UMID(O)
Una rubrica in collaborazione con Luca Marinelli:
QUELLO CHE MI RESTA DI TE
Marcello unghie perfette, labbra sempre umide, mani sudate su cui si invischiava di tutto, dita che riempivano lo schermo di impronte quando lo avvicinava, mettendosi a sedere composto, per non permettere a nessuno di sbirciare, apriva il noto media fotografico e si escludeva dalle chiacchiere del bar.
Marcello dall’idea in forte diffusione nel suo strato sociale, nella sua fascia d’età, nel suo tempo, che gli apprezzamenti, i likes, i cuori del noto media fotografico, l’atto stesso di cominciare a seguire un profilo, avessero un preciso valore non solo in ambito strettamente monetario, ma soprattutto nell’altro, più delicato, dell’amor proprio, dell’onore, della dignità. Essendo il suo account collegato, unilateralmente, a quello di moltissime donne dai seni e dai sederi sferici, la cui sfericità si poteva ben verificare per l’intralcio debole degli indumenti, senza accorgersene sviluppò un’idiosincrasia per tutto quanto non fosse quella quasi totale nudità. E, fatta aderire meglio la schiena al divanetto appiccicoso del bar, non esitava a rimuovere, con soddisfazione animale, le donne che da troppo tempo non mostravano più abbastanza, che stavano quindi smettendo di esistere, ostinandosi a condividere con un pubblico di masturbatori seriali, di cui Marcello faceva fieramente e inconsapevolmente parte, oltre a prodotti per scopi pubblicitari, quei dettagli della loro vita a cui era impossibile pensare per masturbarsi: cagnolini che oscuravano bassoventri, unghie finemente decorate, perfino libri dalle copertine variopinte, attrezzi per la cura e l’allenamento del corpo, taglieri di pietanze giapponesi.
Gli piaceva iniziare al bar la pratica che avrebbe terminato qualche ora più tardi, nel bagno della casa che ancora condivideva con la madre, con un filo d’acqua a scorrere per coprire il tintinnio della cinghia al ritmo del movimento manuale sul membro turgido. Pochi secondi di un gesto esperto, essenziale, e poi, nella malinconia che seguiva l’eiaculazione, gli piaceva scrivere, alla donna idealmente consumata, qualche offesa, qualche porcheria, ma col trasporto di una dichiarazione d’amore.
Fu così che, in una tiepida notte marzolina, arrivò a scrivere a Silvia Endrigo, una bellissima mora dalla quinta di seno, dal ventre scolpito, dalle labbra gonfie, dalle gambe squisitamente coniche, piene il giusto sulle cosce e sottilissime alle caviglie, dai piedi perfetti, dai dodicimilacinquecento seguaci, dopo aver immaginato di prenderla nella posizione in cui si era mostrata sul media fotografico, quella famosa e associata a diversi quadrupedi, in particolar modo alla pecora, penetrandole l’orifizio anale.
Ma Silvia Endrigo, dopo appena diciassette minuti, mentre Marcello ormai, infilato il pigiama, si apprestava a entrare nel letto, rispose al suo sei la puttana più carina che ho visto dal mercoledì delle ceneri, con un eloquente è la cosa più carina che mi dicevano dalla domenica delle palme, festività in quel momento non ancora ricorsa, a meno che lei non intendesse quella dell’anno precedente. Marcello non se lo chiese. Non aveva mai ricevuto risposta prima d’ora. Lo colse di sorpresa l’imbarazzo, provò a eliminare il messaggio, capì che le regole della chat non gli permettevano di cancellarlo anche per lei, allora fu sul punto di bloccarle l’accesso al suo profilo, ma in quel momento si accorse dell’arrivo di una notifica e l’aprì. Silvia Endrigo gli chiedeva di poterlo seguire a sua volta. Non è facile descrivere quello che provò, ma accettò la richiesta e si affrettò a rispondere comunque stavo scherzando.
