1.
Era stata una cerimonia normalissima fino a quando lo sposo non aveva preso il microfono e aveva invitato tutti a sfidare il toro meccanico. Era un collega di Andrea e avevo sempre pensato che fosse gay, ma poi erano arrivati gli inviti per posta. Ora mi venivano dei dubbi per tutti quegli aperitivi a cui era andata Andrea con Tim – o Timmy, come lo chiamava lei. Non mi era mai importato granché andarci e Andrea si era mostrata stranamente comprensiva ogni volta che avevo inventato una scusa per evitarli.
Il toro era uno di quei vecchi modelli che avevano solo due velocità: on e off. L’avevano piazzato in una stanza grande quasi quanto quella della festa, vicino al guardaroba. Il vecchio che si occupava dei cappotti si era alzato e guardava gli ospiti che si sistemavano intorno al materasso. Se fosse stato ancora distratto, magari dopo sarei andato a frugare tra i portafogli e le giacche degli ospiti.
La macchina che gonfiava il materasso faceva così tanto rumore che Tim dovette quasi urlare per farsi sentire. Annunciò che sarebbe stato il primo a sfidare il toro.
“Ma attenzione – disse – questo non è solo un gioco. La prima persona che resiste più di venti secondi vincerà un premio”.
Tim estrasse una busta dalla tasca della giacca.
“Il miglior cowboy di stanotte vincerà un weekend per due a Lake Geneva, nel Wisconsin – disse e, davanti ad alcune risatine, aprì la busta – E per chi non mi crede, qui ci sono i biglietti. Li ho comprati ieri sera”.
La moglie di Tim stava annuendo. Di certo in privato gli avrebbe rinfacciato quei cinquecento dollari spesi per l’affitto del toro meccanico.
Io e Andrea ci eravamo lasciati da un mese, ma avevamo deciso lo stesso di andare insieme al matrimonio. Non ci saremmo potuti presentare con nessun altro. Io perché non avevo nemmeno provato a invitare qualcuno, e Andrea perché sapeva che non le avrei perdonato se si fosse presentata con un altro. O almeno non così presto. Non si trattava di gelosia, ma piuttosto di orgoglio.
Diversi mesi prima di lasciarci, mi ero reso conto che non volevo stare con lei. Parlavamo appena quando rientrava dal lavoro e mi trovava a guardare la TV o a giocare con la Play in salotto. Più che rapporti sessuali, i nostri sembravano visite coniugali. Il sesso era mensile, frettoloso e quasi sempre al buio, perché nessuno dei due sopportava la vista dell’altro nudo. A volte sembrava una gara a chi raggiungeva prima l’orgasmo. Se ero io, mi giravo di lato e dopo cinque minuti ero già addormentato. Se era lei, fissava il vuoto, concentrata su un punto indefinito del muro e con tutta la passione di chi aspetta l’arrivo della metropolitana.
Arrivati alla festa ci separammo subito e non si sedette nemmeno al mio tavolo. Quando Tim aveva scoperto che saremmo venuti insieme ci aveva piazzati in uno di quei tavoli con la gente di troppo, dove nessuno si conosce. Vedendo che c’era un posto libero, Larry si era seduto vicino a me. Trascorse la serata a entrare e uscire dal bagno. Quando lo beccai, mi offrì una striscia e ne accettai due. Credo avesse passato il pomeriggio a tirare.
Gli chiesi come si sentiva e mi rispose: “I feel like I could fuck a lion, man!” e uscendo sbatté contro la porta così forte da far tremare gli specchi del bagno.
Larry voleva essere il primo a salire sul toro dopo Tim, ma io mi misi in fila prima di lui. Probabilmente era convinto di poter resistere venti secondi o più, ma la cocaina non lo avrebbe reso un cowboy migliore. A me invece sì. Non ero mai stato a cavallo, ma avevo già cavalcato un toro meccanico.
L’ultima volta era stato al Pumpkinfest a DeKalb, nell’Illinois, qualche mese prima, e dopo aver passato cinque giorni a osservare dei tizi montare e cadere, ne conoscevo il ritmo e le oscillazioni, le finte e quella calma ingannevole con cui tradiva le sue vittime dopo averne guadagnato la fiducia. Se c’era qualcuno in quel posto capace di domare il toro meccanico, quello ero io.
