“E così ai galli da combattimento, ai falconi da caccia e a tutti gli uccelli che, per mano dell’uomo, sono stati forzati ai lavori di guerra, sarà reso possibile armarsi come cavalieri.”
Trattato medievale di falconeria e altre arti, 1386
Entra nell’arena e nota apprensivo che l’altro ha speroni ricurvi come scimitarre. Ferrea, brillante, appuntita, la corazza del suo avversario ricopre tutta l’ampiezza della testa e degli arti inferiori. Pensa a sé, alle sue armi. Pensa anche alla ragione per cui le mani sugli spalti sono così inquiete: alzano nuvole di polvere, si dimenano e pugnalano l’aria, per niente simili a quelle mani che, illuminate dalle fiamme, facevano nascere uccelli neri sullo schermo di una parete bianca. Loro, le mani, l’avevano sempre intrigato. Pensa: Oltre a volare come uccelli con piume d’ombra, le mani gridano anche come corvi. Potrebbero essere loro sorelle.
Le urla dagli spalti crescono tutt’intorno, l’altro lo provoca, agitando a destra e a sinistra la cappa, la coda multicolore. Ma non rimarrà fregato da questi trucchetti. Si accontenta di seguire il suo doppio con movimenti oscillanti del collo, proteggendo il fianco, sferzando le armi, alzando l’ala destra come uno scudo, come una barriera, parecchio sopra la testa.
“Attento alla testa – diceva Conceição – se l’ago la punge, sarà tutta fatica sprecata”
Si ricorda di come Conceição e il bambino maneggiavano con cura i colpi dell’ago per contornargli il cranio, per evitare di ferirgli le vertebre mentre rompevano, spaccavano la resistenza della scorza dentro il quale fluttuava. Ancora sommerso, vedeva che tutto quello che conosceva stava per frammentarsi, rompersi. L’involucro si era spezzato. Era scolato via il fluido. Il primo respiro era penetrato alla radice dei suoi polmoni. Aveva fermato per la prima volta le sue zampe molli, si era sentito immerso tra le palme di due mani. E quelle lo avevano portato dalla donna dai capelli-piume-grigio-argento, lo avevano guidato – e tutto era bagliore – verso la tenerezza riflessa sul volto di Conceição. Pensa: Com’erano lisce le mani del bambino a quei tempi.
Nell’arena, la moltitudine di mani restringe il circolo intorno a lui e al suo oppositore, ricoprendo il suolo con una pioggia di carta verde che ricorda le foglie degli alberi. L’altro lo guarda dall’alto, becca graffi infuriati sulla terra, brandisce la punta del becco in cerca di una breccia in cui assestare il primo colpo. Porta con sé, intanto, dietro alle protesi e alle protezioni metalliche che gli rivestono la testa, un’espressione stranamente persa. Il cianciare delle mani si fa sempre più alto, seguendo e accompagnando il suo doppio con perfetta simmetria di movimenti. E, prima che pensi di provare a ritirarsi, sente la pressione di due palme nel basso ventre e si vede immediatamente innalzato nello spazio, volando suo malgrado in direzione di lame e pugnali. Una. Due. Tre.
Si allontana col fiatone dopo la quarta stoccata. Si sfrega gli occhi, sente un filo rosso e spesso scorrergli per il collo. Guarda davanti: a sua immagine e somiglianza, anche le penne dell’altro ostentano la stessa collana di sangue.
“Può darsi che lo accolga, può darsi che lo ammazzi – diceva Conceição – è figlio di un’altra madre, nessuno sa ancora come saranno le sue penne”.
Conceição e il bambino lo avevano posato al suolo, l’area che ora calpestava sembrava espandersi lungo estensioni senza limiti. Dietro un tessuto di fili argentati, intrecciati fino ad altezze sconfinate, un paio di ali si era rizzato nel presentire il suo arrivo. Se avesse conosciuto la parola esatta per definirne toni e colori, avrebbe detto: Madreperla.
Ma l’avrebbe imparata solo più tardi. Attente, sospettose, impavide, le ali madreperla si erano piazzate in posizione difensiva. Senza neanche capire la pericolosa linea di frontiera sulla quale si avventurava, l’aveva attraversata ed era saltato; le ali si erano tese per una frazione di secondo, dopodiché si erano rilassate e si erano schiuse, rannicchiandolo all’interno di una consistenza molto simile a quella dei petali. Un’oscurità densa e accogliente l’aveva abbracciato, e si era domandato se sarebbe tornato dentro all’involucro da cui la donna e il bambino l’avevano espulso. Ma là era tutto liquido, mentre qui c’era soltanto un’aria densa di riconoscenza. Inoltre, là non esistevano questi strani esseri sferici che qui lo circondavano ricoperti da un piumaggio giallo-oro.
