Era una bella nottata d’estate sulla spiaggia, e col Sovranista Maksimov si restò volentieri a bere fino a tardi.
“Alba, bella che non sei altro! Allora, quanti migranti hai preso in casa, quest’estate?”, rise Maksimov.
Adorava provocare noialtri progressisti. Lo faceva, va detto, con gli occhi adorabili da cui stillava la vivace intelligenza dei bambini, e con il sarcasmo caldo di certe voci romagnole baritonali.
Maksimov era il classico qualunquista all’amatriciana, ma gli piaceva dire che si ispirava al vecchio nobile populismo russo: all’intelligencija partecipata e interclassista dei raznocincy, al patrimonio spirituale delle obscina, le comunità rurali, al socialismo utopistico dei circoli rivoluzionari di Isutin e Chudjakov.
Non sapevamo quale processo lo avesse portato ad amare della Russia solo l’attuale Zar Vladimir; o a fare di “Libero”, “La Verità” e di alcuni siti sgrammaticati le sue uniche fonti di informazione. Si chiamava Marinozzi, ma per noi era Maksimov, e gli volevamo bene.
Alba, con Maksimov, era rilassata. Lo lasciava fare. Lo affrontava con un po’ di condiscendenza.
Si poteva essere amici di un sovranista come Maksimov solo a questa età, passati i trenta, quando può bastare star bene insieme a tavola per cancellare indignazioni anche profonde verso teorie e frasi raccapriccianti.
“Ecco la vostra unica ideologia – rispose Alba a Maksimov – consiste nel suggerire agli altri: Non vedete che in fondo siete delle merde, proprio come noi? E forse non vi rendete neanche conto di ammettere implicitamente di essere delle merde. Vi basta che lo siano anche gli altri”.
“Ce ne rendiamo conto eccome: è che siamo meno ipocriti di voi”, rispose Maksimov brindando.
“Meglio che vada a prendere un altro mojito per tutti – disse Alba alzandosi – Questo è l’ultimo, però. Vi state trasformando in scimmie cappuccine”.
Mi dette un bacio e s’incamminò verso il chiringuito.
Io e Maksimov ci grattammo la sommità del cranio fingendo di essere delle scimmie e di esserci offesi.
Affrontammo argomenti a caso superandoli velocemente:
– Il triste declino di Lula in Brasile (Disse Maksimov: “Hai visto? La sinistra solidarista non solo ha fallito in tutto il mondo: era pure corrotta!”)
– I soldi spesi dai contribuenti per vedere Alitalia continuare ad affondare come un macigno scagliato in acqua (“se questo non è un piano della Francia per scipparci la compagnia di bandiera…”)
– Il Cesena quando giocava Dario Hubner (“Il Bisonte amava la grappa secca”)
– Il suo lavoro di responsabile commerciale delle bilance di precisione che andava bene, si, anche se i calabresi a capo dell’azienda pretendevano, pretendevano tanto, pretendevano sempre di più (“Per carità, ho la mia autonomia, ma una volta che entri in affari con loro…”)
Poi tornò Alba con i tre mojito. Guardavo il mare e non mi accorsi di niente finché non mi passò il bicchiere e la sentii tremare. Maksimov taceva. Mi voltai e Alba era bianca in viso. Dietro di lei avanzavano tre uomini in camicia bianca e orologi dorati. Si fermarono a pochi metri da noi.
Maksimov saltò in piedi come se avesse visto un cobra acciambellato sotto la sdraio. Andò verso i tre montando un’aria da anfitrione. Il più grosso dei tre si fece avanti sorridendo. Era un pelato con gli occhi chiari e la faccia scottata.
“Ma come, quella è amica tua? Marinozzi! Conosci una fregna del genere e non la porti dagli amici?”
Maksimov allargò le braccia come un direttore d’orchestra che ordina un pianissimo.
“Ha un culo che sfida le leggi della fisica. A questi livelli, neanche le negre.”
Maksimov provò a scortarli più lontano.
Posai lo sguardo sulle piccole piramidi irregolari di sabbia scura.
Alba lasciò cadere il mojito.