Timmy ci spiegò che se avessimo voluto partecipare, avremmo dovuto firmare un documento che sollevava da ogni responsabilità sia lui sia la società che aveva affittato il toro, la Wild Rides, Inc. Erano due pagine a caratteri piccoli.
Firmai senza leggerle, mentre Larry decise di passare in rassegna ogni clausola. Quando qualcuno in coda gli chiese se poteva cedergli il posto, Larry disse, senza alzare lo sguardo, “Fuck off, buddy”.
Tim durò a malapena 10 secondi sul toro, ma solo perché il ragazzo che gestiva il pannello di controllo gli permise di mettersi in mostra davanti ai suoi ospiti. Il toro fece un paio di giri gentili e proprio mentre Tim stava iniziando ad annuire con la testa e ad esortare la folla con la mano libera, il primo rapido strattone lo scaraventò a terra. Dopo una brusca virata in cui rimbalzò sulla schiena del toro, cadde sul materasso sbattendo la spalla sinistra a terra. Si mise in piedi e alzò le braccia come se avesse eseguito un salto acrobatico. Il pubblico applaudì tra le risate.
Più che stringere le cosce, la chiave per cavalcare un toro meccanico è quella di tenere i polsi ben saldi. Io mi ero infortunato al polso destro anni prima, ma ero convinto che con la tecnica avrei compensato ciò che mi mancava in forza.
Quando mi chiedevano cosa mi fosse successo al polso, rispondevo che soffrivo della sindrome del tunnel carpale. La verità è che mi ero fatto male a causa di Larry.
2.
Conobbi Larry il giorno in cui mi pagò per distruggere l’auto di suo cognato.
Quando gli chiesi perché non lo facesse lui stesso, mi rispose: “Perché mi riconoscerebbe. Preferisco che lo facciano degli sconosciuti”.
Pensai di chiedergli se c’erano molte persone interessate a distruggere l’auto di suo cognato, perché mi sembrava ovvio che il principale sospettato sarebbe stato Larry. Per fortuna non lo feci. Ora che lo conosco bene, so che lui non pensa in modo logico.
Mi accompagnò uno skinhead messicano che Larry di solito chiamava per questo tipo di lavori. Aveva la pelle scura, le braccia coperte di tatuaggi con svastiche e, come me, una faccia da latino. Sulla strada verso casa del cognato mi parlò di Hitler mentre io guardavo fuori dal finestrino e contavo quante volte ne ripeteva il nome. Hitler, Hitler, Hitler.
A un semaforo rosso durato almeno cinque minuti, non ne potei più e gli feci la stessa domanda che centinaia di altre persone dovevano avergli fatto e che a quanto pare non si era mai fatto lui: “E pensi che i nazisti avrebbero accettato uno come te?”.
“La razza non è una questione così importante – mi disse – A me Hitler piace perché ha cancellato l’usura”.
“La cosa?”
“L’usura. Il prestito a interesse.”
“Beh, chiamo subito la mia banca per dire che non pagherò un dollaro in più perché Hitler ha abbassato le tasse.”
Prima che mi rispondesse, accesi la radio e alzai il volume. Mi guardava storto, ma lo ignorai. Dovevo stare attento scendendo dall’auto, perché aveva l’aspetto di chi con un pugno alla schiena ti può mettere KO.
“Sai che ore sono?”, mi chiese.
“Potrei guardare il cellulare, ma è in tasca.”
“Dobbiamo sbrigarcela in fretta, in meno di cinque minuti”, disse.
Larry lo aveva ripetuto per tutta la mattina.
Al semaforo successivo, mi misi a fissare il suo profilo aquilino. Aveva gli occhi infossati e il naso grande come quegli indios della vecchia pubblicità della colla: “La Gotita” di Poxipol. Gli indios ballavano in cerchio ripetendo: “Quello che la Gotita incolla, niente ma niente lo scolla”. In questo caso, neanche la migliore colla avrebbe aggiustato l’auto del cognato di Larry. Dopo aver staccato il paraurti anteriore con un piede di porco, salii sul tettuccio. Mentre saltavo, lo skinhead rompeva il vetro con una mazza da baseball.
Il proprietario dell’auto uscì di casa proprio mentre finivo di tagliuzzare con un coltello la tappezzeria del sedile posteriore. Era un cinquantenne tarchiato e basso che immaginavo più a suo agio in un grande magazzino piuttosto che con gente come Larry. Lo skinhead fece il gesto di colpirlo con la mazza e lui si richiuse in casa. Anche se fummo costretti a scappare prima del previsto, l’auto era ormai inutilizzabile. Ripararla sarebbe stato più costoso che acquistarne una nuova.
