Ho sempre vissuto con Zia e Zio. Sono gli unici stronzi che io abbia mai avuto, e ho sempre vissuto con loro. La casa è fredda e tutta in altezza, e la mia camera è proprio in cima, al quarto piano, nello spazio sotto il tetto: se mi metto al centro sto bene, ma da quando ho compiuto undici anni, qualche anno fa, devo piegarmi tra il soffitto che crolla e i topi che scappano. Se non sono a scuola passo molto tempo qui, sul letto. Disegno oppure scrivo.
Al piano di sotto, Zia fuma il narghilè e ascolta l’audiocassetta di canzoni d’amore tristi che ha una grande “S” di smalto blu sopra. Zio dorme. Si sveglia quando il cielo diventa scuro, e si lava la faccia finché gli occhi diventano rossi e l’acqua sgocciola dai lunghi capelli piumati. Poi scende di sotto e si siede sul bordo del divano, respira profondamente, facendo rumore come se avesse in gola qualcosa di umido e verde. Aspetta che Zia gli porti la bevanda speciale, sangue fresco di gallina e acqua di rose, servita in un bicchiere con disegnati sopra dei fiori dorati appassiti. Lo trangugia, rovesciando all’indietro la testa piumosa, poi sbatte il bicchiere sul tavolo, si schiarisce la gola, indossa la sua fetida giacca di pelle e si avvia verso il Paris Sweets and Restaurant, dove lavora e suda tutta la notte in una cucina piccola e buia su pentoloni che se gli cadessero in testa lo schiaccerebbero.
Io non bevo il sangue della gallina, ma ne mangio la carne quando Zia la cucina. La cucina in tutti i modi, col burro e le spezie, trasformandola in questo o in quello, un pasticcio, una zuppa o una gelatina. Zio non mangia la carne, Zia dice che la gola gli si chiude attorno al cibo. È il sangue della gallina che lo fa andare avanti, e anche gli odori della cucina: sono tutto ciò di cui ha bisogno. Non mangia cibo solido da così tanto tempo che il suo aspetto è grigio. O come se provasse un dolore costante. Perfino io potrei fargli male, se volessi. E qualche volta ne ho voglia. Me lo immagino sul pavimento e io sopra di lui, nel modo in cui a volte Zia si mette sopra di me, la fronte coperta di sudore, gli occhi sporgenti. Vicino a me e Zia lui non è niente. Grazie alle galline che mangiamo ogni giorno, io e Zia siamo soffici e tonde. Diventiamo sempre più tonde, soprattutto attorno al mento e alle cosce. Ne andiamo fiere, o almeno credo. Zia è orgogliosa del suo petto, e dice che la pancia va mostrata, non nascosta.
“Non abbiamo fame”, dice Zia.
Questo è sicuro. Mangio talmente tanto che a volte il cibo mi torna in gola e devo rimandarlo giù. Zia dice che le mie gambe sembrano quelle di un pollo e quando mi colpisce sulla testa o sulla schiena o sulla coscia o da qualche altra parte, per gioco o quando è davvero arrabbiata, dice anche che deve andarci giù pesante così che io possa sentirlo attraverso gli strati di grasso. Anche se Zia dice che dovremmo mostrare pancia e doppio mento con orgoglio, a volte io credo che non dovremmo. In quei momenti penso che non dovrei mangiare. Ma poi mi dico: perché no? E non trovo mai una buona risposta a questa domanda, per cui continuo.
E Zia fa di tutto con la gallina: curry, paté, pasticci, kebab, dolci, torte salate. Ogni piatto comincia con lei che uccide una gallina con il coltello, le mozza la testa, fa scolare il sangue in un tubicino di plastica blu per la bevanda di Zio, e poi smonta il corpo in mucchietti di organi rosso scuro, bianche bolle di grasso, e pacchetti di carne plasticosi. I muscoli. Il petto e le cosce della gallina. Zia strappa via i grumi di grasso e i pezzi di cartilagine, le corde dei tendini, rosa, bianche e rosse, una specie di colla che tiene insieme tutte le parti della gallina quando è viva, via dal tagliere e dentro il sacchetto dell’immondizia, dove pezzi di ogni tipo si attaccano alla plastica e mi sporcano le mani ogni volta che butto qualcosa nel fottutissimo bidone. Le interiora, questo scintillante groviglio rosso scuro, le frigge nel burro e nell’aglio finché non diventano blu e grigie. Alla carne rosa, lei può aggiungere chili, sale e yogurt, poi la mette nel frigorifero vicino alle bottiglie di latte ripiene di sangue di gallina. Le bottiglie di latte le prendiamo dal lattaio, le galline, siccome dobbiamo avere sangue fresco per Zio (o lui morirà) le prendiamo dall’Uomo Gallina, e non dai macellai come fanno tutti.
