Giovanni dice sempre che quando non riesco a dormire posso provare a chiamarlo, ma quando non riesco a dormire, in realtà, passo solo un sacco di tempo a chiedermi fino a che ora è legittimo chiamare qualcuno senza che ci sia un’emergenza.
Poi vedo il puntino verde accanto al suo nome e, prima che svanisca, ci premo sopra con l’indice.
“Com’è andata la cena?”, gli chiedo.
“Mh”, mi risponde, e solleva un sopracciglio. Capisco che forse ho sbagliato momento e che non gli va di parlare.
“Il vino era tannico”, mi dice scocciato.
Tannico, mi ripeto. Ma che parola è, come gli viene? Me la segno per cercarmela dopo. Intanto gli dico solo di sì, che ho capito, come se anch’io la sapessi lunga, ma mi chiedo se in realtà non sia meglio trovare subito un motivo per riagganciare.

Dalla lampada alla maniglia della porta. Da lì al divano, e poi al frigorifero. E ai ripiani della libreria, coi titoli dei libri scritti in maiuscolo e le lettere che devono sembrarle mille porte che però non si aprono. Quant’è lungo per lei il tempo? Cinque cerchi, sempre più stretti, intorno alla mia testa, prima di tentare il labirinto del mio orecchio. Seleziona le sue traiettorie o si affida soltanto all’aria? E poi, si accorge mai di star sul punto di morire, o pensa mai alla morte, o incespica mai? Forse è casuale la sua perfezione, e inestinguibile perché anonima. Sono queste le cose che mi chiedo.

Tutti i racconti che possiamo farci risalgono a un milione e mezzo di anni fa, così stiamo per lo più in silenzio. Siamo diventati i vecchi di noi stessi, penso, ma nel mezzo non c’è stata giovinezza, né adultità, solo un lasso di tempo ch’era un burrone. Saltare o non saltare non era nemmeno una scelta. Adesso, ogni volta che ci raccontiamo un aneddoto, restiamo un minuto in silenzio, con gli occhi socchiusi, assestati a mezz’aria, a mezz’asta – è in quel gesto che stiamo cercando di calcolare il tempo, o di scalcolarlo, e fingere che, semplicemente, sia stato solo ieri.
Un tempo abbiamo veramente fatto mattina, bevuto dal bicchiere di uno sconosciuto, e milioni di volte, noncuranti, ci siamo voltati ridendo da un’altra parte. Un tempo abbiamo mangiato ovunque, e preso sempre il caffè al bar della stazione quando eravamo in anticipo. Ora, invece, nel mirino sgranato della webcam ci guardiamo complici e colpevoli, come se avessimo consumato tutto il tempo senza pensare a far provviste per il futuro; come se avessimo svuotato il frigo in un attacco di fame la notte prima della domenica. La conversazione ha iniziato a colare nei buchi del silenzio quando Giovanni mi ha detto che con questo la nostra giovinezza è finita. Io lo sapevo già, ma non me la sentivo di dire niente. Sono rimasta ad annuire nel ritardo della connessione internet sovraccarica. Il mio volto su e giù era una lenta scia di pixel grandi quanto un’unghia, una specie di dissoluzione.

L’altro giorno, mentre uscivo di casa, ho visto la mosca che moriva. Se ne stava ad arrancare sul muro accanto alla porta, ma io non l’ho capito subito e per un momento ho pensato alla stupidità del suo cervello e ho provato l’impulso cattivo di schiacciarla. Mi è parso normale. Tutto era in ordine, prima che uscissi di casa; fuori posto soltanto lei, appesa al muro come un pixel nero bruciato in mezzo a un foglio di word. Alla fine mi sono sfilata le scarpe coi talloni, come per fare in silenzio, e mi sono avvicinata a guardare.