Sulla strada verso l’appartamento di Larry, mi accorsi che avevo il braccio destro coperto di sangue e un taglio che andava dalla nocca centrale fino a qualche centimetro sotto il polso. Quella notte dormii con la mano avvolta in un asciugamano e più tardi mi dimenticai del dolore. Mesi dopo andai in palestra e sollevando un peso mi resi conto che la mano tremava. Forse mi ero reciso un tendine, fatto sta che da allora sentii il polso più debole.
3.
Salii sul toro con un salto. Se non fossi stato così fatto, non credo ci sarei riuscito con tale grazia. Afferrai la maniglia con la mano sinistra e strinsi le ginocchia contro il supporto. Mi guardai intorno finché i miei occhi non si fermarono sul ragazzo al pannello di controllo. Con la mano libera schiaffeggiai le natiche del toro e gridai: “Come on! Let’s do this shit!”.
Non dovevo essere piaciuto molto al ragazzo perché il toro iniziò a muoversi con spasmi violenti. Non si stava neanche girando, si muoveva solo avanti e indietro. Secondo i miei calcoli, erano passati dieci secondi quando iniziai a sentire le gambe scivolare lungo la schiena del toro, nonostante stringessi con forza le ginocchia. In sottofondo suonava Cotton Eye Joe. Ora ogni volta che sento quella canzone ricordo come volai in avanti e caddi a faccia in giù sul materasso senza allungare le braccia per proteggermi il viso.
Quando mi alzai, mi guardai intorno. Volevo assicurarmi che nessuno stesse ridendo, ma per lo più sembravano preoccupati. Mi sanguinava il naso. Andando in bagno, qualcuno mi chiese se stavo bene e lo spinsi da parte.
Mi sciacquai la faccia e mi infilai della carta igienica nelle due narici. Per fortuna non mi ero macchiato la camicia. Volevo andare via, ma mi chiusi in un cubicolo per rilassarmi e aspettare che la gara del toro finisse.
4.
Gli invitati ballavano e io rimasi da solo a tavola. La cocaina faceva ancora effetto e avevo voglia di correre per la sala. Cercai Andrea finché non la trovai al bancone. Le stavano preparando un Captain Morgan con Coca Cola. Probabilmente non era il primo, perché sembrava un po’ nauseata. Quando beveva, le si rimpicciolivano gli occhi e diventava rossa. Vedendomi, si girò dall’altra parte. Le toccai la spalla, ma prima che potesse rispondermi una collega la prese per un braccio e la trascinò in mezzo a un gruppo di donne che ballava la Macarena. Il barman poggiò il cocktail di Andrea sul bancone e gli dissi: “È andata a ballare. Non preoccuparti, lo prendo io”. Non so se si aspettasse una mancia, ma non gliela diedi.
Larry chiacchierava con una giovane coppia a un tavolo accanto al buffet dei dolci. Teneva appoggiate le mani sudate sulla tovaglia bianca e si avvicinava sempre di più alla ragazza che sorrideva e annuiva nonostante sembrasse a disagio. Il suo ragazzo la stringeva con il braccio destro come se Larry fosse una calamita in grado di trascinarla via.
Larry aveva iniziato a vendere cocaina dopo essere stato cacciato dalla Guardia Costiera per aver pisciato sporco. Non era mai riuscito a reintegrarsi nella vita civile e, come me, l’idea di lavorare dal lunedì al venerdì gli faceva venire ancora più voglia di farsi di coca. A volte rispondeva al cellulare e riceveva chiamate di oltre cinque minuti in cui ascoltava e basta. Poi scompariva e non si faceva vedere per settimane.
Mi sedetti accanto al ragazzo. Cercava da qualche minuto di intervenire, ma Larry non lo ascoltava. Vedendomi, si raddrizzò e mi salutò. Non avevo voglia di parlare, ma risposi comunque a tutte le sue domande: come conoscevo gli sposi, con chi ero e da che paese venivo, perché ovviamente né il mio aspetto né il mio accento gli erano familiari. Lui si chiamava Daniel ed era una di quelle persone che hanno bisogno di sapere che lavoro fai per decidere quanto rispettarti. Gli dissi che lavoravo in un centro di distribuzione Amazon vicino a Chicago. Era l’ultimo lavoro che avevo fatto, tre anni prima. Daniel studiava Economia all’università e aveva voglia di parlare di sé.