Di solito lui viene la domenica. È basso, il bastardo, e indossa una giacca blu da macellaio che gli scende fino ai polpacci e uno zucchetto bianco fatto a maglia che gli sta in testa come una ragnatela. Parcheggia il furgone nella curva del vicolo cieco, che i palazzi della via di casa nostra circondano in una mezzaluna. Suona il clacson un paio di volte, poi salta fuori e apre il retro del furgone per farci vedere tre file di galline, la faccia grigia e urlante nelle gabbie anguste, i becchi che spingono per uscire dal buio, il fetore del letame che si diffonde per la strada e arriva ai miei occhi e li fa lacrimare, e così io li strofino e rimango lì, davanti alla porta, mentre Zia si fa strada verso il furgone e si tocca le tette per cercare il portafoglio.
“Aaah! Questo sì che è odore di cibo vero”, dice lei, arricciando il naso e ridendo.
Avvolge la sciarpa gialla intorno al testone e la tiene ferma facendo scivolare un po’ del tessuto tra le labbra contratte. Fa un cenno con la testa all’Uomo Gallina per salutarlo.
“Quante?”
“Dammene dieci.”
“Eh, sapessi quante te ne darei.”
“Lo so, lo so. Magari più tardi, ma non qui, bello mio.”
Lei si tasta le tette per cercare le monete, e l’Uomo Gallina la guarda, prima di girarsi lentamente e tirare gli uccelli fuori dalle portiere. Le mie pollastre, le chiama. Le mie ragazze.
Zia è una ragazzona. Lo è sempre stata, anche prima che iniziassimo a mangiare le galline. Ha le tette che rimbalzano e le labbra macchiate dal tabacco.
Porta un anellino d’oro alla narice sinistra e le perline si muovono scintillando ogni volta che parla. I capelli sono ricci il venerdì, quando li pettina, ma di solito li tiene legati in una treccia spessa e nera che le scende rigida sulla schiena, lungo la spina dorsale o tra le pieghe di grasso. Zia e l’Uomo Gallina hanno quello che lei chiama un accordo speciale.
Lui le dà le galline a buon prezzo e lei gliele cucina quando Zio è al Paris. Due volte a settimana, l’Uomo Gallina arriva a casa nostra tutto sudato, rosso in faccia: è soddisfatto, il bastardo, affamato. Lascia macchie di unto sul sofà rosso brillante e fuma sigarette sottili e nodose che si fa da solo mentre Zia gli urla dalla cucina dove prepara gli uccelli. Se Zio ne prendesse anche un solo boccone, morirebbe.
È strano che lui non può mangiarli, o schiatterebbe, e che invece noi moriremmo se non li mangiassimo. Ma com’è che lui non può mangiare la carne e può bere il sangue, e io, che invece il sangue mi fa vomitare, posso mangiare la carne?
L’Uomo Gallina prende tutte e due, manda giù la carne con due bicchierini di sangue. Lo mischia con un sorso di alcol che si porta dietro in una fiaschetta, nella tasca interna della giacca. I suoi grugniti di risate e piacere, i suoni del risucchio che fa quando strappa la carne della gallina dalle ossa, ruttando, leccando, e scoreggiando, arrivano fino al piano di sopra, in camera mia.
Quando mi dicono di andare di sotto a pulire la tavola, nei piatti non è rimasto più niente. Poi lui mi guarda come se fosse la prima volta che mi vede, la bocca un po’ moscia, gli occhi un po’ glassati.
“Questa è bella in carne – dice – scommetto che è deliziosa! Tu che ne dici?”, chiede il pazzo bastardo.