Silvia Endrigo era ancora mezza nuda per l’ultimo scatto, seduta in terra poco fuori dai bordi della luce accecante del faro, del piccolo set fotografico domestico, e leggendo la ritrattazione delle parole precedenti quasi le si spezzò il cuore. Pensò seriamente di non rispondere più. Chissà che c’aveva visto in quel messaggio non poi troppo diverso da tanti altri che nemmeno apriva. Chissà perché lo aveva aperto. Marcello Ghiotto, trentasei anni, non certo un adone, ma abitante della nota città costiera, come lei, e con foto in posti non lontani da casa sua, la casa in cui da mesi si era rintanata a ordinare cibo, perlopiù orientale, sul noto servizio di mediazione tra i ristoranti e le persone sole. Rimase trentacinque minuti a pensarci su, a torturarsi le unghie, e poi scrisse qualcosa di cui subito si pentì: comunque io non scherzavo.
Marcello per la risposta imprevista intanto si era masturbato altre due volte sempre pensando a lei, ma mettendo al centro del proprio interesse anziché l’ano, che adesso gli sembrava già troppo volgare, la vagina immaginata perfettamente glabra e al massimo ventiseienne. La ragazza aveva scelto di omettere le informazioni riguardo all’età. La replica di lei lo interruppe nel tentativo disperato di raggiungere la quarta erezione. Allora neanche io cioè che intendi, e continuarono a parlare per tutta la notte in una lingua incomprensibile per chiunque altro, a raccontarsi maldestramente, come si racconta chi non si conosce affatto, e poi il mattino e il pomeriggio successivo, quando decisero di vedersi per la prima volta quella sera stessa sul molo.
Silvia arrivò con cinque minuti d’anticipo sui tacchi più alti che possedeva, col vestito più iridescente, più corto e più scollato. Marcello solo quindici minuti più tardi, avendo dovuto finire, sotto minaccia, tutta la parmigiana di melanzane della madre bassa, ipercattolica e baffuta, e poi inventare una bugia su dove doveva andare tanto di fretta. Con una lima aveva tolto il residuo nero nella regione sottostante alle unghie, che teneva sempre perfette, e appena uscito di casa le mani gli iniziarono a sudare. Indossava una giacca troppo elegante e un po’ lunga che era stata del padre, cucita prendendo a modello un concetto di eleganza superato già alla fine degli anni Settanta. Pantalone abbinato, mocassino consunto, calzino bianco.
Sorvoliamo per pietà sull’intero svolgimento dell’incontro. Riportiamo soltanto, in ordine cronologico, uno scarto d’altezza di venti centimetri in favore di lei, un tentativo goffo di tenersi la mano, una pizza consumata masticando a bocca aperta per continuare a parlare del niente, una rosa strappata con fare razzista dalle mani di un rivenditore bengalese, pagata la metà della richiesta, una proposta di lui di accompagnarla a casa, troppo spinta, fuori luogo, ma accettata. E nonostante questo salirono le scale del palazzo in cui abitava con la leggerezza di due innamorati, e spogliandosi rivelarono lei il corpo mozzafiato, lui un pene già in preda alle convulsioni dell’orgasmo, che espulse con un getto violento il seme sui capelli di Silvia, voltatasi appena in tempo ridendo per la sorpresa e la gioia della propria telecinetica influenza sessuale. Al secondo tentativo lui riuscì e portarlo nella bella mano smaltata di lei, riuscì ad aspettare che la mano facesse su e giù un paio di volte, poi ancora risa e anche abbracci e squallide confidenze. Al terzo tentativo tentarono la penetrazione. Marcello propose con voce appena udibile la posizione del missionario, soffocato da una scarsa considerazione di sé, perché pensò potesse essere quella meno eccitante. Volle indossare, comunque, uno dei dodici preservativi aromatici che aveva portato. Quello al limone perché il limone non gli piaceva. Ma poi vide le gambe dorate spalancarsi, i seni abnormi convergere verso lo sterno quando lei gli si aggrappò alle braccia, il taglio umido del sesso ed ebbe paura di finirci dentro per intero, prese un respiro, pensò alla peluria sul labbro superiore della madre, che si impregnava del sugo degli spaghetti al ragù, così riuscì a portarsi fino all’ingresso e ad entrare, poco prima di venire gridando “mi dispiace”.