“Quelle che hanno il culo così sono pure le più porche. C’è pure una ricerca americana…”
Maksimov guardò altrove, arreso. Allargò le braccia e propose un bel giro di bevute. Forse a Cervia non saremmo tornati più. Demmo loro le spalle e fissammo lo sguardo sul mare, come se un colpo secco di risacca potesse far tornare tutto a venti minuti prima. Quando ce ne andammo, rabbrividendo in silenzio, i tre erano ancora sulla veranda del chiringuito che ci guardavano.
Oggi torno a Ravenna. Passo per quella che era la nostra via preferita: un percorso di circa quattro ore al quale i sani di mente preferirebbero in eterno l’autostrada.
Parto con un caffè a Fiesole, allungando di molto il percorso già dai primi tre chilometri.
Arrivo alla Querciola, dove si può mangiare la migliore fiorentina nell’arco di almeno due chilometri.
Attraverso Polcanto, dove c’è un giardino pieno di animali finti, in particolare cicogne e falchetti. Alla radio Battiato dice “più diventa tutto inutile e più credi che sia vero, e il giorno della fine non ti servirà l’inglese”.
A Scarperia c’è gente che ha l’apparato uditivo devastato per aver partecipato anche solo una volta alla notte che precede il motomondiale, la notte in cui decine di migliaia di persone urlano ‘Al Mugello non si dorme’ (una profezia che si autoavvera: è sufficiente, al Mugello o altrove, fare moltissimo rumore per circa 20 ore, e dormire diventerà quantomeno complicato) e girano in estasi intorno al circuito, in estasi per via di motoseghe accese, tosaerba al massimo dei giri e motori a sei cilindri portati alla fusione. Alla radio Nino Frassica dice “Ho conosciuto un cacciatore di squali, un mangiatore di spade, un cacciatore di spade e un mangiatore di squali”.
A Coniale tocco l’acqua verde del torrente, ancora troppo fredda, ma faccio lo stesso un bagno velocissimo seguito da un’emicrania lancinante e un impercettibile arresto cardiaco. Su Radio 3 mi sembra per lo meno buffo che alle 17 in punto prenda la parola Caterina Merenda. A Palazzuolo sul Senio controllo che il salice che sporge sul fiume sia ancora al suo posto.
Radio Bruno trasmette i Daft Punk.
Penso che la frase “le madri, a differenza dei padri, non si uccidono: si perdonano” mi sarebbe piaciuto averla pensata io, invece è di una scrittrice neofemminista estremista.
Non lontano da Riolo Terme sosto presso l’officina dove un folle ha costruito un aeroplano nerazzurro di circa cinque metri con la scritta “forza Inter”, ed essendo maggio mi tocca pensare al maledetto 5 maggio 2002, il 5 maggio in cui vagai sotto choc per alcuni quartieri della mia città, con la sciarpa ancora al collo, una sciarpa di lana a dispetto dei 35 gradi, senza rendermi bene conto degli juventini già in carosello che mi insultavano. Poi supplicai la mia ragazza di allora di giocare a calcio solo venti minuti, solo per immaginare di fare i due tiri giusti, quelli che ci avrebbero fatto vincere la partita e lo scudetto, ma dopo un po’ lei decise di andarsene (tutt’ora non mi sento di biasimarla) e con altri amici ci dirigemmo di fronte a un locale chiuso a fumare un cioccolato che sembrava caucciù.
Poi a Imola finisce la strada bella e ne comincia un’altra che ha il suo fascino nello squallore post industriale di luoghi come lo zuccherificio di Russi.
Radio Budrio trasmette Anna Oxa (credo sia “Senza pietà”).
Budrio: che buffo.
A Sant’Apollinare Nuovo un turista laziale, osservando la parete sinistra, dice “Aho, Teodorico c’aveva ‘n sacco de donne”.
La bellissima Ravenna mi appare piana, tersa, allungata, arancione, in una contesa estetica fra Bisanzio e il fascismo dove è senz’appello la vittoria di Bisanzio.
Al Battistero degli Ortodossi il custode mi dice “prego, prego! Se dentro vuoi far delle foto, fa’ pure! Fa’ pure tutte le foto che vuoi! “.
Prendo una vodka in un caffè-libreria particolarmente stucchevole dove è vietato fare foto.