Zia allora si arrabbia e gli sbatte davanti un pasticcio verde ripieno di gallina. Zia è davvero una cuoca fantastica. Riesce a fare qualsiasi cosa con la gallina, cose salate, cose dolci, tutto. L’Uomo Gallina mangia tutto quello che lei gli mette davanti, per come la vede lui, ci sta facendo un favore andando a prenderci le galline dalle Fabbriche (anche se sono libere), e poi un altro favore mangiando quello che Zio non può mangiare, assicurandosi che la carne non vada sprecata.
“Se quel povero bastardo non può mangiare, non credo che voi due signorine riuscite a finirvi dieci galline in una settimana, tu che ne dici?”.
Io e Zia abbiamo l’aspetto di chi mangia dieci galline in una settimana. Ma quando lui dice così Zia ridacchia sempre. Tu che ne dici? Tu che ne dici?
Dice questa frase per tutto il tempo, senza aspettarsi che Zia dica una parola. Queste sigarette sono di prima classe, tu che ne dici? Questa ragazza è una causa persa, tu che ne dici?, lo dice ogni volta che mi vede, gli occhi che brillano.
A tavola, quando gli metto i piatti davanti, lui mi si struscia addosso. Ogni volta che mi guarda sento qualcosa dentro di me che si restringe.
“Numero Uno, eh, tu che ne dici? Numero Uno, non è vero?”, dice sempre, guardando me e i piatti di gallina, e leccandosi le labbra e guardando Zia, mentre lei cerca i soldi nel reggiseno e gli dà un paio di monete d’argento. Lei sorride, la testa inclinata.
Poi lentamente gli volta le spalle e mi si avvicina, con cinque uccelli che strillano per mano.
“Da dove prende le galline?” le chiedo io, ancora una volta.
“Te l’ho detto, passerina mia,” risponde lei, come ogni volta. Io la guardo.
“Da dove pensi che le prenda? Una fattoria ovviamente.”
Poi, tutta incazzata: “Giuro su dio, questa è una vera idiota. Povero stronzo chiunque finirà con lei.”
Dice sempre così.
Mi passa davanti con le galline, tutte quelle bestiacce schifose, che si agitano per scappare.
“Chiudi quella cazzo di porta!”, urla lei.
E poi fa cadere gli uccelli per terra, che si agitano intorno, tutte con le piume chiazzate di bianco e grigio e gli occhietti acquosi. Zia afferra dalla tavola un coltellino affilato e, acciuffando una gallina a caso, le tira le ali verso l’alto fino a che il peso del corpo rivela il tendine color crema che unisce l’ala al corpo, quindi lo squarcia col coltello per non farla volare via.
Mentre la osservo lei dice: “Che cazzo guardi? Prendila e portamela!”.
E così prendo quella che lei ha appena squarciato e la lancio nel retro del giardino, ne prendo un’altra e gliela passo. Mi piace la sensazione dei petti e delle costole che si agitano nelle mani, anche se ho paura di loro e sono tutte delle bestiacce schifose e immagino che mi caverebbero gli occhi se i loro non fossero così acquosi e pieni di pus.
I pomeriggi della Domenica passano così, io che prendo le galline e le passo a Zia, e Zia che squarta la pelle sotto l’ala della gallina, non abbastanza per staccarla tutta, ma abbastanza per impedire alla pazza bastarda di volare, anche se è già successo, che Zia si è eccitata e l’ha tagliata troppo forte, staccando l’ala del tutto, e questo uccide la gallina sul momento, ma noi continuiamo, piegandoci a pulire la merda acida dal pavimento prima che si indurisca sul linoleum, tagliamo la gola ad altre due o tre galline, lanciamo le zampe rigide in cortile, e così le altre galline se le contendono, poi raccogliamo il sangue dai colli gocciolanti di quelle che abbiamo ucciso in un tubo di plastica rosa nel lavandino, poi lo versiamo dentro vecchie bottiglie di latte e lo mettiamo nel frigo.