Ma a lei non importava poi tanto. Si sentì felice quando lui accettò di restare per la notte, di dividere il lettone profumato. Ebbe la pazienza di aspettare che, con le settimane, le prestazioni migliorassero. Lui mise in gioco l’impegno di cui era capace adesso che era passato dall’altra parte. Adesso una donna che incarnava il suo canone, una di quelle donne che lo ossessionavano intrappolate all’interno del cellulare, gli si mostrava e gli si concedeva in carne e ossa.
In breve fu fidanzamento, con tutto ciò che comporta in termini di responsabilità, di possesso e di ossessione. Tralasciamo il possesso e la responsabilità, del resto facilmente deducibili, per concentrarci sull’ossessione: il tarlo che lo rodeva dall’interno aveva le sue radici nell’incapacità di soddisfare il partner che con tanta rapidità soddisfaceva lui, ma assunse, man mano che il rapporto si fortificava, la precisa connotazione della gelosia, un sentimento in via d’estinzione e quindi di difficile lettura. Anche per l’effetto che Silvia nuda, Silvia spigliata, disponibile e languida, provocava su Marcello per il solo fatto di mostrarsi, Marcello decise che nessun altro, almeno finché lui non fosse riuscito a possederla per intero, dovesse vederne, anche parzialmente, il magnifico corpo. Così le fece come prima richiesta di sospendere, se non proprio cancellare, il profilo dal noto media fotografico. E lei, contro le stesse aspettative di lui, subito accettò. Si lasciò strappare dalla rete e dagli occhi di tutto il pubblico di masturbatori seriali che aveva faticosamente conquistato. Ma, col passare dei giorni, per Marcello fu chiaro che le contromisure non potevano limitarsi a questa. Cominciò a chiederle di vestirsi sempre di più, ad accompagnarla nei magazzini alla ricerca di abiti autunno-inverno di cui i negozi, adeguandosi al cambio delle stagioni, si erano svuotati. Mentre le temperature salivano, la povera Silvia restava sepolta sotto una montagna di tessuti pesanti, assumeva le sembianze di un pupazzo di neve, faceva voltare gli uomini e le donne in strada, al proprio passaggio, per la ragione opposta a quella di un tempo. La sensualità spodestata dal ridicolo. E ne era immotivatamente, follemente, patologicamente felice.
I rapporti sessuali migliorarono, almeno per Marcello, quando capì che gli sarebbe bastato non spogliarla del tutto, lasciarle addosso il pullover, la sciarpa a coprire la parte superiore dei seni, farle sfilare da sola il pantalone e le mutande, prendere la doppia precauzione del buio e degli occhi chiusi. Silvia non sentiva quasi niente. Gli eccessivi accorgimenti, se da un lato la gratificavano conferendole l’aura della cosa custodita, dall’altro le vietavano l’accesso all’unico desiderio che conosceva, quello che scaturiva dal piacere di ostentare il corpo dirompente, intimidatorio, in tutta la sua violenza, per trarne il giusto compenso di odio o di ammirazione. Due occhi soli o migliaia di occhi non facevano alcuna differenza. Marcello poteva sostituire l’intera platea dei dodicimila e passa seguaci. Ma decise di scendere con la lingua nella selva nera della sua pancia, di prenderglielo in bocca guardandolo negli occhi, contravvenendo a una regola, e di fermarsi un attimo prima della fine prematura per dirgli, col tono più dolce che aveva, di non potersi lamentare di niente, la sua vita era migliorata in tutti gli aspetti, di non voler in alcun modo tornare a spogliarsi per altri, di farlo ingelosire, ma di volersi mostrare soltanto a lui, per fare l’amore, per le carezze, per concedersi interamente ed essere presa com’era. Non fu in grado di dirlo con questa consapevolezza, con tale proprietà di linguaggio, che del resto Marcello neppure avrebbe saputo capire. Si espresse malissimo, mangiandosi le parole, prodigandosi in gesti sconnessi dal senso, ancora in ginocchio, parlando come a un microfono, a pochi centimetri dal membro che intanto appassiva.
