La tensione si accumulava soprattutto sul collo, sulle spalle e dentro la testa, picchiando come un martello che continuava a battere in un solo punto. Alla finestra, Mia si stava togliendo i peli superflui dalle sopracciglia, osservando con attenzione l’interno dello specchietto e strizzando gli occhi quando le sembrava di avvertire troppo male.
Il suo fidanzato era seduto sul divano e tentava di aggiustarsi la camicia dopo aver infilato il primo bottone nel buco sbagliato. Con la coda dell’occhio, Mia seguiva i movimenti veloci delle dita di Valerio, come se potesse spezzettarli e studiarli uno per uno. Era seduta su una sedia che sistemava sempre vicino alla finestra, una gamba piegata e la pianta del piede destro appoggiata alla coscia sinistra.
Lo avevano fatto pochi minuti prima sul divano su cui ora Valerio stava indossando cintura e scarpe. La sua espressione era dispiaciuta, vagamente in imbarazzo, i suoi movimenti calibrati con cura per non far rumore. Si alzò dal divano e si avvicinò a Mia per accarezzarle i capelli. Quando fu abbastanza vicino per allungare la mano verso di lei, la bambina accovacciata ai piedi della sedia distese una gamba per fermarlo. Aveva il volto segnato da ragnatele di lacrime.
Valerio le aveva viste rincorrersi sulle sue guance per l’ennesima volta, e per l’ennesima volta si era dovuto fermare. Sospirò e aggiustò la cravatta. Mia strinse le labbra, le sembrò di avere il corpo intero contratto nello sforzo di non urlare. Ma Valerio uscì senza lamentarsi e la casa diventò un involucro vuoto.
Mia si sentiva così quando si trovava da sola a girovagare per le stanze. A volte arrivava in cucina senza sapere cosa ci fosse andata a fare. Si stendeva sul letto senza avere sonno. Apriva gli armadi per controllare cose che non ricordava nemmeno di avere. La bambina sempre appiccicata.
Indossava un costume da bagno blu con una riga laterale bianca che le avvolgeva perfettamente il corpo. Aveva i capelli bagnati, le punte gocciolanti. Gli occhi scuri le ricordavano le pozzanghere di notte.
Lasciò stare le sopracciglia e si chiuse in bagno. La bambina aveva l’espressione di un cane dopo essere stato picchiato, Mia evitò di guardarla per non farci caso. Lasciò la porta della doccia aperta e la bambina rimase in piedi appena fuori, sul tappetino del bagno.
Prese la spugna e gliela mostrò. Quella di Valerio era sulla mensola più alta, per non rischiare di confonderla con la sua. Ci versò sopra una quantità abbondante di bagnoschiuma e cominciò a strofinare forte lungo tutte le gambe.
“Va bene così?”, le chiese.
La bambina indicò un punto sulla gamba destra da pulire meglio. Solo lei vedeva le impronte di Valerio, tracce invisibili su pelle apparentemente pulita.
“Lavati anche i capelli.”
“Ma li ho lavati ieri.”
“Fanno schifo…”
Sbuffò e tolse l’elastico dai capelli. In tutto, per lavarsi a fondo come voleva la sua accompagnatrice, ci mise diciassette minuti. Ormai premeva così tanto, per fare in fretta, che la spugna le lasciava segni rossi che somigliavano a ferite. Ma voleva solo uscire da quella doccia, asciugarsi e non pensarci più.
“Vuoi fumare?”, le chiese la bambina.
“Dovrei?”
Annuì. La bambina sembrava stare meglio. Quando accese la sigaretta e aprì la finestra della camera da letto, finalmente si asciugò il viso e sembrò volersi allontanare di qualche passo. Rimase a qualche metro di distanza per il resto della giornata.
Il giorno in cui comparve non lo ricordava, ma in compenso ripensava spesso ai mesi successivi, mesi difficili in cui i suoi genitori provarono a nasconderla.
Cominciò a dividerci il letto. Dormivano l’una accanto all’altra e a volte Mia si sentiva soffocare. La sua era una stretta feroce attorno ai fianchi e al collo, punti che ancora adesso, quando le venivano toccati, facevano male.