Non pensavo che le galline potessero volare, perché non ne ho mai vista volare una. Quando ero piccola ho chiesto a Zia se le galline potevano volare, e lei mi ha tagliato la treccia dei capelli con il coltello e l’ha lanciata sul pavimento dove le galline l’hanno beccata e coperta con la loro merda, così ho pianto e pianto poi alla fine l’ho buttata nel secchio dove è scomparsa un poco alla volta sotto mucchietti rossi e rosa e bianchi e viola di grasso, cartilagine, pelle e piume.
Zia mi ha detto che gli taglia le ali sia se sanno volare che no, quindi se sanno volare o no è irrilevante. Penso che questo vuol dire che possono volare, o che Zia ha paura che volino. Zia ha il suo modo di fare le cose. La casa puzza sempre di gallina o di sangue di gallina, oppure di sigarette e di un morbido aroma di sudore e spezie. Il sudore e le spezie arrivano dalla giacca di pelle di Zio. E penso sempre che questi odori sono per lui quello che il cibo è per noi. Lui mangia gli odori e beve il sangue. Quando non la indossa la sua giacca puzzolente resta appesa al muro. Quando la indossa è perché sta andando al lavoro, al Paris Sweet and Restaurant, dove cucina ma non mangia mai, perché vive con l’odore della cucina e una pinta al giorno di sangue di gallina.
“Ha bisogno della sua bevanda per tenersi su, quest’uomo ha bisogno del sangue della gallina per reggersi in piedi, dentro è tutto secco e vuoto. Asthma, lo vedi, questo è il suo problema, dentro è secco come la farina del pane chapati. Non produce più sangue, il sangue della gallina è tutto quello che ha in quel corpo secco e vecchio. Gli dà un po’ di forza, la forza di pulirsi il culo, quantomeno. Dentro è secco come la farina del chapati, secco come la polvere, con tutto il tossire e l’ansare che fa, secco pure nelle palle, e menomale, cazzo! La maggior parte del tempo non riesce nemmeno a farselo rizzare senza una tazza o due di quel sangue, grazie a Dio, grazie a Dio mi sono risparmiata il suo rametto puzzolente, appiccicoso e malaticcio tra le gambe”.
Zia certe volte mi considera come una sorella, e allora mi dice cose di cui poi si dimentica, quando si infuria e mi sbatte la testa contro il corrimano o, se non riesce a prendermi subito, mi insegue fino su in camera e afferra un paio di forbici, o un pezzo della fune metallica che usiamo per appendere le tendine, o un mattarello, o qualsiasi cosa a portata di mano, e mi picchia finché mi manca il respiro. Penso sempre: Mi ucciderà, mi ucciderà, mi ucciderà.
Ma non muoio mai. Piango solo un po’, mi asciugo le lacrime e faccio sempre gli stessi errori, dimentico di non far rumore mentre mastico, o di non fare domande stupide, sempre pigra, sempre distratta, qualche volta me la faccio ancora addosso. Zia dice che sono senza vergogna e che nemmeno picchiarmi per bene può insegnarmi qualcosa, ma io non sono d’accordo. Le botte mi insegnano qualcosa. Dopo averle prese mi sento calma e vuota, non ho più voglia di scrivere o disegnare. Mi appallottolo sotto le coperte in una specie di sonno.
Zia ascolta la radio, o la sua cassetta preferita, e sviscera e pulisce la carne di pollo, taglia le interiora, e le separa in mucchi bianchi, rosa e marroni. Il lavandino è pieno di bottiglie di latte ripiene di sangue. Le galline lottano in giardino, beccano le gambe di quelle morte sparse nel solaio. Le galline parlano tra loro della paura per la lama di Zia, della speranza che quando accadrà sarà veloce. Le guardo e penso di poter capire quello che si dicono. Qualcosa riguardo uno stabilimento, o il bosco, o il fil di ferro conficcato nei loro piedi. Girano le zampe di quelle morte, le zampe che sono rimaste di fronte a loro sul solaio, se non le hanno portate via i ratti, loro le girano, e mostrano l’una all’altra gli sfregi nella carne. Parlano tra loro come Zia fa con me qualche volta, quando dice che mi considera una sorella.