Nell’oscurità, si era visto circondato da occhi curiosi, scintillanti, piccoli: occhi in tutto e per tutto diversi da queste due orbite fiammeggianti che – lo sa – vogliono oggi, in questa serata, a ogni costo, distruggerlo.
L’altro asciuga con la punta delle ali il rosso che sgorga dal petto, prende fiato, affila gli speroni per terra. E lui, esaminando riflessivo il doppio e la sua triste figura pervasa dai tremori, si rende conto che non resta che un’alternativa. Dietro di sé, infatti, si erge insormontabile una barriera di mani: lugubri, callose, insensibili.
Presto o tardi mi spingeranno, pensa. Quindi si porta avanti.
Si posa sull’altro come una scheggia, infilando più a fondo possibile le punte degli speroni (ricurvi come scimitarre). Sente uno scatto e qualcosa che si rompe.
Fa come ha imparato, com’era scritto: l’ala destra è lo scudo che para i colpi; la sinistra è la spada che sibila; e dal cielo e dalla terra e da tutti i lati il corpo tuonerà, ricordando la vendetta delle tempeste di grandine: così era scritto.
Percepisce che l’altro si allontana, la faccia spaventata e livida. Con la zampa destra lo riporta a sé e, manovrando sapientemente lo sperone sinistro, apre nella sua pancia una serie di incisioni precise. Una. Due. Tre. Sente qualcosa che si rompe.
Conceição contava e divideva le spighe di grano, e i semi cadevano su di lui e sugli altri, il colore del grano si confondeva con quello dei loro corpi, e le bocche raccoglievano l’alimento che si spargeva in terra e in mezzo all’erba. Volteggiando tutt’intorno, le ali madreperla mietevano e sgrossavano, protettrici.
E quando il sole si reclinava definitivamente, quando i fratelli si raccoglievano dietro la tela di fili d’argento e la respirazione ondeggiante dei loro corpi era tutto quel che rimaneva nella notte, allora lui li vedeva materializzarsi, alzarsi in volo: uccelli con piume d’ombra, che planavano sulle pareti bianche della cucina. Davanti alle fiamme della stufa a legna, le mani di Conceição svolazzavano. Scattavano rasenti sulla platea della casa e del vicinato, ammassata su panche e tavoli, assistendo quasi senza sbattere gli occhi alle evoluzioni di quel teatro di uccelli neri.
Sulla terra, le sue zampe fredde. Davanti, il nemico esausto, distrutto. Opache sono le tinte che colorano il mondo, la vista si confonde, e per un momento gli sembra di lottare contro due o tre. Ma percepisce che ora il doppio, anziché attaccare, cade su di lui e ci si appoggia come a un bastone, e che anche lui si lascia svenire sul corpo dell’altro, ruotando entrambi attorno a un asse immaginario, affondando le zampe e disfacendosi in una pozza fatta della loro essenza.
“Non si guarda”, dice rivolto al suo riflesso liquido.
“Non si guarda”, diceva Conceição.
Il corpo giaceva trafilato dentro al calderone, il dorso squarciato da un taglio attraverso il quale era defluito l’ultimo respiro. Sfregando la sua pelle con ritmo impietoso, le dita di Conceição strappavano le penne, lanciandole in aria. La luce le attraversava prima che si posassero; lui riconosceva il loro colore, la loro trama, cercava la parola esatta per nominarle e improvvisamente aveva detto dentro di sé: Madreperla. Dunque adesso l’aveva imparata e la conosceva.
“Non si guarda – diceva Conceição al bambino – questa cucina è infestata”.
Le sere successive, i giorni seguenti, loro avrebbero portato l’umore ciclico dei venti: gelidi, molto lenti, infiammati. La ruota dei venti girava, intorno a lei si succedevano le stagioni e, fuggendo e dando le spalle alla donna e alle sue mani, lui si sentiva capace di falcate sempre più grandi. Le frontiere del mondo diminuivano. La tela di fili argentati si avvicinava. Un giorno, per sua sorpresa, si era visto sospeso in aria: era il suo batter d’ali. E, nel posarsi su una trave di legno, aveva contemplato orgoglioso i due arti, rivestiti di piume multicolore e appuntite.