“Dopo la laurea, mi dedicherò un paio d’anni al trading – mi disse – Pare che paghi molto meglio che fare l’analista e, per giunta, non ti incasella in un solo ruolo. Se in questo ambiente prendi una decisione sbagliata all’inizio, sei segnato per sempre. Ti trattano anche in modo diverso. Poi, voglio entrare nella scuola di Legge di qualche università della costa orientale. Il mio sogno è vivere vicino a New York. Sto anche investendo in titoli municipali. Se inizi alla mia età, a cinquant’anni è come aver vinto alla lotteria. E tu, cos’hai intenzione di fare? Hai progetti?”
“No.”
Uscii a fumare e Larry mi seguì.
“Dov’è Sandra?”, gli chiesi.
Sandra era un’altra collega di Andrea. L’avevo presentata a Larry perché avesse qualcuno con cui venire al matrimonio.
“Non so. Credo sia andata a ballare la Macarena.”
C’erano un centinaio di invitati al matrimonio, ma il parcheggio sembrava vuoto. Le ombre delle nuvole sui tettucci delle auto erano come razze che scivolavano nell’oceano.
“Tutto bene con Andrea?”, chiese Larry.
“Ho cercato di baciarla in macchina e mi ha spinto via. Non ci siamo più parlati per tutta la sera.”
“Sei ancora innamorato…”
“No. Volevo solo darle un bacio.”
La festa era in una sede della Legione americana. Il padre di Andrea giocava a bingo con gli amici della parrocchia in una delle loro sale, quindi ci aveva dato lui indicazioni precise per arrivarci. Non gli ero mai piaciuto. A giudicare dalla faccia sorpresa che fece quando andai a prendere sua figlia, Andrea non gli aveva detto che sarebbe venuta con me. La famiglia di Andrea viveva nell’Illinois da decenni e probabilmente sognava che lei sposasse qualcuno della loro chiesa. La madre cercava sempre di parlarmi in spagnolo.
“Io e Andrea non abbiamo mai scopato bene”, dissi a Larry e me ne pentii.
“No? E come avete fatto a durare così tanto?”
“Siamo stati insieme solo cinque mesi. Non eravamo mai sincronizzati. O era lei a essere eccitata, o ero io ad averne voglia. A volte mi sembrava di masturbarmi sopra di lei.”
“Non usi il Viagra?
“A volte, ma quello masticabile. Così pensava che masticassi una gomma e non dovevo prendere nessuna pastiglia davanti a lei.”
“Voi due non eravate compatibili.”
“Sono d’accordo.”
“Io non ho di questi problemi.”
“E se li avessi, non lo ammetteresti.”
“No, davvero, non ne ho. Sono troppo giovane per preoccuparmene. E anche tu.
“Ma non mi preoccupo affatto. Mi preoccupa di più morire e aver sprecato il mio tempo in tutti questi anni.”
“La morte non è altro che il suono dei tuoi atomi che si disperdono.”
Lo fissai per capire se rideva o se avrebbe aggiunto qualcosa.
“Perché non ce ne andiamo?”, gli dissi.
Quella notte c’era l’incontro di pugilato tra Canelo Álvarez e Floyd Mayweather e, se fossimo andati al bar in quel momento, avremmo potuto vedere un preliminare.
Andrea ballava con qualcuno e quando le dissi che me ne andavo mi rispose: “Fai quello che vuoi” senza nemmeno guardarmi. Larry mi disse di lasciare la mia macchina lì e di prendere la sua.
“E Sandra?”, chiesi.
“Siamo venuti con due macchine.”
5.
Prima di andare al bar, ci fermammo a casa di Larry. Qualche anno fa abitavo nello stesso edificio, ma mi ero trasferito non appena trovato lavoro. Un vecchio dormiva sui gradini di cemento all’ingresso. Guardandolo da vicino, lo riconobbi. Quando vivevo lì, il tizio passava le giornate a girare intorno all’isolato con un foglio plastificato attaccato al collo. Era una specie di cartella clinica scritta a macchina che non ti permetteva mai di leggere. Se ti avvicinavi per parlargli, ti gridava: “Non chiedo soldi e non ho bisogno del tuo aiuto!”.
