Nel maggio del 2024, durante la settimana che precedeva il mio quarantatreesimo compleanno,
ebbi dei problemi di salute che mi costrinsero in casa per alcuni giorni.
Tutto cominciò con una febbre che saliva e scendeva, apparentemente senza criterio, ogni otto ore. Affaticato, restavo le ore del giorno a fissare il soffitto. Il mal di testa mi impediva di leggere o di guardare le partite di calcio alla televisione.
Un pomeriggio, dal momento che rispondevo malvolentieri anche al telefono, venne a trovarmi il
mio amico Ernesto Amitrano.
Nonostante fosse un maggio freddo, come raramente capita a San Lorenzo, Amitrano era sudato.
Seduto sulla poltrona vicino al mio letto, con la giacca di lino che gli copriva le nocche, Ernesto
aveva la fronte lucida e si faceva vento con il giornale.
“Tu non sai la novità”, mi disse e io rimasi ad aspettare perché davvero non la sapevo.
“Sai chi è tornato a San Lorenzo? Rafael.”
La notizia mi sorprese, perché lo credevo morto.
Negli anni in cui era scomparso, era capitato che qualcuno dei vecchi amici sostenesse di averlo incontrato.
Qualche volta era a un concerto, altre in una città del Nord ma, la costante di tutte le storie, era la
sua condizione critica. Viveva per strada, così dicevano e, presto, la sua storia, che era stata leggenda, si era tramutata in un pettegolezzo, e poi in un ricordo sbiadito e inoffensivo.
Ernesto aveva smesso di sventolarsi e si teneva il giornale sulle gambe mentre raccontava che era tornato accompagnato da una donna molto alta e da un bambino dentro a un passeggino che aveva i capelli lunghi e le rughe sulla faccia, o che forse era solo sporco. Si aggiravano chiedendo spiccioli e cibo nei negozi.
“Porta un nome nuovo”, disse il mio amico.
“Che nome?”, chiesi, ma lui non lo aveva capito.
“Farfuglia — aggiunse — dice che lo stanno cercando”.
“Cosa ha fatto?”, lo interrogai, ma ancora una volta Ernesto non seppe rispondere: “Rubava penso, lo sai, rubava anche qui e senza grande destrezza”.
“Ricordi – sorrise poi Amitrano mostrando i denti piccoli come quelli dei ragazzini – quando di notte gettava i cellulari nei cespugli e poi scappava?”.
“Tornava il giorno dopo per vedere se ancora c’erano”, sorridemmo insieme.
“Faceva anche la cacca sulla macchina di padre Mario — gli ricordai — e poi si puliva con le foglie di gelso”.
“Ma perché lo faceva?”
Ernesto si grattò la testa imbarazzato, come se questo oltraggio della cacca lo agitasse ancora a distanza di così tanto tempo.
“E che ne so — risposi, lisciando il bordo bianco delle lenzuola — si metteva nei guai per cose talmente cretine”.
“Non porta più gli occhiali”, disse poi, e io, senza dirlo, mi ricordai delle lentiggini che aveva sul naso storto, e del fatto che fosse sempre sudato al punto che in inverno gli usciva il fumo dai capelli.
“Ti cerca”, disse poi Ernesto e capii che era venuto fino a casa mia per avvertirmi. Provai come una fitta allo stomaco e mi rabbuiai.
“Dice che parte domani”, sentenziò Amitrano e poi mi salutò.
Non lo accompagnai alla porta, perché sentivo ancora le forze che mi abbandonavano e rimasi ad ascoltare il tonfo dei passi lungo il corridoio.
Diressi lo sguardo fuori dalla finestra e vidi il sole che sbiadiva e si abbassava oltre la collina e ripensai a Rafael, ovviamente, e al fatto che una parte di me desiderava vederlo, anche se avevo paura.
Era arrivato in Italia a nove anni. Dal primo giorno era venuto a sedersi accanto a me. Veniva spesso a casa mia, gli piaceva stare a tavola con noi. Era dolce, a suo modo, e cercava di piacerci, goffamente. Raccontava storie, ma non del suo passato e comunque erano storie senza senso e confuse. Noi tutti, anche gli adulti, lo guardavamo con curiosità perché era il primo brasiliano che conoscevamo e ci sembrava strano che avesse la pelle così chiara.
Raccontava di essere di Recife, la maestra, in sua assenza, ci diceva che era un posto estremamente povero.
“Di portoghese ricordo solo obrigado”, mentiva.
Era un bambino irrequieto, che sudava moltissimo. Mangiava le formiche e faceva la verticale rimanendo immobile sulla testa. A calcio, poi, era un disastro, correva veloce ma non sapeva trattare la palla, e anche questo ci faceva dubitare che venisse davvero dallo stesso posto di Pelé, di Romario e di Bebeto.
Una volta, dopo i primi anni che era scomparso, incontrai suo padre. Eravamo in fila dal dentista. Rovella era stato operaio alla Montedison e quando c’incontrammo era già in pensione. Aveva mani grosse come pagnotte e gli occhi chiari, acquosi. Sua moglie era una donna piccola, con i capelli corti e ramati. Sembravano vecchi, ma non lo erano.
“Ti ricordi di Rafael — mi disse lui — Credevo che sarebbe stato il bastone della mia vecchiaia, aggiunse con lo sguardo basso, e invece se n’è andato”.
Provai disgusto. Non dissi nulla e solo dopo, a casa mia, capii quanto fossi arrabbiato. Rafael doveva essere stato un bambino difficile, spericolato e dispettoso come un folletto. Una volta venne a scuola con il naso rotto e scoprimmo che Rovella lo picchiava selvaggiamente. Non ho mai capito perché avessero affidato una creatura tanto fragile, tanto complessa, a un uomo tanto semplice.