Il doppio lo guarda. Come Conceição lo guardava. Il doppio lo accerchia. Come lei, da lontano, lo accerchiava. Quando portava la pioggia di grano. Quando, furtiva, si avvicinava. Raccolto nelle sue ferite, il doppio lo studia con un’occhiata. Che porti, come lui, il peso del ricordo? Il corpo nel calderone, le penne calpestate: nel ricordarle, si era distanziato, volando lontano da Conceição. Ma lei aveva insistito, aveva invaso i suoi domini e aperto il cancello, si era seduta in un angolo sulla paglia e là si era rinchiusa a riflettere, accerchiandolo con il peso dello sguardo.
Il doppio zoppica, ha la zampa destra in frantumi. Le mani gridano e si pressano nell’arena.
Allora lo slancio, il balzo delle due mani calde come fiamme, e lui sorpreso e catturato tra i nodi di quella maglia di dita: aveva individuato un punto in carne viva nelle palme di Conceição, lo aveva fustigato con una sequenza di beccate rapide, tentando, inutilmente, di liberarsi. Il doppio impallidisce e si contrae.
Erano entrati in cucina, lui sollevato un metro e mezzo dal pavimento. Dall’alto, ingabbiato tra dita e palme che lo sostenevano, aveva visto scorrere una sfilza di cose che non sapeva nominare: panni, utensili, oggetti penzolanti. Il petto pulsava, batteva a scatti e, forse proprio perché percepivano quella frequenza, le due mani avevano cominciato ad abbassarlo.
Lo avevano fatto scendere, gli avevano offerto una coppa piena di chicchi dorati, e nell’assaggiare il primo aveva capito che era della stessa materia di quelli che, di sera e di mattina, cadevano sopra il dorso suo e dei suoi fratelli.
Aveva divorato il mais, mentre sentiva la carezza delle dita di Conceição che gli sfiorava avanti e indietro le penne della schiena.
“Non si guarda – aveva detto lei al bambino che già si aggirava lì intorno – vogliamo restare soli”.
Ripulita la ciotola, era stato di nuovo preso dalle mani. E Conceição indicava, parlava e insegnava nomi, rivelando e catalogando il mondo. Tutto era bagliore: l’immagine di San Benedetto, guardiano della cucina, dietro la quale si nascondevano i fiammiferi; il filtro dell’acqua, con a lato la tazza di alluminio ammaccata; panni da cucina ricamati, piastrelle verdi venute dall’altra estremità dell’oceano; la stufa a legna, fucina illuminante; e lui che – a partire da quell’istante – percorreva sentieri aperti dalla donna dai capelli-piume-grigio-argento, seguendo i suoi passi dal sorgere del sole al calare del giorno, tutti i giorni.
Dice a sé stesso che, se il doppio continua a vagare in quella maniera ingenua davanti a lui, sulla difensiva, ali arcuate, passi senza basamenti né obiettivi, sarà solo questione di tempo prima che tutto abbia fine. Decide di aspettare. Il sangue dell’altro scorre e inzuppa la sabbia.
Di questo passo, presto si ribalterà come un sacco vuoto, pensa.
Meglio aspettare. Sa che anche lui è ferito, ma gli anni nell’arena gli hanno insegnato che, fino a un certo limite – un limite impalpabile, la cui identificazione precisa distingue i grandi combattenti – vi è ritorno e cura per qualunque piaga.
Guarda la scia di sangue dell’altro. Calcola. Dietro alla testa del doppio, le nuvole corrono nel cielo, inquadrano il suo profilo in un grande panorama azzurro. È come se le forme delle nuvole, i loro disegni e rilievi, si raggruppassero intorno a quella testa come un’aureola o il presagio del sacrificio. Ma uno dei nembocumuli si scurisce, assume una fattezza appuntita; e, prima che possa respirare, sente qualcosa sbucargli come uno spillo arroventato nella pancia. Dopo essere stato alzato e lanciato a terra, dopo essersi alzato e aver visto l’altro ridere con ghigno suicida, dopo aver constatato come in realtà le nuvole siano sinistre e che la sabbia ora si stia inzuppando del suo sangue, deduce che lui, anche lui, ha attraversato il punto di non ritorno.
