della chiamata diventa importante. Ma almeno ricostruisco la faccenda.
Più di un anno prima, quando scrivevo la tesi su Benedetto Croce, avevo trovato il bando per un concorso di racconti inediti, 39° Premio Letterario Fenoglio.
Titolo: “La tua patria, la tua casa.”
Avevo partecipato attirata dal premio, mille euro per il vincitore.

Nel mio testo avevo raccontato quella storia delle scuole elementari, di quella volta che dovevamo parlare della patria e avevo scritto della Panda e della Nutella.
Praticamente avevo raccontato com’erano andate le cose, se non che in quel periodo avevo sotto gli occhi il bibliotecario col maglione rosso corallo e sua madre con la barba bianca, e nello scrivere mi ero fatta prendere la mano.
Nel racconto il bibliotecario era diventato un personaggio di primissimo piano, un gatto rosso antropomorfo, con la forfora e l’alito cattivo. Una specie di satiro che alla fine del testo portava una fascia da sindaco con su scritto “Re dei gatti”. Ecco, lui passava per il paese urlando dentro a un megafono La patriaaaaa, inseguito da una figura con la testa di vecchia e il corpo di capra che gli faceva eco La cassssssaaaaa.
Una serie di scemenze che non avevano nemmeno una relazione con la trama, c’era un minimo di battute da rispettare, ma erano venute fuori bene.
E niente. Non ci pensavo nemmeno più. Avevo mandato il racconto un anno prima, un periodo in cui partecipavo a concorsi di vario genere. Mi ero fatta l’idea che se non trovavo un lavoro sensato potevo per lo meno cercare degli aiuti. E effettivamente non era stata una cattiva idea. Avevo vinto una caffettiera a un’estrazione del Caffè Vergnano, una macchina per fare il pane raccogliendo i bollini della Crai e un buono di libri a un concorso di fiabe per bambini.
Ma questa volta sembra proprio che abbia vinto un premio sostanzioso. Qualcosa che valga la pena aver impiegato una decina di ore a scrivere al computer invece di, per esempio, andare in piscina o a raccogliere i funghi. Meraviglioso.Prima cosa: mi compero un bel cappotto spigato che sono già due anni che voglio sostituire quello nero sciancrato che invece adesso si portano larghi. Seconda, un telefono portatile che faccia le fotografie, terzo, cambio gli occhiali che mi si è abbassata la vista, quarto vado da Patacrêpe e prendo quella con Grand Marnier e gelato.
Per non parlare della soddisfazione di tornare a casa e ritirare il premio in piazza del municipio, davanti al monumento dei caduti, con tutti che mi conoscono e battono le mani.
Insomma penso a tutte queste cose mentre Camillo Camisola continua a blaterare infuriato. Do uno sguardo all’orologio sul forno, sono quindici minuti di chiamata internazionale e a questo punto carica dall’entusiasmo della vittoria lo interrompo per domandare se il biglietto del treno me lo rimborsano.
In fondo è normale, se uno si deve spostare è normale chiedere il rimborso. Mica possono premiare il vincitore se il vincitore sta a cinquecento chilometri. Soprattutto col fatto che il treno con tre cambi, Nizza, Ventimiglia e Genova, andata e ritorno, costa praticamente un quarto del premio.
Già penso a mio cugino che mi prepara le tagliatelle e mia cugina che mi porta a fare un giro con la macchina nuova e mia nonna che mi faccio attaccare il bottone al golf bordeaux. E magari mando anche un messaggio a Giacomo Calorio se per caso è da quelle parti e vuole bere una birra.
Dopo le scuole non ci siamo praticamente più visti per degli anni. Poi prima che partissi ci siamo di nuovo ritrovati e passato delle sere che delle volte quando di notte faccio dei sogni le sogno ancora. E anche se poi abbiamo perfino litigato, per via che in effetti non ci siamo intrigati quanto avremmo voluto, perché di nuovo ho fatto come quella volta sulle altalene, che ho negato quanto mi piaceva stare insieme con lui, la preziosa insomma, a ogni modo, adesso ho cambiato idea e quando torno gli mando un messaggio se beviamo un bicchiere.
E mentre sto pensando che un po’ mi fa emozione l’idea di vederlo dopo un anno che perfino dai contatti skype mi ha eliminata, alla mia domanda del rimborso Camillo Camisola risponde con un’altra domanda.
“Indirizzo di residenza?”
“Vascagliana 112 bis, San Damiano d’Asti.”
“Ma allora perché parli di rimborsi?”
È passato a darmi del tu, un buon segno, credo, si sta addolcendo.
E così gli spiego che sono a Marsiglia e che tra l’altro tutte queste telefonate internazionali avranno anche un bel costo, ma non è grave, sono felice di avere vinto questo concorso eccetera.
Lui però interrompe. Come faccio a sapere di avere vinto?
L’ha detto poco fa alla persona con cui stava parlando.
“Fermi tutti. Dice. Qui c’è un’infrazione del regolamento.”
“Come sarebbe, un fuori gioco nel concorso? Se ha detto che ho vinto, quale infrazione?”
“Non ci siamo. Bisogna rivedere tutto, in ogni caso tu sei fuori.”
È matto. Come sarebbe che sono fuori se un momento prima avevo già vinto un bel cappotto, il telefono, gli occhiali, la crêpe e la serata con Giacomo Calorio? Mi appello.
Si può fare ricorso? Faccio ricorso. Ho vinto il premio. Mio cugino mi sta già preparando le tagliatelle, mia zia sta già cambiando le lenzuola. Niente da fare. Ormai ho vinto.
E invece Camillo Camisola tira fuori una voce tutta sibilante e dice perentorio che il concorso è riservato ai cittadini italiani.

