Difatti, la parola “stambecco” altro non è che un calco dal tedesco “steinbock”, che vuol dire proprio “capra delle rocce”, visto che questo animale vive in altura, arrampicandosi sulle montagne.
Sono corna sproporzionate per animali dall’aspetto tutto sommato mite, davvero simili a capre domestiche, semmai dal pelo più duro e spesso, forse dalla muscolatura più tonica, e sì, anche maggiore altezza al garrese; ma conta poco, conta poco perché quelle corna, scure di pietra, geometriche escrescenze rocciose, sono armi primitive e tecnicamente perfette, e gigantesche, cinque volte più grandi e almeno dieci più pesanti del piccolo cranio che le sopporta. Sono corna che in alcuni esemplari di Capra Ibex arrivano a misurare più di due metri e mezzo di lunghezza, per un peso massimo di dieci chili ciascuna.
Ora, dopo essermi informato su questa particolare sottospecie di Capra Ibex che vive solo in Kazakistan, o meglio, solo nei pressi del Picco del buio perpetuo, che è una cima minore, e nascosta, delle Montagne celesti kazake, scoprendo per di più che è lo stambecco dal colore più scuro e dalle corna più lunghe e pesanti, nonché più longeva (vivono per oltre sessant’anni, a fronte dei venti della Capra Ibex comune), sono tornato a fissare il muso, ma no, ma che muso, quello è proprio un volto, lo è, sono tornato a fissare il volto dello stambecco arroccato sulla parete del Picco del buio perpetuo. Dopo ho zoomato. Che occhi. Dio mio, che occhi. Occhi neri e lucidi, che riflettevano forse la luce chiara di un faretto puntato verso di loro, per scattare la foto. Che occhi. Privi di sclera, come tutti gli stambecchi, ma senza stacco tra pupilla e iride, come invece è riscontrabile in tutte le altre sottospecie di stambecchi. Due biglie nere e lucenti, quegli occhi. Due occhi muti e diabolici. Dello stesso peso delle gigantesche corna. Due occhi di pietra nera, levigata e riflettente. Dio mio, che animale.
Lo fa spesso, mentre gli parlo. Sbadiglia e poi ordina un caffè al ragazzo dietro al bancone. Subito dopo mi guarda, e a essere sincero mi pare attento, mi pare stia prestando attenzione. Quindi continuo a parlargli.
Tutte queste cose, D. me le dice sorridendo, ma con un’aria vagamente annoiata, la voce stanca, quasi una nenia lontana, dolce, però disciplinata. Le palpebre gli sono pesanti sui suoi piccoli occhi azzurri. Finisce il caffe è si passa una mano tra i suoi piccoli riccioli biondi, che scattano come molle non appena la sua mano passa oltre, andando infine a stringere il bicchiere d’acqua.
La piccola luce rossa si accende. Sferza obliqua, un taglio color rubino, ma opaco, sul mio viso; sulle mie braccia. Sulle mie mani. Le vedo riflesse, davanti a me, nello specchio. Un rosso opaco e piatto. Alzo lo sguardo, ma istintivamente con una rigida cautela, i muscoli del collo pesanti e tesi, una forza, una pressione, una certa gravità mi trattiene, cerca di rimandare un esatto momento per il quale credo sia ancora presto.
Ha pronunciato la domanda, be’, domanda, diciamo pure il rimprovero, ha pronunciato questo rimprovero senza guardarmi, perché in effetti stava guardando il ragazzo dietro al bancone e, contemporaneamente al rimprovero, su per giù nel momento in cui ha detto la parola “punto”, gli ha fatto, al ragazzo, il gesto di un bicchiere, di un bicchiere d’acqua, e subito dopo l’occhiolino.
