Clara è un pastore tedesco di sette anni, e l’ultima volta che Vincenzo l’ha pesata era quasi trenta chili.
Martedì
Di mattina Vincenzo ha lavorato sodo. La fatica fisica gli ha messo una gran fame. Oscar lo anticipa: “Stacchiamo e ci mangiamo un panino? Così mi racconti la telefonata. E io ti faccio vedere una cosa”.
“Mangiamo, sì, ho fame. Quel bar là all’angolo?”
“Dài. Allora? Cosa voleva?”
Vincenzo e Oscar si incamminano.
“Te l’ho già detto: non lo so. Ci vediamo domani perché mi deve parlare.”
“Era incazzato?”
“Ma no. Dopo la storia dell’idrante l’ho incrociato un sacco di volte, in gradinata, e non mi ha mai detto niente. Quindi. La cosa che dovevi farmi vedere?”
Attraversano la strada.
“Quando siamo seduti. Combattimenti? E quel torneo?”
“Fine giugno.”
“Madonna come mi prude.”
“Cosa?”
Entrano nel bar. A destra il bancone, con tre sgabelli: sui primi due, una coppia sulla cinquantina; a sinistra quattro tavolini, vuoti, appiccicati al muro. C’è silenzio. Oscar biascica un saluto al barista, scosta una sedia del secondo tavolino, il barista risponde annuendo prima a Oscar poi a Vincenzo, Oscar si siede, Vincenzo fa un cenno della mano in direzione del barista e si siede anche lui.
Si levano le giacche. Oscar si toglie anche la felpa. Un intricatissimo tatuaggio gli prende tutto il braccio. Si solleva la manica della maglietta sulla spalla, dove il tatuaggio termina.
“Allora?”
Vincenzo lo guarda meglio. È un drago, che sale a spirale dal polso di Oscar. Attorno al drago, motivi floreali, altri animali fantastici, spade, ideogrammi, simboli e arabeschi.
“Quanto ci hai messo?”
“Due mesi. Cinque sedute. Bello, no?”
“Cosa significa?”
“Non lo so. È giapponese. Mi piaceva.”
“Quanto è costato?”
“Tanto. Troppo. Ma ce l’avevo in mente da una vita. Ti ricordi cosa dicevo: se me lo faccio, me lo faccio serio.”
“E questo, è serio.”
“Direi.”
“Da chi sei andato?”
“Da Peter. Avvicinati. Guarda i dettagli: non sono pazzeschi? Se un giorno te ne fai uno, vai da lui.”
“Sì.”
Arriva il barista. Ordinano due panini e due birre medie alla spina. Oscar si risistema la manica della maglietta. Guarda Vincenzo negli occhi. Lo indica: “Sai chi ho visto, da Peter?”.
“Chi?”
“Valentina. Si faceva un tatuaggio sulla caviglia. Piccolo.”
“Ah sì?”
“Perché?”
“Ma niente. Finché stava con me diceva di essere contro, i tatuaggi. Le donne.”
“Già.”
“Già.”
“Oh, non è escluso che l’abbia fatto proprio per reazione.”
Il barista spunta da dietro Vincenzo con le birre: “Ora porto i panini”.
Le posa. Torna dietro al bancone. Vincenzo afferra la birra per il manico. Stringe. Guarda le bolle salire in superficie.
“Per me può fare tutto quello che vuole. Ormai non mi interessa più.”
Oscar prende e solleva la sua birra: “Cin?”
“Cin. Stamattina ho trovato ancora quasi tutto il mangiare di Clara nella ciotola. Da ieri è stranissima.”
“Sicuro che non ti servono soldi?”
“E io cosa dovrei fare?”, domanda Vincenzo guardandosi riflesso nello schermo del televisore.
“Venire con noi – gli risponde Ivan – Vogliamo tirar su un gruppo di gente decisa. Pochi ma fidati. Tu cosa dici?”
“Allora ci sentiamo prima di domenica per i dettagli, gli fa Darione. Stammi bene.”
Vincenzo sente vibrare. Posa la cazzuola sul muretto. Si asciuga il sudore dalla fronte con la manica della felpa. Estrae il telefono cellulare. Legge il nome: Valentina. Deglutisce. Fa una smorfia. Inspira. Rifiuta la chiamata.
“Ciao, bambino mio. Riguàrdati. Ciao.”
Scoppia a piangere.