Esco di nuovo dalla città per tornare a sfiorare le colonne liscissime in marmo proconnesio, detto anche cipollino, di Sant’Apollinare in Classe. Visitai per la prima volta la Basilica durante la gita di seconda media. Era l’anno in cui cessarono le stragi di mafia. Un compagno mingherlino e angariato disse a voce bassa al suo unico amico “più che in Classe, dovremmo chiamarlo Sant’Apollinare… In gita!!!”, ma ebbe la sciagura di osare la battuta in uno di quegli spazi di innaturale silenzio pneumatico che a volte si creano per circa due secondi anche in mezzo al frastuono più intenso. Lo sentimmo tutti. Il grassone violento del gruppo – che in seguito sarebbe divenuto igienista dentale e avrebbe sfasciato tre Bmw in cinque anni – gli si scagliò contro per punirlo dell’inaccettabile freddura, e gli ruppe un braccio.
Con Alba eravamo qui due anni fa. Fumavamo erba nel grande prato dietro l’abside. Ascoltavamo Francesco De Gregori da una piccola cassa. Volevamo talmente bene a De Gregori che avrebbe potuto cantare pure la sporcizia nella metro di Roma o i suoi panama preferiti: ci bastava sentire la sua voce per rischiare di piangere. De Gregori era a tutti gli effetti insieme a noi. Ricorreva nelle frasi. Gli dedicavamo scherzi. Lo usavamo per tollerare la quotidianità.
“Cosa sceglieresti, tra la vita e la morte?”
“Eh?”
“No, dico: dovessi scegliere.”
“Che domande: l’America.”
Oppure:
“Dove stai andando a quest’ora? Sono le 2 passate…”
“Dal mio amico Culo di Gomma, famoso meccanico.”
Alba però a volte lo criticava.
“Non ti sembra che alcune metafore manchino di nessi logici?”
“Tipo?”
“Boh, tipo le grandi gelaterie di lampone per dire le camere a gas nei campi di sterminio”
Io allora lo difendevo.
“Le metafore sono interpretabili. Un regalo per la fantasia di chiunque. I pratici lo chiamano ermetismo. Per me è solo un modo generoso di scrivere”.
La terza volta che prendemmo un acido insieme, Alba diventò Dolly del Mare Profondo, e io Il Figlio del Figlio dei Fiori. Mentre si scioglieva sotto la lingua provammo a ingannare il tempo: ma non dovemmo ingannarlo a lungo. La luna impaurita ci guardò passare, e le stelle erano punte di spillo. Quando mi capitava di commuovermi sentivo i miei occhi stringersi e arrossarsi. Mi sembrava di trasformarmi in un roditore cinese. Mi sembrava che il nuovo aspetto dei miei occhi, senza dubbio peggiorato, mortificasse l’emozione. Non mi volevo far vedere. Non riuscivo più a sostenere il suo sguardo da vicino. Dopo due secondi ero costretto a distoglierlo. Ma quando ascoltammo “La donna cannone” insieme, persi le difese. Le mani saldate alla sua schiena. Riuscii a guardarla negli occhi. Sono sicuro che si trattò di quell’attimo che di rado, nell’arco di un’esistenza materiale, giunge a fondere due spiriti in uno.
Carezzo il marmo proconnesio, detto anche cipollino, e mi scorre una lacrima sul collo. I nomi buffi di quel tempo. Nella luccicante Ravenna, le cui anime erano già state amministrate in passato dal vescovo Orso, la Basilica era stata voluta dall’arcivescovo Ursicino, e finanziata dal banchiere Argentario. Fisso il blu cobalto del mosaico circolare che circonda la croce dell’abside. Poi il verde del prato su cui Sant’Apollinare predica a braccia allargate. Blu. Verde. Un’altra lacrima. Abbraccio la colonna di proconnesio, detto cipollino. Me ne vado.
Al tramonto apro una boccia di Oban pronta per la serata e incontro il mio amico Cirri in un bar di Cervia dove lo schermo manda in loop vecchie partite del Cesena.
Cirri mi porta in giro per Cervia.
Mi dice che Cervia, in origine, era stata costruita nell’interno, una decina di chilometri lontano dal mare, esattamente al centro delle saline dominate oggi dalle colonie di fenicotteri. Innocenzo XII impose che venisse ricostruita in riva al mare.
“Cioè venne traslata…?”
“Non è che venne spostata con le ruote. Fu distrutta e poi ricostruita coi suoi stessi materiali”.
