se vestono di blu

“Il vestito giallo, con i fiori stampati sopra.”
“È il tuo preferito?”
“Sì, il mio preferito”, la bambina risponde all’uomo con le scarpe grandi, sono seduti entrambi sulla panchina rossa del parco.
Poco prima è caduta dall’altalena, il terriccio le ha graffiato le gambe scoperte. Il rubinetto della fontana di ghisa lì accanto è rotto, l’acqua che scorre ha un colore scuro, lei ha passato la mano sotto il getto e poi ha tamponato i graffi, sicuramente lo aveva già fatto in passato. Non ha pianto. L’uomo ha spento la sua sigaretta sottile nel piccolo posacenere di metallo che poi ha riposto in tasca. Ha una giacca scura, le scarpe grandi e un sacchetto di plastica verde.
“Qual è il tuo vestito preferito?”, ha chiesto.
Lei ha asciugato le mani sul jeans, si è seduta accanto all’uomo e ha risposto.

La panchina è all’ombra, il sole scalda la plastica e il metallo delle strutture. Il parco è come tutti gli altri parchi dei diversi quartieri popolari: panchine, altalene, arrampicate in corda, pavimenti antitrauma colorati, giochi didattici in legno.
“Le tue scarpe sono grandi”, poi gli ha detto.
L’uomo ha sorriso e ha strofinato il piede destro sul calzone della gamba sinistra.
I piedi dell’uomo sono infilati in scarpe grandi, le ricordano quelle del clown visto la settimana prima. Sua madre aveva deciso che il giorno libero l’avrebbero passato tutte e tre assieme – lei, sua madre, sua sorella – e il circo era sembrata una buona idea. Ma sua sorella si era impaurita alla vista del clown e il loro pomeriggio era terminato così. La madre aveva riacceso il cellulare e il resto del pomeriggio lei e sua sorella erano rimaste sole. Erano scese giù al parco. A sua sorella piaceva andare sull’altalena.

Il parco non è mai silenzioso, neanche in agosto quando il resto della città si svuota: è un quadrato di verde incastrato fra le vie parallele e perpendicolari lungo le quali si articolano le costruzioni basse e marroni del quartiere costruito dall’Istituto Case Popolari. Le case paiono essere lì da sempre. I muri sono sbrecciati e ampie macchie di umidità si allargano sulle facciate. Da qualche settimana al mattino le macchie spariscono coperte da alcuni animali disegnati con le bombolette. Ci sono coccinelle grandissime, squali e delfini che si incastrano, c’è un gufo blu e viola; grandi formiche che compaiono se si guarda da ovest la linea dei palazzi in sequenza; volpi con cilindri in testa e gatti con occhiali da sole colorati – una lente è rossa, l’altra è blu – lische di pesce e poi tante piccole farfalle che si sviluppano in verticale su tutta la facciata del palazzo che dà sull’entrata sud del parco. Gli animali compaiono solo dall’interno del quartiere, dall’esterno le case sarebbero parse marroni, spente, tutte uguali. Il quartiere è così: un reticolo di palazzoni dalla doppia natura, in cui il vociare del parco e la musica che risuona nelle case fino alla strada si trasformano in voci rotte, urla e fragore. La notte il parchetto si riempie di motorini, al mattino sulle panchine sempre nuove scritte e disegni sopra. E così via, ogni giorno, un nuovo animale e un nuovo disegno.

“Lo sai che qui prima non c’erano le altalene?”, lui ha posato il sacchetto di plastica sulla panchina.
Le mani dell’uomo sono sottili, la bambina nota che ha una macchia gialla sul dito medio, la stessa macchia che ha sua madre, poi riesce a sbirciare dentro il sacchetto vede delle scatole, sono medicine, come quelle dello stipetto sotto il lavello del bagno. Hanno nomi strani, le medicine, finiscono sempre con una consonante e le scatole sono bianche con delle strisce colorate.
“Me lo ha detto la mamma. Dice che, quando era piccola lei, qui c’erano sassi e qualche fiore.”
La casa dove stanno lei, sua madre e sua sorella, è la casa della nonna. Il palazzo è il più vicino al parco.
“Sì, a volte diventava un campo di calcio o da pallavolo, altre volte, imparavamo ad andare in bici. Tu ci sai andare?”
“Ci ho provato con quella di Nina, ma sono caduta. Cado sempre”, la bambina ha le gambe piene di graffi e lividi, soprattutto vicino alle ginocchia e sui polpacci.
“Pure io cado sempre. Tutti cadono.”
Una coppia è sbucata dalle siepi a nord e imbocca il vialetto di mattonelle fucsia e verde, ridono. Incrociano una donna in tuta e coda alta che porta in giro il cane, si ferma quando il cane annusa e piscia; la donna sta parlando al cellulare con qualcuno e urla di voler essere lasciata in pace. Le altre bambine sono arrivate in cima all’arrampicata, gli scivoli non li usa più nessuno. Una donna spinge avanti e indietro un passeggino per calmare il bimbo che piange, è vestita di blu e ha i capelli raccolti da un elastico. Il parco sembra una crepa luminosa.

marco ieie

“Anche mia madre si vestiva così”, l’uomo indica la donna.
“E adesso come si veste?”
“Adesso?”
“Sì, come si veste ora tua mamma?”
Ma l’uomo accende un’altra sigaretta. Aspira e soffia via il fumo in anelli. Poi dice solo “Le persone infelici amano quel colore.”
“Il colore è un modo per capire se le persone sono infelici?”, chiede la bambina.
“Sarebbe bello bastasse un colore, in effetti”, ma è un sussurro.
“Come fai a fare i cerchi col fumo?”
“Anche questo me lo ha insegnato mia madre.”
“Mia madre non riesce, invece.”
La bambina pensa che sua madre se solo volesse riuscirebbe a fare i cerchi con il fumo. “Qual è il vestito preferito di tua madre?”
“Forse quello con le ciliegie stampate sopra. È lungo lungo fino ai piedi.”
“È bella tua madre?”
La bambina ha una risata piena e risponde di sì, e poi: “Mamma è bellissima”.
“Anche mia madre lo era. Tutte le madri lo sono.”
“Anche se vestono di blu?”
“Soprattutto se vestono di blu”, spegne la sigaretta anche se ha dato poche boccate, stacca la punta bruciata, la rimette nel pacchetto. Poi, si alza, allarga le braccia e sembra dare una grande boccata d’aria. Con le mani sposta via qualcosa, forse un moscerino o una zanzara, si gira verso la bambina e la saluta. La bambina pensa che le scarpe dell’uomo, ora, non sembrano così grandi e raggiunge le altre sull’arrampicata. Sulla panchina un nuovo disegno e il sacchetto verde delle medicine.

Testo Elena Giorgiana Mirabelli
Illustrazione Marco Ieie

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