Cristiano aveva trentacinque anni, ma faceva l’amore come uno di venticinque. Pogava dentro di me con l’energia e la brutalità di chi conquista la transenna. Diceva di essere stato un ragazzo tranquillo, ai tempi dell’università, uno di quelli che non avrebbe mai colpito nessuno, ma rimanere dieci anni in fila lo aveva cambiato.
La sua aggressività non confinava con la prepotenza di chi sgomita per essere primo, ma con lo slancio disperato che precede la rassegnazione. Erano già due anni che lo seguivo in giro. Concerti e contestazioni. Mi aveva insegnato a urlare nelle piazze e a cantare a squarciagola, anche se non conoscevo mai le parole giuste.
“Grida – mi pregava – grida forte”, io gridavo mentre lui ansimava e poi veniva.
Mi faceva impazzire, ma poi mi spaventavo di fronte a quell’orgasmo così vicino allo sconforto. Mi terrorizzava perché lo svuotava. Non volevo essere per lui solo una schiera da sfondare.
“Fammi vedere di nuovo tua madre”, chiedeva ultimamente, e mi toccava mostrargli la fotografia.
Sarebbe stato meno imbarazzante se mia madre fosse stata una modella, o persino una pornostar. Sarebbe stato tutto più normale, e forse più vero. Ma Cristiano andava in estasi per un dettaglio molto diverso. Si eccitava al solo pensiero che esistesse una foto di mia madre tra la folla di Woodstock, ancora bambina.
Forse era per quella foto che stavamo ancora insieme. O per tutto ciò che lei gli aveva raccontato, per quello che rappresentava. Mia madre scriveva libri sugli anni Settanta per provocare invidia e ammirazione in tipi come lui, morti prima ancora di nascere perché rifiutavano l’idea di non aver vissuto gli anni migliori. Era un’idea che capivo, pensavo anch’io che la mia fosse un’epoca di danzatori del vuoto, una generazione a cui avevano tolto la gravità. Facevamo salti sovrumani ma non sfioravamo mai nessun pianeta.
Lo ammetto, ci avevo marciato anche io su, tante volte. Bastava nominare mia madre durante le occupazioni o nelle pause studio sull’erba, parlare del suo ultimo libro – la foto l’aveva persino messa in copertina – e la maggior parte di quelli già mi voleva bene. Per me erano solo storie, non erano propriamente fatti miei. Parlavo dei nonni materni come di esseri mitologici, due americani figli dei fiori di cui non ricordavo nient’altro, mia madre li usava come me, solo per rendere omaggio ai bei tempi. Non mi aveva detto perché non tornava più a Hoboken, né perché aveva lasciato mio padre, per il quale, invece, era rimasta in Italia, dopo gli studi.
“L’ho sposato solo per avere te”, mi ripeteva da piccola, come una fiaba che si rispetti, piena di orrore.
Della foto, Cristiano invece non lo aveva saputo da me; con lui non avrebbe avuto lo stesso effetto. Non era un tipo da occhi sgranati, era già oltre la fase dello stupore. Cristiano ti dava attenzione, non meraviglia. Lo aveva saputo direttamente da mia madre.
Eravamo in campagna da lei, sotto il gazebo, io avevo lo stomaco pieno e Sioux mi faceva le fusa sui piedi.
Cristiano e mia madre parlavano di immigrazione. Era il sesto argomento dopo il sesso dei ricci di mare, l’acidità delle olive, La notte dei morti viventi, lo yoga e le nuove pensioni. Poi aveva preso una copia del libro e gli aveva detto: “Ero piccola ma ancora mi ricordo l’odore di quei giorni”.
“Non la musica?”, aveva chiesto lui.
“Solo l’odore”.
Gli mise sotto gli occhi quella fotografia in bianco e nero.
“L’originale ce l’hanno i miei”.
“Ed è a colori?”, fu l’unica cosa che fui capace di chiedere io.
C’era mia nonna, al centro della foto, coi capelli lunghi e arruffati, gli occhiali da sole obliqui sul mento, la bocca socchiusa, lo sguardo terso dei vent’anni distratto da due manine paffute che le cingevano il collo. Reggeva in spalla questa bambina bionda, vestita di bianco, con le scarpe slacciate e gli occhi dritti nell’obiettivo. Una pozzanghera le divideva entrambe dalla folla, sparsa sullo sfondo.
Cristiano la fissò, fermo, con la serietà di un cinquantenne. Era chiaro che volesse elevarsi, farsi più simile a lei, e non mostrò nessun tipo di emozione. Per un istante rividi in lui mio padre, muto a osservare.
Mia madre invece rideva e gesticolava, ogni volta che pronunciava la parola Woodstock la sua bocca deviava in un ghigno e allora rideva di più.
“Sembra assurdo, eri già lì nel sessantanove…”, disse Cristiano, rilassando il collo sulla spalliera e aprendo un filo le ginocchia, come faceva quando mi invitava a sedermi su di lui.
“Non sono così giovane. E lì ero molto piccola.”
“Forse troppo piccola – feci io – Non sembri una di cinque o sei anni».
“Sono sempre stata minuta.”
“Ah, è questo il segreto, allora”, disse Cristiano e mia madre non rise più.
“Che segreto?”
Sioux ruotò un orecchio e la sua coda vibrò.
“Beh, della tua giovinezza.”