Prima di sparire così a lungo da crederlo morto, era tornato per un periodo a Recife. Al ritorno si
era fatto silenzioso e magro come se in Brasile ci avesse lasciato più di un pezzo. Disse che aveva
visto sua madre, e che non lo aveva voluto.
“Mi hanno venduto”, mi raccontò senza piangere.
Eravamo davanti a un mare sporco, dove galleggiava un pannolino. Il tramonto e la brezza fredda ci costrinsero ad allontanarci. Lui prese la moto e senza casco si allontanò.
Due mesi dopo cercò di uccidersi. Mio padre, che era il medico del paese, gli salvò la vita. Gli ricucì i polsi mentre un uomo di cento chili gli stava sul torace per tenerlo fermo. Io non ebbi il coraggio di andare a casa sua, ma qualcuno giurò che le pareti della sua stanza fossero piene di sangue. Aveva dato fuoco alla moto con una tanica di benzina. La gente del paese diceva che fosse ormai talmente pazzo che lo avrebbero ricoverato.
Arrivarono gli infermieri intorno alle sei del pomeriggio e poi di lui non rimasero che voci, che poi divennero sussurri e poi sbadigli.
Quella sera, tredici anni dopo il tentato suicidio, intorno alle dieci, bussarono alla mia porta, e quando me lo trovai davanti sentii come se mi stessero afferrando alla gola.
Era solo, lo eravamo entrambi. Aveva i denti neri e gli occhi scavati. Non portava gli occhiali e non sudava, nonostante indossasse una camicia di flanella e dei pantaloni di lana. La pelle dei mocassini si era deformata sulle punte. Aveva le mani nelle tasche quando mi salutò e io pensai che volesse uccidermi.
“Ho il tè sul fuoco balbettai”, mentre i crampi alle gambe e alle braccia sopraggiunsero così forti che dovetti sedermi. In cucina aprii la finestra e sentii l’umidità pizzicarmi la gola.
“Come stai?”, m’informai, ma Rafael non disse niente indugiando con lo sguardo sulla strada, come in allerta.
“Io, purtroppo sto poco bene”, raccontai, ma sembrò che nemmeno mi ascoltasse.
L’acqua, alle mie spalle, bolliva e per un attimo pensai al bollitore rovente come a una possibilità.
“Che fine hai fatto”, dissi poi.
“Ho imparato a suonare la chitarra”, mi raccontò mostrando i denti neri e consumati.
Portava con sé troppa miseria perché potessi sostenerne lo sguardo, una miseria che lo aveva raggiunto, ancora una volta.
Gli chiesi se era vero che lo cercavano e lui disse di sì.
“Polizia, una vetrina, puah”, allargò la bocca mimando un’esplosione con il pugno che si apriva.
Parlava male, come se troppe lingue nella sua testa lo avessero confuso e reso straniero ovunque.
Aveva le unghie mangiate fino alla pelle, arrossate e deformi.
“Hai rotto una finestra?”
“Un fornaio”, sorrise, e incrociò i polsi, sgranando gli occhi scuri e arrossati.
“Hai rotto la vetrina di una panetteria? Dove?”, cercai di capire e lui annuì. Apriva e chiudeva la bocca come una tartaruga, senza emettere suoni.
“Paris”, disse poi.
La teiera prese a fischiare, mi alzai per spegnere il fornello. Senza chiedere gliene versai una tazza. Non la zuccherai e gliela porsi.
Rafael non beveva, teneva soltanto la tazza bollente tra le mani rovinate. Ogni tanto guardava il liquido scuro, dava un colpo leggero al bordo della tazza e osservava le onde concentriche scomparire.
Mi chiedevo cosa volesse, mentre lo stomaco si contorceva. Aveva i polsini slacciati e quando vidi le cicatrici viola, appena sotto i palmi, avvicinai la tazza al viso e chiusi gli occhi. Lui era inquieto, guardava sempre fuori mentre io desideravo che se ne andasse.
“Aspetti qualcuno?”, volli sapere, fissando il calendario alle sue spalle.
“No”, disse, ma sembrava agitato e assente.
“Rafael?”, lo chiamai e gli toccai un braccio.
Lui si irrigidì.
“Carlo — disse — non Rafael”.
Quando vide che lo guardavo accigliato, prese a frugarsi nelle tasche dei pantaloni. Tirò fuori un foglio piegato su cui aveva attaccato una foto di quando era ragazzo, portava gli occhiali e i capelli erano lunghi. Non era un vero documento, non c’erano timbri, né i riferimenti di un qualche ufficio. Era solo un foglio su cui qualcuno aveva dattiloscritto un nome e dei dati.
Carlo Mansone, lessi nella mia testa. C’era poi un indirizzo di residenza e le date di rilascio e scadenza. Non capivo se fosse uno scherzo, lui non sorrideva e soltanto annuiva, guardando fuori dalla finestra. Si riprese il foglio, lo piegò con cura, si toccò il naso storto. Gli chiesi della sua famiglia, li aveva visti?
Gli occhi gli si addolcirono un poco e sembrò voler piangere. Guardò di nuovo fuori, la luna ormai alta rendeva argento la strada buia.
“La famiglia”, disse e non aggiunse altro.
Pensai alla donna alta e al bambino che dicevano avesse la faccia da vecchio.
“Adesso andare”, concluse e mi diede una pacca su una spalla.
Una settimana dopo era diventato una celebrità. Anche la donna alta e il nano. Rafael, che ormai tutti chiamavano Mansone, si era fatto una svastica in mezzo agli occhi. Era felice.
Testo Pierangelo Consoli
Illustrazioni Andrea Nugnes