In quell’istante ho pensato che fra me e D., in quel momento ma forse anche in generale, la distanza fosse incolmabile, come se ci trovassimo in due luoghi differenti eppure minimamente collegati, non so, come se entrambi stessimo sullo stesso meridiano, ma non sullo stesso parallelo. E poi, da quando l’ho sentito pronunciare con sufficienza arco alpino, cioè quando mi ha spiegato che è lì e soltanto lì che gli stambecchi vivono, non so, me lo immagino, oltre che lontano da me, lontano dal terreno, come sospeso fra una cima alpina e un nembo canuto e denso, sospeso e regale, coi suoi piccoli occhi azzurri, i riccioli biondi, riflettenti la luce del sole mattutino, quasi dei fili di luce gli si irradiano sopra la testa a formargli un’aureola – e io?, penso di rimando, con uno scatto del pensiero. E io? Negli abissi profondi, nelle ombre infernali?
E le corna? Due corna piene, spiroidali, arcuate, lunghe e alte, che ricadono fino a metà della schiena, come una criniera folta e virile, disciplinata e marmorea. Le sento pesare come dei tronchi d’albergo di montagna, ma il collo, un collo muscoloso, muscoloso il doppio di un qualsiasi collo umano o animale, non solo regge lo sforzo, ma ne trae godimento, è una tensione voluta, afflusso di sangue continuo che genera un fremito simile a un orgasmo: parte dalla nuca e giunge fino alle spalle, irrigidendo persino le mascelle, chiuse, irrimediabilmente serrate, al punto che il desiderio di aprirle, di fare una smorfia, di prendere aria, sento non essere nemmeno lontanamente possibile. Vedo muoversi, sul viso riflesso dallo specchio, soltanto due larghe frogie piatte, si spalancano a formare dei cerchi neri, in rilievo, appena sopra la bocca serrata, per poi richiudersi, ma non completamente. Il ritmo di quel respiro è lento e regolare, come l’afflusso del sangue che avverto scorrere all’interno del collo, e come l’andirivieni dei miei pensieri, tutti virati al rosso opaco e rubino.
Sul Picco del buio perpetuo si aggirano spesso, d’inverno, cacciatori kazaki bardati di pelli e lane, armati di fucili rudimentali, dalle forme grezze e i contorni frastagliati, con una sola canna, lunga, lunghissima, almeno due braccia; sono fucili caricati con grosse palle metalliche, dal colore dorato. Questi cacciatori kazaki, in inverno, sul Picco del buio perpetuo, vanno a caccia del diavolo. Il diavolo è per loro questo animale a quattro zampe, un’ombra notturna in pieno giorno, silenzioso, visibile solo serrando un poco gli occhi, abituando il proprio sguardo al nero delle pareti del picco; si dice, fra i cacciatori kazaki di diavoli, che questo animale è un animale mansueto. Un animale che nessuno ha mai visto combattere, o attaccare un qualsiasi altro animale, men che meno esseri umani. Eppure si dice: state lontano da quell’animale diabolico dalle corna di scimitarra. State lontano. Fissarli a lungo, negli occhi, è pericoloso.
Una leggenda antichissima, infatti, racconta di un ragazzo, dal nome Shaizim o Shiezem, ogni volta che vien raccontata non è mai lo stesso nome, che un giorno, avventurandosi sul picco più basso delle Montagne celesti, disobbedendo agli ordini di suo padre, che voleva suo figlio a guardia delle sette capre che erano il suo capitale, si mise alla ricerca di una bestia dalle gigantesche corna a forma di scimitarra, e dal manto nero come la notte profonda. Il ragazzo rimase sul picco delle Montagne celesti per tre giorni, in vana attesa. Finché stremato dalla fatica e dalla fame, nel momento in cui decise di far ritorno, la strana ceatura gli si parò davanti, in una sottile striscia rocciosa lungo la parete scoscesa del picco. La leggenda dice: Shaizim, o Shiezem, si trasformò in diavolo, per aver guardato troppo a lungo il diavolo negli occhi.
La cosa che mi mancherà di più? I suoni. Forse le melodie. Ma no, se ci penso bene mi mancheranno più i suoni, quelli isolati, il concetto nobile di suono – della melodia ho già il disgusto: mi sono congedato dall’umano così facilmente? Già ho dato inconsapevolmente l’addio all’alba? Quale alba. Io qui aspetterò soltanto colui che in me non crede, per mostrargli questi miei due begli occhi neri, e senza aprire bocca, dirgli: ora tu mi credi.
Immagini: Eleonora Simeoni
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