Sul muro di un capanno fatiscente è scritto Di Pietro, Beppe Grillo e le Bestie di Satana.
“Questa è di almeno vent’anni fa”, dice Cirri.
Quella di Cervia era gente incapace e alla fame, si nutriva di pinoli e pescava con le mani. L’arrivo degli odiati veneti, conoscitori del mare, fu a quanto pare la loro salvezza.
Sul muro di un piccolo acquedotto è scritto Giggino Di Maio scugnizzo pachistano.
“Chiaramente è una citazione dell’altra”, dice Cirri.
Poi dice che per un periodo ha valutato la possibilità di candidarsi a sindaco di Cervia.
“Però alla fine ho deciso di non farlo.”
“Perché?”
“Perché vincerei.”
Butto giù un sorso abbondante di Oban e lo accompagno con un pò di acqua gassata.
Cirri mi mostra la statua che un tedesco commissionò e donò alla città dopo la morte della propria compagna, scomparsa prematuramente. La donna è ritratta in forma di sirena. Nel bronzo è scolpita una frase: All’idillio che i due vissero sempre in riva a questo mare…
Sul cemento di un ex bunker nazista è scritto Beppe Grillo sei un travestito.
“Devi sapere che in questa zona è tutto un rimando di citazioni”, dice Cirri.
“Sono qui perché devo vedere Maksikov – dico a Cirri – Portami da lui”.
“Adesso?”
“Adesso.”
“Ma perché?”
“Quei calabresi di merda. Con Maksimov andiamo a casa loro e facciamo due conticini.”
“Cosa dici? Hai perso la testa?”
“Quel bastardo non risponde al telefono. Devo parlarci di persona. Portami da lui.”
“Ma non s…”
Prendo Cirri per il bavero strizzando il colletto e serro i pugni spingendoli verso la mandibola a contrasto con la gola.
Poco dopo, Cirri guida in silenzio nella notte lungo i rettilinei infestati di zanzare tigre e sorvegliati da platani di cinquanta metri.
L’ultimo Natale che passai con Alba eravamo ospiti da suo padre Aurelio, primario di neurologia con la passione per il modellismo e le biografie di dittatori responsabili di genocidi.
Mentre arrivavano i crostini di milza chiesi ad Aurelio come poteva concedersi di spegnere il telefono, ora che non lo faceva più nessuno, neanche la notte.
“Vedi, nel momento del lavoro il mondo ha diritto di interferire con la mia vita; nel momento in cui il lavoro finisce, il mondo non ha più questo diritto. Il mondo non lo capisce? Lo capirà.”
Alba sorrideva in modo sfuggente con gli occhi alzati verso il soffitto.
Arrivarono i tortellini in brodo.
Chiesi ad Aurelio perché mai parlava con gioia degli alberi che avevano segato intorno alla sua casa in collina.
“Vedi, ora che sono stati tagliati l’abete rosso e il pino marittimo di trenta metri che circondavano casa mia, ho la vista sgombra sull’Amiata e su tutta la dorsale appenninica. E te lo dice uno che prima di tagliare un albero ci penserebbe dieci anni, e poi deciderebbe di no.”
Alba ora faceva il verso al bambino dei cugini sussurrando con la bocca esageratamente allargata DAO DAO DAOOO.
Arrivarono le penne col cinghiale.
Chiesi ad Aurelio perché, ora, criticava invece l’abbattimento come se fosse stata una violenza di Stato.
“Perché vedi, all’ingresso del paese c’era un ciliegio nato dal muro. Il tronco si curvava per un metro sulla strada, diventava dritto e andava per l’alto. Era stupendo: dava il benvenuto nel borgo. Sarebbe bastato avere cura del muro, aggiungere un po’ di cemento, tenere le pietre salde. Lo hanno segato perché non sanno avere cura delle cose. Là cresce ogni tipo di orchidea, crescono a strati, a migliaia, bellissime. Nelle aiuole, nei giardini, anche negli spartitraffico. Ma loro non ce la fanno, devono tagliare, devono pareggiare e abbattere tutto.”
Alba stava spremendo un pupazzo di gommapiuma capace di produrre il suono ridicolo di un’ochetta straziata. Il bambino impazziva dal ridere.
Arrivò il cappone.