Il bambino gridava di notte. Quando era stato consegnato ancora in fasce in una cesta e Conceição lo aveva avvolto nelle stesse lenzuola in cui dormiva, il pianto era affogato in gocce d’acqua e zucchero stillate una a una tra i denti. Però, con il tempo, con il girare della ruota dei venti, gli urli del piccolo, che era cresciuto ed era ormai passato al letto di lato, si erano intensificati, risuonando in tutto il loro terrore alle quattro di mattina, come l’appello di un essere imprigionato in qualcosa che non comprendeva. A niente era servita la statua alla testiera – “È per protezione”, aveva detto Conceição appoggiandocela; a niente erano servite le preghiere, le benedizioni, le infusioni di salvia; perché le grida persistevano, echeggiavano, svegliavano tutta la casa.
Finché una notte, scorrendo la mano destra tra quei capelli lavati dal sudore freddo, Conceição aveva tirato fuori chissà da dove una canzone dimenticata, il cui ultimo verso faceva: “Quando dormirai, io canterò”.
Sola con il bambino tra le pareti cariche di ricordi (restavano solo loro due, gli altri erano partiti), aveva notato che le braccia di lui finalmente penzolavano inerti, e che tutto il suo corpo si era girato nel cantuccio, addormentato. Aveva tirato la tenda. Aveva spiato dalla finestra. Aveva visto che il mattino già si preparava.
Appollaiato fuori, su un’assicella, anche lui ascoltava la canzone. Sentiva che una luce generata dalle viscere della notte, crescendo d’intensità dietro alle dorsali dei monti, schiariva non solo, e sempre di più, il cortile, il molino, la macchina per macinare la canna da zucchero, ma anche l’interno, tirando fuori da lui qualcosa che sarebbe esistito per sempre: un volere, una forza ancestrale, uno scuotimento intorpidito. Qualcosa che, per ragioni misteriose, prudeva, insopportabile, sempre più intenso, correndo per le sue vene come l’ansia in direzione della gola, per poi scoppiare come uno spasmo, un’estasi, una voglia inesorabile e incompresa. Aveva fermato le zampe sul trespolo. Aveva riempito il petto, aveva sentito qualcosa fiorire dentro di lui. Aveva visto attraverso la finestra la silhouette di Conceição che accarezzava il bambino. E, quando il grido finalmente era esploso e balzato fuori dalla sua gola, echeggiando sulle cime dei tetti, svegliando tutti i vicini, aveva potuto percepire che, così come la donna che vegliava, tutto il suo corpo sembrava giurare: “Quando dormirai, io canterò”.
Ripeteva a pieni polmoni il verso. Cantava. Il sole nasceva.
Il colpo centra in pieno la testa del doppio. Strappa la copertura metallica che riveste il suo volto, facendo in modo che la protezione color bronzo voli lontano come un elmo scagliato in aria. Ma la reazione non tarda: il contraccolpo balena, ritorna disperato, e due sono adesso le teste scoperte, i becchi spogliati, le paia di occhi nudi e offuscati. Svanendo nel sangue, ogni volta più fiacco in mezzo all’isteria di mani che lo tormentano, i due si scambiano sferzate a caso. Uno a uno, i pezzi delle loro armature si rompono, cadono a terra, e lui pensa: Sembra ieri.
In un ieri ormai distante e perso nel tempo, aveva seguito i passi di Conceição sul pavimento della cucina. Curvata sotto il peso di una bracciata di legna, si era trascinata in direzione del fuoco, l’aveva acceso, ci aveva soffiato, lo aveva alimentato, aveva sorriso nel sentire lo scoppiettio delle scintille ballerine.
Si era seduta, assorta ai piedi del fuoco, mordendo un pane. Non aveva percepito la figura, oscurità sullo schermo delle pareti; non le aveva notate, lugubri e callose, le due mani che si erano intrufolate. Quando aveva intuito l’avvicinamento del ragazzo, aveva pensato di dirgli Non si guarda, ma quella presenza era subito svanita. E, mordicchiando il pane di mais, Conceição era giunta alla conclusione che le grida che era convinta di aver sentito erano solo i sibili del vento che scuoteva il tetto e le sue travi.
Nel cortile, il ragazzo gli aveva stretto la gola, soffocando l’ultima richiesta di aiuto. L’altra mano era scesa fino a terra, maneggiando una serie di manufatti brillanti mai visti prima. Aveva brandito un pezzo (lungo, ricurvo, dalla punta aguzza) e lo aveva incastrato sul suo sperone sinistro: la zampa ormai era una zavorra. E quella sensazione di peso quasi intollerabile aveva ricoperto le due zampe e la testa, opprimendolo come un fardello sul collo, facendo in modo che il suo corpo, libero, abbandonato nell’aia, cadesse e oscillasse da entrambi i lati, quasi incapace di sopportare il cappuccio, le scarpe e i pugnali d’acciaio. Era caduto. Da dentro i fori della cotta di maglia aveva sentito risa ovattate. Aveva guardato verso la cucina. Voleva chiamare Conceição, mangiare il grano, riposarsi di nuovo ai piedi della donna e di San Benedetto. Ma lei non lo sentiva. Già da tempo non sentiva. Conceição imprigionata, immobile sulla sedia con le spalle inerti e la testa macilenta immersa nelle nebbie.
