Claudia se n’era andata. Mi aveva lasciato solo, in una grande casa di campagna che avevamo comprato per l’estate. Per mesi, finito il lavoro mi ci barricavo. Avevo montato in corridoio una sbarra e mi allenavo con quella e coi manubri in cantina. Una domenica, il primo anniversario della sua partenza, avevo preso il furgone ed ero andato a Viterbo. Avevo pranzato al ristorante di un amico, vicino al teatro. L’amico, era una bella giornata, mi aveva sistemato all’esterno, mi aveva chiesto se dopo Claudia avessi avuto altre relazioni. Gli avevo risposto di no, che ero solo, però mi allenavo con regolarità. Poi erano arrivati altri clienti e il mio amico era dovuto tornare dentro.
“Ti lascio – aveva detto, col cellulare in mano – il numero di una ragazza che sta a San Pellegrino”.

Gli incontri non erano mai durati più di mezz’ora. Dopo, la ragazza si rivestiva, mi faceva intendere che dovevo andare. Certe volte (era estate) telefonavo all’amico e pranzavamo insieme, parlavamo e, se lo aveva, mi lasciava un numero nuovo. Un giorno, il ristorante era semivuoto, avevo finito per raccontargli della noia che provavo in campagna. Non ti bastano, aveva detto, mettendo in bilico sul posacenere un mezzo toscano, non ti bastano quelle? Allora (ero un po’ in imbarazzo) gli avevo spiegato che una delle cose peggiori, quando ti separi, è ritrovarti ogni sera da solo – col televisore acceso. L’amico (aveva un figlio, che non vedeva, a Castiglione del Lago) aveva risposto che capiva e per un po’, finché il toscano aveva retto, avevamo parlato. Su internet, mi aveva informato, trovi moltissime cose da fare. Poi era arrivata una coppia, l’amico aveva spento il mozzicone ed era tornato a lavoro.

La grafica era accattivante e ricordava certi videogiochi di quand’ero ragazzo. Ti registravi, diventavi un omino e potevi arredarti una stanza. Gli omini e le donnine dimostravano tutti la stessa età. Cioè trent’anni meno di quelli che avevo. Avevo provato a registrarmi col nome Dean (James Dean era l’attore preferito di Claudia: coi genitori, a Caprarola, aveva il suo poster in camera), ma il server mi aveva risposto: non disponibile. Dean46 era stato il ripiego. Poi avevo cercato di riprodurre una miniatura della casa in campagna, fatto sdraiare il mio avatar su un letto, davanti a un televisore verdognolo acquistato coi crediti di benvenuto. Verso le tre (quando accedevo, la schermata mostrava l’ingresso di un albergo lussuoso, e un usciere di pixel che sorrideva in livrea) avevo ricevuto un messaggio dallo staff:

Ciao Dean46!, ti ricordiamo che fra pochi minuti l’hotel chiuderà. Siamo aperti tutti i giorni, dalle 6:30 alle 3:00. Buonanotte, speriamo di rivederti!

Buongiorno.

Ero entrato nella sala principale dell’albergo. Attorno ai tavoli, qualcuno beveva, qualcun altro ballava, molti discorrevano e nessuno aveva risposto. Dalla finestra s’intravvedevano grattacieli e, lungo la strada, una bambina immobile con dei palloncini. Mi ero fermato davanti a una biondina pettinata alla Marilyn, assente come Marilyn. Avevo provato a salutarla e lei non aveva risposto.
Stronza, avevo digitato, e sulla schermata era apparso un ammonimento. Allora mi ero scusato e seduto accanto alla biondina. Poi ero rimasto diversi minuti imbambolato, leggendo i discorsi degli altri e ogni tanto sollecitavo Marilyn, spostavo il cursore su di lei e le sussurravo che mi sarebbe piaciuto mostrarle la camera. Dopo un po’ si era animata. Mi aveva detto: Non rompere, e si era smaterializzata. Allora ero tornato alla schermata, avevo cercato fra le camere dedicate agli incontri, cliccato l’indirizzo di un party. La camera, arredata come un ranch, ospitava una mezza dozzina fra cowboy e cowgirl.

Ciao Dean. Oilà, Dean. Benvenuto, cowboy.

Avevo domandato chi fosse il proprietario e una ragazza (berretto fucsia) mi si era parata davanti. Ballando, senza fermarsi un momento la ragazza mi aveva chiesto Chi sei? – e io (volevo sembrare simpatico) avevo risposto James Dean. Siccome non rispondeva, e sembrava non avere idea di chi fosse James Dean, avevo pensato che Dolly2002 doveva tenere un poster diverso nella sua stanza.
È una festa, mi aveva spiegato. Qui si balla.
Allora mi ero messo a ballare con lei.