Qualche volta, Zia mi dice che quando erano sposini Zio beveva il suo sangue. Gli piaceva guardarsi mentre con quello diventava rosso e viscido, poi scendeva su di lei e la leccava fino a prosciugarla, lei dice. Adesso lui beve solo sangue di gallina, il bastardo. Ha gli occhi piccoli e acquosi e i capelli neri e sfarfallanti, e non parla mai con me e Zia. Zia è spaventosa perché si arrabbia improvvisamente e mi picchia. Ma almeno so che mentre mi guarda, con gli occhi stretti, scuotendo la testa, tutto quello a cui pensa è: Davvero un povero stronzo chiunque finirà con te, perché è questo quello che dice. Ma Zio non dice mai niente. Respira rumorosamente, come se avesse qualcosa di umido e verde incastrato nella gola. Ha le mani pelose, e la pelle rosa. E non gli ho mai visto toccare niente che non sia il sangue della gallina prima di andarsene al Paris.
Al Paris, la stanza principale è rivestita in carta da parati damascata rosso scuro, e attaccate al muro ci sono delle luci calde e fioche fatte con semicerchi di carta. Dieci tavolini rotondi ricoperti di tovaglie bianche sono disposti cinque per lato, lasciando al cameriere vecchio e magro lo spazio sufficiente per attraversare la parte posteriore, dove c’è un espositore di dolci poggiato su un
bellissimo acquario. Dentro ci sono barfi, gulab ja mun, jalebi all’arancia e mattoncini di halva. Uomini bianchi incuriositi ci passano davanti con le facce corrugate e ridacchiano nervosamente. “Capo,” il proprietario del Paris, sta seduto vicino al banco sotto un enorme stampa in bianco e nero della Torre Eiffel ricoperta di scritte elaborate. Biascica un incoraggiante molto buono, o anche ottimo, a qualsiasi pezzo che i clienti scelgono, fissando tutto il tempo le lunghe gambe scoperte e i seni soffici e cadenti delle donne bianche. Al piano di sotto, la cucina è illuminata da un’unica lampadina spoglia appesa al soffitto. È uno spazio troppo stretto per i cinque uomini che sono incastrati dentro. Ascoltano canzoni che parlano di uomini che lasciano il villaggio, di una madre a cui trema il mento mentre dice addio, o dell’ombra di un albero di mango in estate e delle forme della donna che ci dorme sotto. I muri sono umidi di vapore e l’odore di cardamomo si mischia a quello del sudore, del fumo delle sigarette e delle spezie. In questo ambiente Zio è silenzioso ma determinato. Gli altri uomini sono più grossi di lui, e vicino a loro lui sembra ancora più sperduto e fragile di quanto non sia a casa, o per strada. Resta in cucina finché l’ultimo cliente non se ne va, e poi la mattina presto viene a casa, e le galline nel giardino sul retro iniziano a svegliarsi, arruffano le piume, beccandosi tra loro, Zio porta a casa dischi di pane naan e vaschette d’alluminio unte piene di riso pilaf colorato e li lascia in una borsa sul pavimento della cucina. Se è ancora morbido mangio il naan con un po’ di burro o marmellata, sto in piedi davanti al lavandino e guardo nel giardino la folla di galline sedute sul solaio grigio come nuvole svuotate, perse l’una nell’altra, che tremano al freddo.
Mi sciacquo la bocca, scorro le dita sui denti, e vado a Scuola. Zia dice che la Scuola è obbligatoria solo per le ragazze che non sanguinano. Quando lo farò, lei dirà alla scuola che sono ammalata e che non posso più andarci, e poi Zio mi troverà un Uomo con cui vivere insieme e diventerò anche io una Zia se troverò un “piccolo pulcino” a cui badare, proprio come Zia e Zio hanno trovato me.
Zia dice sempre che mi ha trovato nei bidoni dietro la sala comunale. È li che molte ragazze vengono trovate. Mentre piangono e vomitano. Lei dice che ero coperta di merda e tremavo, così lei mi ha preso e mi ha portato a casa e mi ha sfamato con dell’acqua zuccherata su un piccolo panno di stoffa che ho stretto e succhiato finché non ho cominciato a camminare e parlare. Lei lo
ha detto alle Autorità e loro le hanno dato cinquanta sterline a settimana per avermi accolta. Soldi che sono finiti qualche anno fa, dice, con un tono pieno di sottintesi. Lei non capisce questa cosa della Scuola, dato che so già camminare e parlare bene, posso leggere le cose che le Autorità spediscono a casa, e tradurle per lei quando un uomo o una donna delle Autorità bussano alla porta, e fanno domande su questo o quello, tipo Dov’è tuo Zio? In queste situazioni, devo dire che è uscito, mai e poi mai che sta dormendo, o che sta al bagno, o che è al Paris, dice Zia.