Nel bagno di Larry c’era una bottiglia di Pepto-Bismol. Lo sciroppo era secco e appiccicato sul fondo. Ci versai dell’acqua per diluirlo e lo buttai giù. Sul tavolo della sala da pranzo c’era un barattolo di maionese pieno di vermi. Quella mattina Larry mi aveva invitato a pesca per l’indomani. Siccome pensavo che avrei potuto passare la notte con Andrea, gli avevo detto di no.
Larry incontrò alcuni amici nel parcheggio del bar. Bevevano una bottiglia di vodka appoggiati alla macchina. Non avevo voglia di parlare e andai verso l’ingresso. Un buttafuori che non avevo mai visto era in piedi vicino alla porta. Quando provai a entrare, mi mise una mano sul petto e disse: “L’entrata viene dieci dollari”.
“Fanno pagare l’ingresso?”
“Sì, dieci dollari.”
“C’è Jorge?”
“No”, rispose e si mise a guardare il telefono.
Jorge lavorava nel bar e anche se non era il proprietario, tutti lo trattavano come se lo fosse. Jorge era stato nella Guardia Costiera con Larry.
“Non hanno mai fatto pagare l’ingresso. Vado a parlare con Jorge”, gli dissi aprendo la porta.
Il buttafuori mi afferrò per il braccio e mi impedì di passare.
“Voglio solo vedere l’incontro. Sono venuto con degli amici”, gli dissi.
“Interessante. Sono dieci dollari a persona.”
Scossi il braccio perché mi lasciasse andare. Mentre mi allontanavo, mi diede una spinta. Prima che gli saltassi addosso, arrivarono Larry e i suoi due amici. Larry mi abbracciò e mi disse di calmarmi. I suoi amici entrarono a cercare Jorge.
Il buttafuori mi guardava e sorrideva. Gli dissi che se mi avesse toccato di nuovo lo avrei ammazzato e lui si mise a ridere.
“Non pago per entrare in questa merda”, dissi a Larry.”
“Non preoccuparti. Ti pago io l’ingresso. Non ascoltare quel coglione. Parlerò io con Jorge.”
“Che cazzo ha da ridere?”, dissi indicando il buttafuori.
Jorge uscì dal bar con gli amici di Larry.
“Che sta succedendo qui, ragazzi?”, ci chiese.
Sembrava che gli avessero già raccontato la storia del buttafuori perché subito dopo mi abbracciò.
“Come stai? Come sta la tua ragazza?”
Larry gli disse che il buttafuori mi aveva spintonato senza motivo. Jorge ci spiegò che aveva ricevuto istruzioni di far pagare l’ingresso per assistere all’incontro, ma una volta dentro poteva offrici del whisky. Il buttafuori continuava a guardarmi e a sorridere così gli andai sotto. Larry e uno dei suoi amici mi presero ciascuno per un braccio e mi trattennero. Jorge disse che non potevano lasciarmi entrare in quelle condizioni e di aspettare nel parcheggio finché non mi fossi calmato. Non avevo intenzione di calmarmi. Fossimo rimasti dentro o fossimo entrati, a un certo punto della serata mi sarei defilato e avrei rotto un bicchiere in faccia a quel figlio di puttana.
“Non vale la pena di incazzarsi per entrare in questa merda. Chiameranno la polizia se rimaniamo qui – disse Larry. – Perché non andiamo da High Heels? Anche lì possiamo vedere l’incontro”.
High Heels era uno strip club a mezz’ora dal bar. Agli amici di Larry piacque l’idea e andarono a salutare Jorge. Larry mi portò alla sua macchina e si assicurò che salissi e mi allacciassi la cintura prima di mettersi al volante. Mentre lasciavamo il parcheggio, vidi gli amici di Jorge e Larry chiacchierare con il buttafuori. Era più alto degli altri almeno di una spanna e sicuro mi avrebbe fatto il culo.
Quando mi succedono cose come queste, mi chiedo che cazzo ci faccio qui. Nel mio Paese ho trascorso vite durate mesi finché non mi sono annoiato e sono venuto negli Stati Uniti. Alcuni vengono negli Stati Uniti per lavorare. Altri per essere lasciati in pace.
6.