Mia madre allora scoppiò di nuovo a ridere e Cristiano la implorò di firmargli una copia.
In quello stesso autunno mia nonna morì. L’autunno in cui il contratto di Cristiano non fu rinnovato e lo stesso in cui io diedi l’ultimo esame. Mia madre disse che sarebbe tornata a Hoboken e sperava che potessi partire con lei.
“Se non lo facciamo ora non lo facciamo più”, propose Cristiano, come se la cosa riguardasse anche lui.
“Non devi venire per forza”, gli avevo risposto, ma lui aveva ribadito il concetto: “Se non lo faccio ora non lo faccio più”.
In quel periodo aveva sempre le mani sporche di erbaccia e cemento, i jeans luridi sulle tasche posteriori, lo sguardo di chi aveva finito le domande. Seguirlo era diventato pericoloso persino per le idee di mia madre.
“Lui non ha niente da perdere, tu sì”, mi disse una volta.
Cioè cosa?, volevo chiederle. Che differenza c’era, per lei, tra lui e me?
La risposta arrivò poco dopo, quando partimmo da sole. A Hoboken rividi i miei zii: il fratello minore, vedovo con tre figli, e la sorella più giovane che aveva una figlia con i suoi stessi capelli arancioni. Ad aprirmi gli occhi fu mio nonno. Davvero un bel tipo, l’incarnazione perfetta di tutta la mitologia che gli avevo cucito addosso negli anni. Più o meno era come lo ricordavo. Aveva perfino i capelli color polvere ancora raccolti da una coda lungo la nuca, e il tatuaggio di un pollo che un tempo era un gabbiano tra le scapole e la gobba. Era simpatico, quando non era incazzato, con Cristiano avrebbe parlato per ore dei fratelli Fogerty e di Southern Rock. Solo una cosa, forse, li avrebbe fatti arrivare alle mani. Mio nonno, quel vecchio capellone che nell’ottantanove era tornato in Europa per urlare Wir sind das volk, che odiava l’idea di essere stato concepito mentre riempivano il grembo dell’Enola Gay, aveva votato repubblicano.
Mi sono chiesta troppe volte quanto odio ci volesse, e quanta rabbia, per mettersi il cuore in pace. Cristiano a questo non sapeva rispondere. Si aggrappava a un’idea, anzi se la caricava sulle spalle, e con quel peso si lasciava trascinare dalla folla. Cercava assiduamente una distanza millimetrica tra il suo corpo e il corpo degli altri, un abbraccio o uno scontro, più o meno era uguale, ma aveva il terrore di allineare se stesso all’idea di un se stesso futuro. Quando parlavamo di progetti era come un naufrago sulla scialuppa con l’ansia di ricadere in mare. Non si fidava di quella barca ma solo del salvagente che si era legato alla vita, e il suo salvagente in quel periodo ero io, o l’idea che si era fatto di me, l’immagine tangibile della foto di mia madre che gli regalava non so quale merdosa illusione. Per questo aveva aspettato che tornassi da Hoboken, per questo voleva fare l’amore con me, ma era anche questo il motivo del dubbio angosciante che avevo, e cioè che in realtà volesse solo scoparsi mia madre.
“Fammi vedere la foto”, l’ultima volta che me lo chiese era già nudo tra le mie cosce, col naso che ancora sgocciolava sangue, i gomiti lividi sopra il cuscino, le mani giunte sulla mia fronte come se fossi un altare. Non volevo toccargli la schiena, temevo di graffiarlo, di premere troppo dove gli avevano fatto male, perciò me ne stavo in apnea neanche potessi ferirlo espirandogli addosso. Lui invece continuava a pregarmi di fargli vedere quella fotografia, e lo faceva spingendo, senza fare attenzione alla mia carne esposta, alla mia intimità.
“Assomigli a tua madre – diceva – Vero che le assomigli?”, e io ripensavo a tutta quella enorme bugia.
Non le assomiglio, volevo dirgli, io sono uguale a mio padre, un uomo che alla politica preferiva la pesca, le esche vive, infilzarle negli ami privo di sensi di colpa, con la durezza che serve, e l’innocenza di chi sacrifica solo una cosa per volta. Mio padre era un uomo che non aveva paura del mare, ma della sicurezza che può farti sentire, solo di quella aveva il terrore, e non si fidava dei cambiamenti ma dell’evoluzione.
“Fammi vedere la foto di tua madre”, mi chiese ancora e io feci come mio padre con uno dei suoi coreani. Lo abbracciai, strinsi forte e lo infilzai con ciò che gli dissi all’orecchio. Lui pianse a dirotto, come un bambino.
Non era mia madre, in quella maledetta fotografia. Lo aveva fatto credere a tutti, ma non poteva essere lei. Lei aveva cinque anni, non due. Lo avevo dubitato tante volte, ma ne ebbi la conferma solo quando, a Hoboken, sbirciai tra le cose di mio nonno, e ritrovai la foto originale. L’avevo detto che era a colori. Quella bambina aveva i capelli color carota, gli stessi di mia zia. Mia madre, bionda come se fosse d’oro, nei giorni di Woodstock, aveva preferito restare al mare.
Testo Lucia Perrucci
Illustrazione Valentina Restivo
Una bella storia sulla distanza tra il mito e la realtà.
Il “pagava dentro di me…” è una frase irresistibile. E’ dunque vero che poi forse ci rimane solo Woodstock ed una manciata di bugie.