Quando la sera mi collegavo, quando i pixel si accorpavano, osservavo la pettinatura di Dean e indossavo un cappello, un cinturone e trascinavo il cursore sui nomi delle camere di Dolly. Mi smaterializzavo e dopo il buffering riapparivo in una specie di nursery, o in una birreria, con le pareti tappezzate di poster di band inventate. Gatti, cani e orsetti si spostavano, attraverso le cabine del teletrasporto, dall’una all’altra camera. Il padre, la madre di Dolly non le permettevano di connettersi prima di una cert’ora; le imponevano cene lentissime anche se non aveva fame – anche se cercava di mangiare il minimo per curarsi la linea. Se si fosse alzata da tavola le avrebbero piantato un casino.
Io aspettavo, su una poltroncina rossa simile a quelle dei cinema. Ogni tanto mi alzavo, prendevo una bibita, entravo in uno dei teletrasporti e controllavo in quale stanza Dolly avesse sistemato il suo doppione. Se riapparivo in una camera estranea, cercavo nei post-it messaggi amorosi.

Certe volte, Dolly non si connetteva e quando ci ritrovavamo, il giorno dopo o la notte stessa, prima della chiusura, quando le stanze erano desolate come in un qualunque altro albergo del mondo, la spingevo a raccontarmi dove fosse stata, e con chi. E quando scoprivo che era uscita, che si era incontrata col gruppo, m’intristivo, diventavo laconico. Allora cercavo di fare in modo che se ne rendesse conto, e quando cominciava a ballare la ignoravo, mi fingevo assente. Dolly mi salutava, mi baciava, mi inviava cuori. Ma come vedeva che non le rispondevo mi sedeva accanto e si assentava anche lei.

 

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Da quando Claudia se n’è andata (fanno due anni a settembre) è come se tutto quello che ha fatto parte del nostro matrimonio, l’affetto che in almeno un momento sono sicuro di avere provato per lei, e l’abitudine che poi, per moltissimi anni, per buona parte della nostra vita in comune, è stata l’unica ragione per cui ci ostinavamo, assieme alla paura che avevamo entrambi (Claudia mi illudevo di più) di rimanere soli, da quando Claudia ha deciso di andarsene è come se di queste cose non restasse più niente. Una sera, mentre disponevo la statuina che avevo appena comprato le avevo chiarito una volta per tutte cosa provavo.
Se vuoi bene a un altro, avevo concluso, dimmelo e non sentiamoci più.
Poi avevo aspettato.
Eccomi, aveva risposto Dolly diversi minuti più tardi, stavo fuori col cane. Le avevo lasciato il tempo di rileggersi la cronologia. Dolly adesso nicchiava – aveva ripreso a fare la spola fra le poltrone e la macchina del gelato.
Ti amo, avevo insistito.
Qualche volta, aveva risposto Dolly, parli serio come un adulto.

Ho scoperto che Dolly (dovrò abituarmi a chiamarla Martina) vive a Ceprano. Abbiamo stabilito d’incontrarci sabato (i genitori vanno a Roma a trovare la nonna), all’uscita di scuola. Durante la settimana sono passato a Soriano e ho stampato la foto che mi aveva inviato. Dolly è la ragazza al centro (alta, pressappoco come Claudia, forse un po’ meno spigolosa).
Venerdì notte non ho dormito. Sono rimasto ad allenarmi fin quasi all’alba, ho cercato nell’armadio vestiti che mi facessero somigliare al mio personaggio; mi sono pettinato in modo che non si capisse dov’ero stempiato. Prima di partire, mi sono confrontato con la fotografia. Il figlio del mio amico somiglia al padre, che vede poco e detesta. Poi mi sono sentito meschino, ho pensato di mandare a monte e a quello che Claudia, se mi avesse visto, (i Levi’s, una camicia attillata) avrebbe potuto pensare di me. Ho smesso di pensare a mia moglie all’altezza delle prime indicazioni – in paese ho parcheggiato il furgone e raggiunto l’istituto a piedi. Ho aspettato dirimpetto la scuola. Mentre le classi uscivano, e cominciavo a confrontare le facce, mi sono chiesto come Dolly avrebbe reagito. Ho osservato le ragazze allontanarsi a grappoli verso la piazza. Martina si è messa a scandagliare lo zaino contro il cofano di un’utilitaria, ha estratto un berretto fucsia e lo ha provato per alcuni istanti riflessa nel finestrino. Mentre si avvicinava ho pensato che a venirmi incontro fosse, da vent’anni, sempre la stessa ragazza; e che anch’io, nonostante mi sia imbolsito, nonostante i Levi’s mi vadano stretti, sia ancora lo stesso che ero prima di conoscere Claudia.
Eravamo gli unici nello spiazzo. E quando Dolly, impaurita, ha cominciato a guardarmi, mi sono allontanato – ho chiamato il mio amico, gli ho chiesto se avesse un tavolo e l’ho raggiunto per pranzo.

 

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Testo Francesco Mila
Illustrazioni Francesca Colombara

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