Ore 15.34
Il treno parte con pochi minuti di ritardo, non c’è molta gente. Tutti e quattro i posti sono liberi, io mi metto nel sedile vicino al finestrino, un po’ guardo fuori e un po’ sfoglio il libro che ho tra le mani. Nessuna delle due cose si rivela molto avvincente. Chiudo gli occhi e mi faccio cullare dal suono della velocità, penso a come andrà a casa stavolta, se sarà un Natale normale o succederà qualcosa anche quest’anno. L’anno scorso mia nonna non aveva fatto in tempo ad arrivare che mio padre già stava urlando. Poi era uscito sbattendo la porta. Mia madre stava ancora finendo di cucinare, era venuta in salotto per capire cos’era successo, mia nonna le aveva risposto male, così io mi ero arrabbiata e avevo sbattuto fuori di casa la nonnina. Ripenso a come urlava e faceva finta di sentirsi male, ripenso anche al pranzo poi, tutti in silenzio come se una bomba potesse esplodere da un momento all’altro. Un Natale normale, forse nessuna famiglia ne ha uno.

Ore 16.52
Mi devo essere addormentata, riapro gli occhi e vedo che si è messo qualcuno di fronte a me, una donna di mezza età, con i pantaloni di pelle aderenti, una camicetta scollata, le unghie laccate e i capelli finto biondo. Spero con tutta me stessa che non decida di parlarmi, mi sistemo meglio nel sedile e fingo di tornare a leggere il mio libro.
“Scusi – ecco è finita, penso – ha sentito che c’è un ritardo di venti minuti? Speriamo di recuperarlo, sa, ho il cambio con la coincidenza, non vorrei mai perderlo che è l’ultimo. Ho una cena di Natale con i miei vecchi compagni di scuola, non ci vediamo da vent’anni. Lei quanti anni ha?”
Guardo distratta il paesaggio sempre più nitido, il treno sta rallentando.
“Ventisei”, sguardo basso, tutti sanno che significa chiusura, ossia non ho voglia di parlare con te.
“Oh che bella età, io sono quasi arrivata ai quaranta, corre il tempo, corre – chissà quali altre emozionanti rivelazioni ha in serbo – sa che le dico, se li goda”.
Oh ecco, ora mi sento soddisfatta, il giro di luoghi comuni sull’età si è concluso.

Ore 17. 02
Un signore di circa sessant’anni con dei teneri baffi grigiastri si ferma, guarda il suo biglietto, poi l’etichetta con i numeri, quindi torna a guardare il biglietto.
“Mi scusi – si rivolge alla pantera quarantenne – quello è il mio posto.”
Lei lo guarda tra il sorpreso e l’indignato.
“Ne è sicuro?”
“Sicuro, ho appena controllato 16A.”
Lei si da una breve occhiata nel vetro del finestrino: “Le dispiacerebbe mettersi al mio posto? Io adddoro i posti vicino al finestrino”.
“Bellezza se vuole ce n’è uno qui, ma quello dov’è seduta lei è il mio posto e non posso cederglielo. L’ho scelto apposta vicino al finestrino, guardare fuori mi aiuta a pensare e …”
Guardo il volto di lei farsi teso e rossastro, piace anche a me guardare fuori ma non ho voglia di sentirli discutere: “Può mettersi qui”, dico.
“Nono – strilla lei – non voglio avere di fronte un maleducato del genere”, si alza, prende la sua borsetta e si sposta a piccoli passi nervosi nel posto da lui indicato.
Il signore baffuto mi guarda in cerca di conforto, io mi sforzo di mantenere il volto impassibile, non voglio dargli alcuna soddisfazione.

Ore  17. 36
“Il treno viaggia con 50 minuti di ritardo, ci scusiamo per il disagio.”
La frustrata quarantenne ha trovato delle alleate, da quando si è spostata ha coinvolto due signore in discorsi femministi e distruggi-uomini. Il signore si agita sul sedile e scommetto che prova sincero pentimento per non averle lasciato il posto vicino al finestrino. Nell’aria si sente tensione per il ritardo che continua ad aumentare inesorabile. Io guardo fuori e penso di scendere alla fermata successiva perché l’atmosfera si sta facendo insopportabile. Ho bisogno di fumare una sigaretta e mangiare qualcosa di dolce. Penso che non ho voglia di tornare a casa, che il Natale quel treno e tutto quanto è un’immensa e stupida ipocrisia.

Ore 18.43
Il treno è fermo da un’ora, ormai regna l’anarchia. La gente si alza, passeggia, apre le valigie, urla. Un gruppo di temerari si è unito alla ricerca del capotreno.
Io rollo una sigaretta e corro al bagno a fare due tiri. Quando esco e sto per tornare al mio posto vedo il capotreno circondato da gente di ogni tipo che parla animatamente e muove le braccia. Mi avvicino per sentire meglio. Lui si volta, mi guarda minaccioso e mi punta un dito contro: “Lei ha fumato!”, sentenzia. Io lo guardo sbalordita, non so se iniziare a giustificarmi o vuotare il sacco. È a quel punto che sento qualcosa salirmi da dentro, farsi pensiero e poi parola e uscire come un fiume in piena.
“Si, ho fumato nel bagno ed è stato bello. Ho fumato perché ne avevo voglia, perché siamo fermi in mezzo al nulla, perché ho ascoltato quella biondona senza cervello vomitare tutte le sue inutili frustrazioni  per un’ora, perché il vecchio baffuto non le ha ceduto il posto vicino al finestrino che lei adddora tanto, perché ho sentito lamenti di ogni genere e io odio la gente, odio la gente nei treni, odio lei, odio i vostri maledetti treni e odio questo paese di merda dove non funziona niente e uno per tornare a casa per le feste deve andare in esaurimento nervoso, spendere soldi in psicologo per tutto il resto dell’anno, e odio gli psicologi e odio il Natale.”

 

Intorno s’è fatto il silenzio.
Il treno, lentamente, ricomincia a muoversi.

Testo: Julie Messina
Immagini: Giulia Baratella
 

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