Lui non esce mai, lui dorme sempre. Ma per qualche ragione non posso dirlo, non va bene. Gli Zii dovrebbero stare fuori, non a dormire. Se sbaglio creo dei problemi a Zia. Così faccio quello che mi dice.
A Zia non piace vedermi leggere o scrivere in casa. Allora lo faccio in camera mia, oppure lo faccio solo quando sono a Scuola. La Scuola è tre stanze sul retro di un edificio alto e rosso che ha tutta l’aria di essere stato una chiesa ma che ora viene usato per i matrimoni e occasionalmente per lezioni di cucina e attività per Zie che non vanno al lavoro. Per arrivarci devo camminare per 40 minuti e a volte ancora mi perdo. Cammino per quattro o cinque strade, e poi alcuni boschi, e poi per un sottopasso che va sotto la strada principale. È un percorso che conosco, ma qualche volta i boschi mi confondono perché gli alberi sono tutti uguali. E poi mi siedo lì, ovunque io sia, e piango fino a quando si avvicina qualcuno a cui posso andare dietro, che di solito succede dopo pochi minuti. E poi spremo il naso umido nella manica del maglione e lo rigiro così che il moccio è arginato da una specie di tasca. Mi vesto coi colori della Scuola, viola e grigio, un ruvido maglione viola con una linea gialla intorno al collo a V, su una camicetta grigia e uno scamiciato con dei bottoni di plastica luccicanti tutti sul davanti.
Qualche volta, se è sveglia o di buon umore, Zia mi tira i capelli all’indietro, li alliscia con l’olio e li lega in una treccia spessa che brilla giù per la schiena e cade dietro il sedere in una specie di pozza. Non credo che sia il modo migliore per acconciarmi i capelli, dato che mi mette in risalto il mento. Senza i capelli intorno al viso il mio mento è tutto esposto, traballa, invece di fondersi con il collo e il petto come fa quando i capelli sono giù. A Scuola mi siedo vicino a Selma. Lei ha la pelle screpolata e delle spaccature intorno alla bocca. Ogni tanto si gira verso di me e mi chiede “Che sta dicendo?”, indicando con la testa la signorina McCain, quella strega della nostra insegnante.
Io le rispondo: “Stupidate, probabilmente, conoscendo quella stupida stronza.”
A pranzo mangio piselli tiepidi e carote industriali a cubetti con bastoncini di pesce e fagioli. Per dolce ho una crostata di marmellata e cornflakes. I piatti azzurro pallido sembrano delle piccole lune sui tavolini circolari rossi e gialli della sala da pranzo. Sono come pianeti, penso, o come tuorli d’uovo e sangue. E i piatti, sono lune o uova? Tutti soffici e appiccicosi o tutti pietra e polvere di talco? Tocco il mio piatto, i bordi sono coperti di ditate appiccicose di marmellata. Mangio lentamente, e ascolto i bla bla bla delle conversazioni che mi circondano. Loro dicono che sanguinare fa male. Ma dicono anche che il taglio guarisce da solo. Non può ucciderti. I tagli guariscono sempre da soli. Di solito quello che succede con i tagli è che diventano come marmellata e pizzicano prima che la pelle nuova arrivi a ricoprire il buco, comincia con uno strato giallo e sottile che continua a crescere su se stesso, premendo la pelle buona tutta intorno al buco, e poi la parte gialla si secca e s’indurisce finché il buco è rattoppato, poi intorno si fa una specie di anello, intorno alla pelle nuova c’è un contorno, e questo nuovo pezzo di pelle non ha la stessa forma o consistenza di quella vecchia. E penso: è questo quello che succede quando sanguino lì sotto?