“E quindi? Io sono cinese? Cosa dice?”
“Non conta. Tu sei un’espatriata.”
“Cosa cambia?”
“Cambia. La fantasia galoppa e la realtà si distorce”, dice.
E niente. Da lì in avanti non c’è più verso di ragionare con questo Camillo Camisola che a quanto pare non vedeva l’ora di togliermi il premio dalle mani.
La telefonata va per le lunghe e se non comincio a pedalare rischio anche di presentarmi in ritardo a scuola.
Saluto e provo a risolvere la questione direttamente con gli organizzatori del concorso.
Tutto il giorno mi rimane in testa questo premio che ormai ce l’avevo nelle mani e adesso vogliono portarmelo via con la scusa che sono espatriata.
E allora la sera torno a casa e apro internet, entro nel sito del Comune e comincio a leggere la sezione del premio. Leggo tutto il regolamento, da nessuna parte c’è scritta la storia dell’espatrio. Tanto più che il tema del concorso è proprio la patria. È un valore aggiunto stare fuori, no? Uno sguardo esterno. Cosa c’entra distorcere?
Oltretutto in giuria ci sono due scrittori piemontesi che mi piacciono e se hanno scelto il mio racconto mi fa anche piacere. Ma poi soprattutto il cappotto, il telefono, gli occhiali e la cena fuori.
Vado nella pagina dei contatti per cercare di inviare un reclamo.
Sono indecisa se scrivere alla direzione o all’organizzazione. Nel dubbio scrivo a entrambi.
Compilo una bella mail dove espongo la questione e poi aggiungo una serie di affermazioni per convincerli del mio amor di patria.
Che la crisi economica mi ha costretta a allontanarmi, ma che nella nuova città francese non mi trovo granché bene. Ne ho abbastanza del mare e mi mancano le colline, ne ho abbastanza del sole e mi manca la nebbia, ne ho abbastanza della gente che ti parla senza averti visto prima e mi mancano i miei cari. La famiglia innanzitutto, ma anche gli amici e i compaesani, e poi ne ho abbastanza del pastis e mi manca la barbera. Insomma, tutta una mail per raccontare che nella mia mente solo ricordi positivi ho di San Damiano, solo amore per la mia terra e i suoi abitanti. Mi spingo oltre, cito anche Leopardi, O patria mia…

Avrò fatto un bell’effetto penso, come fanno a eliminare qualcuno che tanto si sente legato al suo paese, alla sua casa? Sì, un’espatriata sono, ma con nostalgia, merito di vincere.Non passano cinque minuti che ricevo la risposta:

Gentilissima Franco Carlevero,
nonostante il parere favorevole di alcuni giurati sostenitori del suo racconto, l’organizzazione contesta l’assegnazione del premio a un cittadino espatriato, insolente e dalla fantasia mendace.
Un cordiale saluto,

Camillo Camisola, segretario del premio Fenoglio

nonché il bibliotecario.

Testo:
Gessica Franco Carlevero
Immagini: Bernardo Anichini

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