Mia aveva sempre provato dolore in modi che non riusciva a spiegare, causandone altro alle persone che le stavano intorno, compresa la sua famiglia. La bambina non crebbe mai. Mantenne per sempre le sembianze di quando era comparsa. I suoi capelli non si asciugarono e i polpastrelli delle dita rimasero raggrinziti. Quando era piccola, Mia immaginava di mangiarseli perché le ricordavano i datteri.
Si svegliava col letto bagnato di acqua e cloro, il battito irregolare che sembrava voler far esplodere il cuore. A volte la bambina si svegliava, nel mezzo della notte, e la strattonava fino a farle paura. Impazziva improvvisamente come un cavallo che Mia aveva visto una volta al maneggio, un cavallo enorme che col corpo riusciva a coprire il sole. Gli si era trovata davanti quasi senza accorgersene, e ricordava soltanto il rumore degli zoccoli sul selciato, il modo in cui sollevavano polvere. Non ricordava di aver mai provato tanta paura, fatto sta che sicuramente la bambina non era comparsa per colpa del cavallo.
Mia ricordava bene di avere avuto un costume da bagno simile.
Ricordava chiaramente il modo in cui le bretelle stringevano sulle spalle, le prese in giro dei compagni di nuoto un po’ più grandi per la gonnellina ricamata appena sopra il bacino. Odiava quel costume e vederselo davanti ogni momento della sua vita le dava fastidio.
Imparò a conviverci inserendo delle regole nella loro quotidianità. Smise di nasconderla e di dormirci insieme verso l’adolescenza. Smise di pensare che fosse colpa di quel costume da bagno, se in un ricordo nascosto qualcuno l’aveva desiderata. Smise di dare la colpa a chi quel costume glielo aveva comprato. La bambina cominciò a dormire per terra e per anni sembrò lasciarla in pace. Gli incubi svanirono come scoppia una bolla di sapone, la sua presenza diventò un’ombra silenziosa.
Poi, dopo l’adolescenza, Mia cominciò a frequentare un ragazzo come lei. Anche lui aveva un bambino al seguito, anche se leggermente più grande. Quando si videro, dopo essersi dati appuntamento tramite telefono, squadrarono a vicenda il piccolo accompagnatore dell’altro e si riconobbero.
Intorno a loro era pieno di bambini al seguito di adulti. Anche se non volevano parlare, i bambini si facevano capire bene quando qualcosa non andava loro a genio. La maggior parte delle volte succedeva durante il sesso. Non c’entrava né da quanto tempo conoscevano l’altra persona, né la dolcezza con cui avveniva, né la durata o l’intensità del sentimento. Qualcosa in loro si risvegliava all’improvviso. I segnali erano chiari ai proprietari dei bambini. Mia capiva immediatamente quando la piccola versione di sé avrebbe cominciato a urlare. Le azioni che seguivano la crisi erano sempre diverse, la bambina era accecata da qualcosa che nessun altro poteva vedere. Per non rischiare di esplodere, l’unica soluzione era fermarsi e consolarla.
A letto, quella notte, Valerio si avvolse nelle coperte più lontano possibile da Mia e dalla bambina, che si stringevano a vicenda nella parte del letto più vicina alla finestra. La luce delle auto che passavano le illuminava a tratti, in momenti durante cui aprivano entrambe gli occhi per scrutarsi. Conoscevano i propri tratti a memoria, eppure le luci sembravano illuminarli sempre in modi diversi.
Mia copriva l’orecchio sinistro della bambina con una mano. Non le dava fastidio da anni la sua pelle bagnata, il risveglio con la faccia su un cuscino zuppo.
La piccola le stringeva una mano e rabbrividiva ogni volta che Valerio si muoveva.
“È solo lui”, le disse Mia.
Guardò i suoi stessi occhi avvolti da ciglia meno folte e guance più alte. Pensò che la sua esistenza fosse uno scherzo, che non era giusto che una cosa del genere fosse possibile. La chiamò. La bambina aprì gli occhi nel buio, ma non riuscirono a vedersi.
Le si rannicchiò tra le braccia e sospirò. Appena sotto il suo mento c’era un altro cuore che batteva, pensò, e questo cuore conteneva cose sue. Sue responsabilità, sue conseguenze, che un cuore così piccolo non avrebbe mai dovuto tenere.
Accarezzò i capelli della bambina e la strinse, portando le coperte in alto fino a coprirsi la bocca.
Testo Anja Trevisan
Illustrazioni Veronica La Greca
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