Penso al collo di una gallina che si rapprende in questo modo, si rimargina, creando nuovi strati di pelle e ossa, e muscoli e cartilagine, e piume e occhi acquosi, finché la bestiaccia schifosa non torna a starnazzare, a correre sulle gambe spezzate, sbattendo le ali ormai staccate. Le cose sono così, penso, hanno bisogno di tempo. Solo un po’ di tempo, e le cose crescono, cambiano, sanguinano, guariscono. Ma forse le ali tagliate non possono guarire, forse il taglio è troppo nascosto sotto l’ala, invisibile agli occhi. Magari si rimargina ma lo fa come un nodo che lega la gallina a terra.
Queste sono le cose a cui penso quando mi perdo andando a Scuola. L’altra cosa a cui penso sempre è l’Uomo. Forse Zia e Zio hanno già trovato l’Uomo per me. Ci penso spesso. E mi chiedo se comprerò una gallina per quest’Uomo, e chi la cucinerà.
Mi è successa una cosa, negli ultimi tempi: se tocco lo spazio tra le gambe, posso sentire delle piume. O non proprio piume, perché le piume dovrebbero essere soffici.
Sono un po’ come dei piccoli chiodi conficcati nella pelle, ma sono duri in basso e poi soffici in cima. Li posso sentire anche sotto le braccia. Piccole punte affilate e spinose che rompono la pelle. Di giorno non vedo niente, ma di notte, quando i topi corrono veloci sul pavimento, e l’Uomo Gallina è di sotto con Zia, mi tocco tra le gambe per calmarmi. Tocco le piume là sotto e sento l’odore dell’Uomo Gallina: merda di gallina e sudore e sigarette. Se smetto di respirare, posso sentire un gemito che proviene da qualche parte dentro di me, o, penso, trattenendo il respiro, viene da sotto? Non ne sono sicura perché sono troppo spaventata per andare a controllare. Allora sento questo spazio tra le gambe, sotto le lenzuola, e posso sentire le punte, posso quasi vederle,
sono proprio delle piume ossute che rompono la pelle, e sì, posso vederle, spingono da dentro, nell’aria scura sulle mie coperte, e fuori, sopra il letto, come strani fiori, si allungano verso la luce della luna.
La mattina ho trovato piume tra le lenzuola e poi, guardandomi tra le gambe, vedo che sono pelata come una gallina spennata e puzzolente. O pelata come gli uomini che una volta hanno picchiato Zio. Grandi, arrabbiati, uomini rosa con le teste pelate, o le teste coperte da una peluria corta e bionda, una volta hanno seguito Zio per strada. Quando lui si è girato per guardarli, loro lo hanno picchiato e picchiato finché lui non ha sanguinato dalla tempia e da un lato della bocca. Da quella volta lui esce dal Paris solo quando le strade sono davvero tranquille, poco prima dell’alba, e cammina verso casa a passi piccoli e veloci, stringendo un coltello nella tasca.
Poi resta in camera sua per tutto il giorno e dorme fino al turno successivo. La sua pelle è grigia e i suoi occhi sono piccoli e acquosi. Dopo che è entrato resta nel pianerottolo l’odore metallico della cipolla. Assomiglia a quello del sangue, il che non mi stupisce, dato che lui ama il sangue.
Una volta amava bere il sangue di Zia. A un certo punto della loro relazione questo è quello che faceva, beveva il suo sangue. Alla fine deve averla prosciugata, ed ecco perché adesso lei gli porta il sangue di gallina mescolato con l’acqua di rose in un bicchiere decorato da fiori dorati e appassiti. È difficile che io mi sieda nella stessa stanza con lui. Qualche volta, quando entra nel salone, e io sono persa nei miei pensieri, riflettendo su questo o quello, e non capisco che quel rumore non è il mio respiro ma il suo, allora, mi accorgo troppo tardi, solo quando lui è entrato, che stare nella stessa stanza con lui mi fa venire voglia di vomitare. Sento che mi sta guardando, e penso forse vuole dire qualcosa, ma no, lui non parla mai, quello che vuole è bere il mio fottuto sangue, penso. Tutto qui. E mi guardo e riguardo i piedi. E penso, se non faccio alcun rumore e non dico niente, lui se ne andrà presto.