Chiesi ad Aurelio com’era possibile che alcune sue idee improntate a un sano ambientalismo fossero compatibili con altre, più vicine al nazionalsocialismo.
“Vedi, io sono una personalità nordica, mi piacciono l’ordine, le regole, la correttezza, la disciplina. Quando andavo in bicicletta con un mio amico, generale dei Carabinieri…”
Alba si sistemò il reggiseno e mi venne duro.
Arrivarono i gobbi strascicati col sugo.
Mi concentrai su Aurelio annientando all’istante l’erezione. Ipotizzai che se nel nostro Paese avessimo importato per magia l’educazione, la civiltà, il rispetto e la legalità tipicamente nordici, all’istante avremmo corso il rischio di diventare rigidi, gelidi, storditi, avremmo cominciato a mangiare male, a tollerare la pioggia, avremmo smesso di far tardi la notte in piazza, avremmo rinnegato la nostra natura conviviale, avremmo perduto le poche cose belle che ci restano.
“Ma scusa, e in che modo, prendendo il meglio delle civiltà nordiche, perderemmo qualcosa del buono che c’è nella nostra? Non capisco. A parte che non so a cosa ti riferisci quando parli di ciò che ci resta di bello, ma in che modo le due cose dovrebbero entrare in conflitto?”
Scrissi un bigliettino rubando una matita azzurra al bambino dei cugini e lo detti ad Alba. C’era scritto Non avrei mai creduto che i Marescialli Prussiani potessero generare miracoli del tuo calibro.
“Maksimov! Vieni fuori, pezzo di merda!”, urlo dal piazzale sotto la sua finestra. Poi do un sorso dalla boccia di Oban, e uno dalla bottiglia di acqua gassata.
Cirri è appoggiato al cofano della macchina. Si stropiccia gli occhi e la parte bassa della fronte.
“Maksimov! Scendi, gli immigrati hanno circondato tutto questo quartiere del cazzo! Vieni giù! Scappa!”
Si accendono luci nelle case. Qualcuno apre la finestra per sbirciare meglio.
“Ehilà, cittadini che avete a cuore la sicurezza! Marinozzi è un gran frocio, lo sapete? Lavora con le Ong perché gli piace prenderlo nel culo dagli africani!”
Sbattono alcune porte.
Si accendono le luci delle scale.
Marinozzi-Maksimov schizza fuori come un proiettile dalla porta del palazzo.
“Si può sapere cosa cazzo ti prende?”
Do un sorso di Oban e uno di acqua gassata. Poi appoggio le bottiglie per terra.
Sorrido e gli vado incontro. Guardo per un attimo i suoi occhi stizziti. Gli prendo con una mano il collo, con l’altra i capelli, da dietro.
“Lasciami – rantola – lasc…”
“Stai calmo e vieni con me. È solo un giretto in macchina.”
“Cosa? Cosa dici? Dove?”
“Tra due ore ti riporto qua. Non mi far usare le maniere forti, che a noi progressisti non piace.”
Con il cranio bloccato dalle mie mani, Maksimov ruota gli occhi in direzione di Cirri, come per richiedere un’autorizzazione. Cirri si stropiccia le tempie.
“Cirri resterà qua a casa tua. Ad aspettarci. Vedrai che tra poco torniamo.”
Cirri fa si con la testa.
Maksimov sale sul posto del passeggero. Do un sorso di Oban e uno di acqua gassata.
“Adesso mi porti alla villa dei tuoi capi mafiosi.”
“Ti è saltata la boccia?”
“Ricordi i tre bastardi della spiaggia?”
“Ma guarda che non…”
“Maksimov…”
“Si, ricordo.”
“Che pena, mi facesti. Se te lo avessero chiesto, avresti leccato la sabbia.”
“Non è come credi.”
“Li ammazzo o gli distruggo la villa, fosse l’ultima cosa che faccio. Ora tu mi porterai lì.”
“Cosa?”
“Se non mi porti ti rompo le ossa, giuro su Cervia, sui veneti e su tutte le colonie estive del cazzo.”
“Vuoi davvero finire così?”
“D’accordo, scherzavo. Voglio solo che mi porti lì. Ci fermiamo davanti al cancello. Guardiamo il parco. E ti spiego due cose.”
“Ma che ti prende?”
“Solo spiegarti due cose. Parlare. Non costringermi a insistere.”