A volte di notte, quando non riesco a dormire, mi ritrovo su internet a guardare le foto di sconosciuti che si abbracciano in pizzeria. Stanno tutti accalcati, spinti verso il centro della foto, come se non rientrarci fosse l’equivalente di sparire per sempre. Molti di loro non li vedo da anni, altri nemmeno so chi siano; sono tutti sconosciuti alla stessa maniera. Mi sento strana mentre li guardo: d’improvviso sono in casa loro, e loro non lo sanno. Faccio passare il mio sguardo su tutte le cose – avida, come famelica – e penso che sto mettendo in salvo un pezzo del mondo perduto degli altri. Faccio la ladra perché ho bisogno di ricordarmi i visi umani, di accertarmi un’altra volta che sono tutti diversi. Che ognuno di loro proviene da un pianeta separato.
Se premo sulle facce compaiono altre facce, altri gesti, la galleria infinita dell’universo. Se fossi stata più veloce, se avessi avuto più tempo – o se potessi averne memoria – avrei incontrato molti più volti nella mia vita. Se fossi stata una mosca, forse. E forse lo sono anche stata, mi dico, e a volte qualcuno col braccio mi ha scacciata.

Mi sono avvicinata così tanto che mi pareva di poterla guardare dritto negli occhi. Dicono però che le mosche non guardino dritto, ma in tutte le direzioni nello stesso tempo. Io invece ho dovuto inclinare la testa. La mosca moriva in verticale, in un modo assurdo in cui non si muore mai, ma prima di morire cercava di salvarsi, come infatti si fa più o meno sempre. Sbatteva le ali dimenandosi con follia dolorosa.

Giovanni adesso è quel puntino a volte verde a volte giallo a volte rosso, che se ci premo sopra col dito fa uscire un volto che sbatte le palpebre, a volte veloce e a volte piano. A volte mi parla e dice parole che non comprendo; altre volte invece non parla e mi viene assurdamente da pensare che stiamo pensando lo stesso pensiero. Ma io, da un po’ di tempo, non premo più col dito sulle facce.

La guardavo e non pensavo a niente. Sembrava che morire per lei fosse una grande lotta, esasperante e assurda. Faceva rumore, un rumore sconcertante. Non più il rumore antico della televisione senza segnale, davanti alla quale si passa indifferenti, o tutt’al più si preme un tasto per spegnerla. Stavolta era il rumore secco della morte, che sventagliava netto prima di esaurirsi in un frullo di dolore. Non so quanto sia durato. C’è stato un ultimo battito, poi la mosca è caduta sul pavimento, come stecchita, e non si è più mossa. Il rumore del suo posarsi è stato impercettibile, dignitoso e compatto. Era il rumore della morte, il rumore dopo il quale nessun altro rumore viene. Nessun altro rumore si ascolta.

Ho un racconto che non riesco a fare.

Per un attimo ho pensato di riscuoterla dal suo sonno eterno ancora fresco. Ho pensato di sbattere forte il piede sul pavimento, per vedere se si spostava. Non l’ho fatto.

martina vanda

Un tempo ho mangiato il tempo, da sola o in compagnia d’altri; non sapevo che il tempo era una tarantola, o una civetta, o un rospo. Non sapevo che, mentre eravamo distratti, ingoiava le mosche, dopo averle torturate a colpi d’aria. Insieme alle mosche è andato via il rumore, e ogni parola dicibile e indicibile.

Se la mosca volasse ancora qua sopra, se ancora potesse legare il lampadario coi giri infiniti di un filo pazzo e invisibile, e se nel suo volo ancora potesse vedermi, penserebbe alla stupidità del mio cervello, e forse proverebbe l’impulso di mangiarmi la faccia. La mosca invece ora giace nel mio ingresso, riposa al centro di un’asse di legno del pavimento, e mi pare che diventi un cumulo spaventoso che mi impedisce di arrivare alla porta. Giorno dopo giorno la mosca si vela di bianco, come un baco che non vuole essere filato. Ogni volta che la guardo, la riporto in vita, ma lei è troppo debole. Ogni giorno la mosca sventaglia e muore, sventaglia. E muore. Io la guardo.

Qualcosa squilla in lontananza, e io non sento. Di certo qualche nome campeggia nel rettangolo, e in un altrove – è certo – delle palpebre sbattono, spostano pixel, nell’attesa infinita di un suono di risposta.

Testo Giulia Scialpi
Illustrazione Martina Vanda

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