Da High Heels l’ingresso costava solo tre dollari. Fummo accolti nel locale da una rossa con gli occhiali e un vestito trasparente sopra la biancheria nera. Ci chiese da dove venissimo e per fortuna gli altri risposero. Io volevo solo vedere Canelo battere Mayweather.
La rossa mi portò una birra da dieci dollari e le lasciai una mancia da due. In sottofondo, l’argentino Matthysse stava perdendo contro Danny García. Era uno di quegli incontri in cui i due pugili si fermano uno di fronte all’altro e si prendono a pugni. Erano pari finché lo zigomo destro di Matthysse iniziò a gonfiarsi. Ogni volta che un round finiva e si riparava nel suo angolo, l’infiammazione era più grande. Sembrava che i suoi allenatori non conoscessero il ghiaccio.
Una ragazza con una parrucca corta e bionda e una minigonna argentata si sedette accanto a me. Mi sporsi in avanti per vedere meglio la tv appesa al soffitto e le diedi le spalle. Guardai di nuovo la minigonna argentata e la ragazza se ne accorse. Mi disse qualcosa che non potevo sentire con quel rumore.
Iniziammo a parlare ad alta voce finché non mi mise la mano sulla gamba e mi invitò in una delle stanze dietro le tende vicino al palco. Un tizio mi chiese la carta di credito prima di entrare e mi fece firmare una ricevuta. La ragazza si sedette sulle mie gambe. Aggrappata al mio collo, mi fissò e strofinò il suo corpo contro il mio al ritmo della canzone Don’t Stop Believing dei Journey. Sorrisi e la ragazza mi tirò i capelli con una mano e mi inclinò indietro la testa. Con l’altra mi strinse le guance come fossi un bambino da sfamare.
“Non ridere, non è carino”, mi disse.
Era così vicina che potevo vederle i peletti biondi e sudati sul labbro. Con una mano mi grattava la schiena e con l’altra mi pizzicava il capezzolo. La presi in braccio e avvolse le sue gambe intorno alla mia schiena. La feci sedere e mi misi in ginocchio. Non aveva le mutandine. Le leccai i peli e feci dei piccoli cerchi con la lingua intorno alla sua vagina. Gliela allargai con le dita fino a poter toccare il suo clitoride con le labbra e succhiarlo.
“Questo ti costerà di più”, disse.
Le infilai un dito nel culo mentre l’altra mano saliva verso le sue tette fino ad arrivare alla bocca. Volevo che mi leccasse le dita.
7.
Mi svegliai con una ballata dei Motley Crue. La ragazza se n’era andata. Scostai la tenda e andai a cercare gli altri. Larry stava ballando stretto a qualcuno e i suoi amici stavano uscendo dal bagno.
“My man!”, mi disse uno di loro ridendo e dandomi una pacca sulla spalla.
“Chi ha vinto?”, chiesi.
“Mayweather. Chi altro!”
Quando tornammo al bar erano le due del mattino. Non appena vidi uscire il buttafuori, scesi dall’auto.
“Hey, motherfucker,” gli urlai.
Mi vide arrivare, ma di sicuro pensava che volessi solo spintonarlo e non alzò le mani. Gli diedi un pugno sul naso. Il setto risuonò contro la mia nocca.
Il buttafuori mi restituì il colpo in un occhio. Un amico di Larry gli diede un calcio alla schiena e cadde a terra. Prima che riuscisse ad alzarsi, lo calpestammo tutti e quattro. Sdraiato sul marciapiede, gli fui addosso e lo picchiai finché il polso non iniziò a farmi male. Gli stavo frugando nelle tasche quando Larry gli sferrò un calcio in testa che per poco non mi colpì.
“Stai attento”, gli dissi, e Larry appoggiò le mani sulle gambe. Ansimava e gocce di sudore cadevano dalla fronte sull’asfalto.
Il buttafuori non aveva soldi né documenti d’identità. Solo una scheda telefonica per chiamare in Centro America.
Guardai il mio riflesso nello specchietto retrovisore dell’auto di Larry. Il mio occhio era nero e viola e il livido si stava espandendo fino a diventare giallo. In due settimane sarebbe scomparso. Le luci del bar erano ancora accese, ma non c’era più musica. Solo il suono degli atomi che si disperdono.
Testo Gonzalo Baeza
Illustrazioni Cristobal Severin Garces
Traduzione Giovanna Maria Bianco (revisione di Linda Farata)