Messo alle strette davanti alla propria difficoltà, lui la colpì con due schiaffi, le diede della puttana e uscì dalla stanza col proposito di non tornarvi mai più.
Tornò invece al bar, e non raccontò a nessuno dei suoi amici, degli altri masturbatori seriali che frequentava, la conquista incredibile e dolorosa che non aveva saputo governare. Tornò alla tranquillità della masturbazione, alle offese lanciate nel vuoto dopo ogni rapporto immaginario. Madre baffuta che lo tirava giù dal letto a mezzogiorno inoltrato, pasti consumati in silenzio, l’uno di fianco all’altra, ipnotizzati dalla televisione, birra fresca scolata in un sorso davanti al bancone, poi un altro pasto con madre e altre birre e così via, senza pensare. Ingoiato dalla vita di sempre, di nuovo in pace nel suo equilibrio, non gli passò per la testa di prendere qualche precauzione, di bloccare il profilo e il numero del cellulare di Silvia. Restò pericolosamente esposto, e allora il messaggio una notte arrivò: quello che mi resta di te, seguito da un video.
Corse in bagno ancor prima di aprirlo, abbassò la zip e faticò per tirare fuori il pene già in erezione. Il filmato si apriva con Silvia in piedi nella sua stanza, Marcello riconobbe i suoi occhi, unica cosa visibile di lei, per il resto nascosta da strati e strati di vestiti che aveva indossato uno sopra l’altro, tutti quelli che le aveva regalato. Sbottonò il giaccone rosso di lana e lui cominciò a masturbarsi, pensando a quale regalo prezioso fosse quello spogliarello adesso che si trovava al sicuro, che non doveva temere l’immediatezza dei propri orgasmi. Ma subito dopo spuntarono dei piedi nudi, in basso a destra, delle gambe pelose, un fallo più grosso e più duro del suo, due braccia lunghe che riuscivano a sfilare tutti i bottoni dalle asole da lontano, evitando di mostrare il volto. La procedura fu molto lenta e si svolse in silenzio, richiese circa dieci minuti, al termine dei quali Silvia si accertò che la videocamera del cellulare stesse ancora filmando, voltò la schiena all’obbiettivo e si inclinò in avanti fino a toccare il pavimento con le mani. Sempre tenendo questa posizione fece qualche passo indietro, seguendo le istruzioni dell’uomo che intanto controllava l’inquadratura: in primo piano il fiore gonfio dei suoi ventisei anni, poco più su il foro grinzoso del peccato che Marcello aveva soltanto immaginato, e, sempre da destra, spuntò il glande che per l’eccessiva vicinanza restò qualche secondo fuori fuoco, per questo sembrando ancora più gonfio, e seguito dall’asta prese subito la direzione temuta, lottò con la resistenza delle pareti esterne e Silvia iniziò a urlare, entrò con uno scatto e si spinse fino in fondo, fino a dove poteva arrivare, e Marcello, col pisello in mano, cercava una parola che non riusciva a trovare, che lottava nella sua mente col dubbio di non doversi umiliare fino a quel punto, ma non riuscì a trattenersi a venne, molto prima dell’uomo che il rapporto lo stava consumando davvero, lasciò cadere il cellulare e, ripulendosi, ascoltò ancora un po’ Silvia gridare. Solo alzandosi riuscì ad afferrare la parola, “dolore”, e finalmente pianse. Per qualche giorno saltò i pasti e le sedute autoerotiche, evitò il bar e si rivolse aggressivo alla madre. Quanto accadde nella sua vita da questo momento in poi, sconfinando in altri temi e ambientazioni e generi, non potrebbe risultare di alcun interesse.
Testo Paolo Parente
Illustrazione Federico Bressani
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