La mattina quando sento che arriva, la porta che sbatte, e poi lo sferragliare del respiro, aspetto che se ne va in camera, poi m’intrufolo in cucina per mangiare i roll succulenti di kebab che ha portato a casa, impacchettati nella stagnola. Guardo sopra il lavandino, fuori dalla finestra, nel retro del giardino, gli uccelli tutti seduti vicini, il pavimento intorno a loro è disseminato di zampe di gallina e pezzetti di granturco. Penso di buttargli un pezzo di naan o di kebab, ma prima che possa accorgermene, me lo sono mangiato tutto, mentre pensavo, e ora non è rimasto più niente.
Oggi, sento qualcosa di caldo tra le gambe e penso che me la sono fatta di nuovo addosso. Corro su per le scale, e adesso sento un dolore acuto, non è piscio, il piscio di solito non fa questo effetto. Mentre mastico la carne di kebab, con la bocca aperta, respirando profondamente, mi chiudo in bagno, tiro giù i pantaloni, e vedo qualcosa che spinge contro le mutandine. Non riesco a respirare. Tirò giù le mutandine e delle piume si aprono all’improvviso intorno alle gambe. Lunghe e bianche, come dita bianche e lisce che mi graffiano, mi solleticano, mi graffiano finché non sanguino. Perché eccola lì, una macchia di sangue nelle mutandine e sul pavimento.
Non so che fare, strofino il pavimento con un po’ di carta, infilo un po’ di carta velina nelle mutande, e prego e continuo a pensare, spero che nessuno senta l’odore del mio sangue, spero che nessuno senta l’odore del mio sangue, per favore, ti prego, fa che nessuno senta l’odore del
mio sangue, che nessuno senta l’odore, che nessuno senta l’odore, che nessuno senta l’odore, che nessuno senta l’odore.
Indosso la mia divisa e cammino finché non arrivo nel bosco, pensando che a Scuola ci andrò comunque, ma poi un dolore allo stomaco mi ferma. Così mi siedo e mi piego un po’ in avanti,
facendo dei rumori, frignando. E quando guardo in alto, le mie mani sono scomparse sotto le piume, piume bianche e lunghe. E i vestiti mi scivolano via.
Il mio collo è coperto di piume bianche e soffici, e si fonde al mio petto, alle piccole tette che stanno spuntando dal grasso del mio corpo. Tutto in me è teso, compatto, tenuto insieme da tendini appiccicosi, tutte corde bianche e rosa. Allungo le ali e provo a saltare in aria ma non succede niente. Allungo la testa verso terra, beccando di tutto. Il mio collo scatta in avanti, e poi indietro, e poi in avanti.
Resto nel bosco finché non si fa buio, e piango, ma senza fare rumore e non posso stropicciarmi la faccia né niente. Solo i miei occhi torbidi che lacrimano, e so che sto piangendo perché posso sentire una stretta al cuore. Se Zia mi vedesse, mi taglierebbe la testa. Farebbe di me tanti pezzi e tante fettine, e ne mettere un po’ nel bidone, un po’ nella torta. Zio berrebbe il mio sangue mescolato all’acqua di rose, dal bicchiere alto coperto di fiori dorati appassiti. Non mi muovo. Resto qui, nel bosco, e sto alla larga dagli altri uccelli di merda, che strillano e volano per aria e poi di nuovo per terra e mi guardano come se anche loro volessero uccidermi. La prima notte è dura perché non ero mai stata una gallina. O forse, sono sempre stata una gallina. Ma non posso pensare troppo, il mio cervello si sta restringendo. Ancora sento delle cose. Ma sono piatte e taglienti. Ho fame. Ho paura. Ho sonno.
Certe immagini lampeggiano nella mia testa: zampe sparse sul pavimento del giardino, l’odore della carne, ancora caldo dopo la morte. Rivedo l’Uomo Gallina ancora e ancora. Tu che ne dici? Lui dice, ancora e ancora e ancora. Tu che ne dici? È buio. Sono stanca e smetto di piangere. Chiudo gli occhi che colano, e finalmente mi sen to un po’ calma e vuota e resto lì in silenzio.
Testo RZ Baschir
Illustrazione Francesca Saresi
Traduzione dall’inglese Martina Tiberti