Partiamo. La radio trasmette un vecchio pezzo dei Matia Bazar che parla di Roma.
Scorrono cartelli per luoghi denominati Tantlòn, Borgo Faina, Testi Rasponi.
“Maksimov, tu sai cos’è la Legge dei Soggiorni Obbligati?”
Maksimov tace.
“Maksimov, sai cos’è la Legge dei Soggiorni Obbligati?”
“No.”
“Ma come! Un vecchio libertario russo come te.”
“Mi dispiace.”
“Fu un aggiornamento del confino di epoca fascista. La legge voleva mandare qui i pezzi grossi della mafia per una specie di rieducazione sociale in una terra avanzata, priva di contaminazioni criminali. La tua terra.”
“Lodevole.”
Annuisco. Do un sorso di Oban e uno di acqua gassata.
“Il primo, alla fine degli anni ’50, fu Procopio di Maggio, capo mandamento di Cinisi. Fu spedito a Castel Guelfo, provincia di Bologna. Seguirono Badalamenti, Dragone, Sandokan Schiavone, Salvatore Riina. Invece Giacomo Riina, lo zio di Totò, arrivò a Budrio nel 1967.”
Scorrono cartelli per luoghi denominati Fosso Ghiaia, Godo, Le Tombe. La radio trasmette un vecchio pezzo di Fiorella Mannoia che parla dell’Irlanda.
“Partirono entrando nell’edilizia. Poi autotrasporti, movimento terra, traffico di armi dal Belgio alla Sicilia, partecipazioni in Eminflex. La Eminflex di Gelli.”
“Non capisco dove vuoi arrivare.”
“Gioco legale. Riciclaggio. Usura. Traffico di uomini. Prostituzione. Smaltimento di rifiuti tossici. Banche di San Marino.”
Scorrono luoghi denominati La Gnaffa, Sterlina, Medicina. A Fossatone prendiamo una strada buia orlata di tigli giganteschi che conduce a un altissimo cancello in ferro battuto. Oltre il cancello, in mezzo al prato si distinguono vialetti bianchi di ghiaia. Una fontana scroscia debolmente. Una volta spento il motore, resta l’unico suono.
“Oggi è completamente radicata in attività immobiliari, finanziarie, bar, ristoranti, autotrasporti. Qualsiasi tipo di impresa. Comprese le bilance di precisione. Si pensava che fosse un fatto culturale. Una peculiarità meridionale. Per questo li si faceva venire quassù. A contattare le cosche, poi, sono stati direttamente gli imprenditori emiliani e romagnoli. I professionisti. I consulenti aziendali.”
“In qualche caso sarà pure successo.”
“Si pensava che fosse solo un fatto culturale.”
Fumiamo una sigaretta appoggiati al cofano della macchina. Finisco la bottiglia di Oban. L’acqua è già finita da un po’. Guardo Maksimov. Sorrido.
“Chissà cosa nasconde quel parco, eh, compagno Maksimov?”
“I mafiosi amano gli animali esotici.”
“Se è per questo, li amo anch’io.”
“Là dentro ci sono stato.”
“E cosa hai visto?”
“Un pitone reale albino.”
“Avrei scommesso su un leopardo.”
“Niente felini. Solo questo serpente gigante. Una specie di mostro bianco a chiazze gialle.”
“Lo so. Lo conosco.”
“Aveva quasi un ettaro di parco per sé. Gli davano in pasto i cani randagi.”
“Scavalchiamo e andiamo da loro.”
Maksimov tace e guarda per terra.
“Ricordati del fuoco ribelle della Madre Russia, Maksimov. Smetti di essere servo. Scavalchiamo.”
Maksimov resta in silenzio per un pò.
“Tra te e Alba è solo finita – dice Maksimov – Solo finita. Non morirai”.
“Bastardi mafiosi.”
Maksimov mi abbraccia. La sigaretta mi cade dalla mano. Mi sembra di sentire La donna cannone alla radio, ma la radio è spenta. Forse viene dal parco della villa? Avanzo verso il cancello. Maksimov mi prende un braccio.
“Vieni”, dice.
Mi piego sulle ginocchia. Forse devo vomitare.
“Andiamo via. È ora di tornare.”
Testo Giulio Pedani
Illustrazioni Bernardo Anichini