Il colpo della sua zampa sinistra centra la testa del doppio, che cade in ginocchio. Ma lui neanche percepisce la caduta del nemico. Fissa un ieri distante, un cortile, le mani del ragazzo: quella sera, lo avevano caricato di tagli e cicatrici. Vede una terra solcata dai recinti, in cui delle mani lo sollevano ancora una volta, ma in maniera diversa: con la tecnica di un soldato e il rigore di un maestro armaiolo.
Sente il ragazzo – o chiunque egli sia diventato – pulire e lucidare la veste metallica. Si accorge che porta uno spicchio d’aglio tra le due palme. Accetta, becca, ingoia l’offerta, un fuoco gli brucia la pancia: nota allora che gli sale un gusto, una sicurezza, una rabbia sorda e una voglia di combattimenti. L’armatura di cuoio e bronzo è bella. Gli allenamenti si susseguono. In una lunga sequenza di serate, sono presentati trucchi, colpi, tecniche. Modi di sanguinare e resistere. L’armatura pare alimentarsi della sua carne, perfettamente adattata al collo e agli arti inferiori. Adesso leggera, flessibile come una seconda pelle, regolata quasi con la minuzia e la cura di un orefice.
Il ragazzo lo mette sul grembo. Indica un cerchio graffiato nel cortile. Insieme, camminano in quella direzione. Le mani lo posano. Guardando ai lati, si sente accerchiato da centinaia di altre mani. Entra per la prima volta nell’arena, e per un momento pensa di trovarsi davanti alla propria immagine riflessa. Ma rimane statico, mentre l’essere di fronte a lui si muove: si agita, come un vessillo di guerra, una coda fatta di tutti i colori. Fa il suo ingresso nell’arena. Nota apprensivo che l’altro ha gli speroni ricurvi come scimitarre.
Il doppio ormai non respira. E lui, calpestando quel corpo inerte, tenta di camminare in direzione dell’ultimo riflesso della casa e della cucina. Vede Conceição rannicchiata davanti alla stufa a legna. La vecchia trema, gira un ceppo, le fiamme scoppiano, brillano, il sole ormai si adagia.
Solitaria, senza la platea dei giorni andati, Conceição innalza le due mani al cielo. E lui pensa: Non si guarda.
Ma vede il primo di loro, le sue ali, le sue piume d’ombra indossate, il suo dorso che svolazza tracciando curve sulle pareti. Conceição contempla le proprie mani. Altri uccelli si alzano in volo: ricordano, planando per il soffitto, per il pavimento, da ogni lato, uno stormo di uccelli migratori alla ricerca del calore. Neri come corvi, gridano, danzano intorno al fuoco. Le loro figure, crescendo di misura, ricoprono poco a poco il soffitto, le pentole, i mestoli di rame e i mattoni imbiancati. Si estendono sui panni, sugli utensili, sul verde oceanico delle piastrelle, e, uniti in un unico corpo, immediatamente fusi in un tutto, scendono e si scuriscono, atterrando proprio sopra al santo protettore. La notte rompe le vetrate. Avvolge le piante. Il grano. Il molino, la macchina per macinare la canna da zucchero. Bagna la terra, i suoi toni madreperla. E un involucro, molto simile a quello da cui la donna e suo figlio l’avevano espulso, erige nuovamente le sue pareti.
Denso e scuro, il fluido gli sale per le zampe, l’addome, il collo. I contorni del cortile scompaiono. Un volto si disegna nell’oscurità. L’involucro si chiude, l’ultimo respiro scappa dalla radice dei suoi polmoni. Prova ad ancorare le due zampe molli, ma fluttua; e alla deriva, sospeso in quel liquido, riesce ancora a sentire il suono: il giro della ruota dei venti, il suo ingranaggio, il suo soffio glaciale, diramato per la terra come un galoppo di legioni in marcia.
Testo Krishna Monteiro
Illustrazioni Angelica Bettoni
Traduzione dal portoghese di Maristella Petti