Li Ciddì Invisibili presenta

 

ARTISTA: Cemetery Drug
DISCO: From me. From home
ETICHETTA: Bunches
ANNO: 2013
GENERE: sNo-wave, elettroacustica, shoegaze
VOTO: 7

La sentiamo spesso, quella del ragazzino sfigato proveniente dal Minnesota che, dopo anni di vessazioni scolastiche, decide di rinchiudersi dentro la sua stanzetta con la sola compagnia di chitarra, synth e laptop, per registrare un demo figlio del maldivivere ager e dei ceffoni ricevuti dal capitano della squadra di football. Il demo viene spedito senza troppe pretese a una nota etichetta indipendente e, contro ogni previsione, diventa ben presto feticcio per gli hipster di tutto il mondo, autentico nettare da hit parade.
Per quanto continuino a raccontarcela, questa bella favoletta – beh, non dimenticate – resta pur un sempre una favoletta. Vero è che l’immagine di un Justin Turner brufoloso e in pigiama, intento a smanettare sui suoi strumenti mentre di sotto i genitori lo aspettano per consumare la cena davanti al televisore 32 pollici, affascina molto più di una presentazione Power Point nella quale alcuni produttori smaliziati gettano le fondamenta per questa riuscitissima operazione commerciale.
A scanso di equivoci: il talento c’è, su questo non ci piove. Sono il primo a pensare che la più grande trovata pubblicitaria architettata dalla Bunches per fare di Cemetery Drug un fenomeno smisurato, sia proprio l’aver dato fiducia a quel timido musicofago di Justin, diciottenne originario di Grand Forks (Minnesota, of course), autodidatta da cameretta con uno spiccato senso della melodia da luccicone.
Basterebbe questo. Eppure è innegabile che il contorno non possa essere scisso dal suo epicentro: le foto incappucciato (tanto per cambiare), l’immaginario velatamente lynchiano dei videoclip, le dichiarazioni artificiosamente spiazzanti (“Non credo di voler fare concerti. Ai concerti la gente va per divertirsi, non per angosciarsi. Ma la mia musica non lo vuole essere, divertente. La mia musica è raccolta, disadorna, scura. La mia musica è angoscia”). Tutto ciò contribuisce a sviluppare una cortina densa e irresistibile attorno a questo From me. From home, misterioso a partire già dal titolo.
Questi otto brani scarni, generalmente piuttosto brevi, sono un esercizio di hauntologia all’ennesima potenza, un revival posticcio di qualcosa che non è mai esistito e che risulta difficile da ancorare nel tempo. Fine anni ’80? Inizio ’90? Shoegaze? Twin Peaks? I Cure? Tutte cose che c’entrano. Fino a un certo punto…
La forza di Cemetery Drug è proprio quella di creare qualcosa di originale, spacciandolo per una combinazione di fattori pre-esistenti. Non è un caso se per il suo disco si è iniziato a parlare di sNo-wave, gioco di parole che cerca di includere alcune delle componenti principali dell’album: No wave, atmosfere glaciali e dilatate di chiara derivazione Sigur Ros, una passione sfegatata per i filtri vocali.
Gli episodi di elettroacustica più gentile (“Holy lake”, “Sinless”), dove la chitarra in delay viene accompagnata esclusivamente da una base programmata, si alternano a pezzi decisamente più spettrali, dove la matrice ambientale assume i contorni scuri e impenetrabili di una foschia invernale. Tanto per tornare a Lynch, il campionamento di vento che sorregge “Appalachian Mountains” non può non riportare alla mente l’angosciante sottofondo di Eraserhead. Anche i rimandi ai Sigur Ros e, in un certo qual modo, a Birds of Passage, sono minacciosamente deformati e spinti verso nenie che sembrano perfette per la colonna sonora di un film horror (“Taken”, il perfido coro di bambini che si ode in coda alla conclusiva “Melodies”).
Se ne esce vagamente turbati, con gli occhi pieni di immagini lontane, ricordi che non ci appartengono, dejavu allucinati. Un sapore di terra bagnata sulla punta della lingua.
Appena trentadue minuti di ascolto, è vero. Ma sono trentadue minuti in cui Turner riesce a trasferire tutto il suo smarrimento, il suo disincanto nei confronti del classico stereotipo provinciale americano. L’American dream fatto a pezzi dal delay di un diciottenne. E questo, datemi retta, è tutt’altro che una favoletta.

Testo: Martin Hofer
Immagine: Bernardo Anichini

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