Si, si, è nato proprio qui a fianco, dentro quella stanza. Lo ricordo come fosse ieri. Un sacco di complicazioni, il bambino che non aveva alcuna intenzione di uscire dal corpo di quella poveretta. Stava tutto attorcigliato al cordone, manca poco ci si strangolava. Lei che strillava e contraeva e strillava e contraeva ormai da ore.
Imprecava, piangeva e poi pregava, pregava. Pregava fin quando il dolore non la raggiungeva dappertutto e allora ricominciava a imprecare. Il bambino si era messo di testa e non voleva proprio saperne di collaborare. Così, in preda all’esasperazione, ho afferrato una ventosa per sturare i lavandini e dalla testa ce l’ho cacciato fuori tutto quanto, quel diavoletto. Il cranio gli si è allungato a tal punto che ho temuto di averglielo staccato dal collo. Alla fine però è andata.
Giuro che in tutta la mia vita non ho mai sentito un neonato strillare così tanto. Sembrava che, invece di aver visto la luce, il cielo, la sua bella cameretta tinteggiata d’azzurro, avesse guardato dritto in faccia il Demonio, come prima cosa.
Era un urlo terrificante, quello. Un urlo che tentava di mettere in guardia il mondo intero, che preannunciava una qualche sciagurata profezia.
Pulii il bambino e mi voltai per avvertire la madre. Lei già non respirava più.
Quella è stata la prima e ultima notte che il bambino ha trascorso nella sua cameretta tinteggiata d’azzurro.
Tornavo a casa pieno di lividi, tagli, buchi nei vestiti. Mia madre si era convinta che mi picchiassero.
Un pomeriggio si è inventato questa prova di resistenza del tutto assurda. I Casermoni erano circondati da una distesa di cespugli ed erbacce che ci arrivavano fino al petto (il cortile dell’edificio era sopraelevato di circa mezzo metro rispetto al terreno). La chiamavamo la Savana. Il gioco consisteva nel tuffarsi dentro uno di questi cespugli. L’ultimo che ne aveva abbastanza avrebbe vinto.
A seguito dei primi due lanci ero già una Pietà di graffi. Mi ritirai.
Lui invece proseguì imperterrito. A un certo punto si lanciò a capofitto nella Savana e ne riemerse grattandosi furiosamente un braccio. Era finito dentro un cespuglio di bacche velenose, o roba del genere. Continuava a grattarsi il braccio come un cane pulcioso, finchè d’un tratto non ha iniziato a diventare bluastro e a rivoltarsi tutto quanto.
“Chiamiamo un’ambulanza”, proponemmo, ma lui non volle saperne.
Si allontanò bestemmiando. In lontananza potevi scorgere ancora un puntino blu che si grattava il braccio mezzo scorticato e che inveiva contro il sole. Non l’ho più rivisto.
L’amico discolo dei Casermoni
Sono stato io il primo a farlo fumare. Ha provato ad aspirare e si è messo a tossire come una femminuccia. Da quel momento in poi l’ho sempre visto con una sigaretta fra le labbra.
L’ho raccolto dalla strada come si fa coi gattini abbandonati. Vagava per la strade, giorno dopo giorno. Non sapeva nemmeno lui dove fosse diretto. Così l’ho ospitato, gli ho dato un tetto sotto cui dormire, un pasto caldo. Quella creaturina sventurata mi faceva una gran pena. Non l’ho mai obbligato a chiamarmi “mamma”, a ringraziarmi per quello che stavo facendo per lui. Non gli ho mai chiesto di dare una mano in casa, di sbrigare qualche commissione, di lavorare per ripagare la mia ospitalità.
L’unica cosa che gli avrei chiesto – se soltanto avessi intuito che razza di tipo era – sarebbe stata quella di non sgraffignarmi tutti i gioielli dal cassettone, prima di filarsela dalla finestra. È pretendere molto?
Il barbone facilmente suggestionabile
“L’hai visto anche tu? L’hai visto anche tu?”, continuavo a chiedere agli altri. Ma no, no, mica se ne accorgevano quelli. Mi guardavano con tanto d’occhi.
Com’era possibile? Sono diventato pazzo, mi sono detto. Arrivava tutte le sere con i suoi stracci, uno zaino e una coperta lercia. La stendeva per terra e si metteva a dormire. Quando mi risvegliavo lui era sparito.
Ci serviva un quarto coinquilino per ammorbidire l’affitto. All’annuncio avranno risposto in cinquanta, forse sessanta persone. Fare colloqui era diventata la nostra seconda professione. Ricordo che avevamo stilato alcuni parametri per giudicare i visitatori: “giovane” (1 punto), “apparentemente pulito” (2 punti), “affidabile” (3 punti), “col fumo” (4 punti), “non del sud” (5 punti), “pezzo di fica” (6 punti), “pezzo di fica single” (7 punti). L’accordo era di dare la stanza a quello col punteggio più alto.
Per quanto non fosse né giovane, né pulito, né –tantomeno – ispirasse fiducia, la camera andò a lui. Forse non era del sud, ma non ha mai parlato abbastanza per farlo intendere. E aveva tutta l’aria di essere un fattone, certo, ma il fumo ce l’ha sempre scroccato.
A questo punto sarebbe lecito da parte vostra domandare come diavolo abbia fatto quello sciroccato a stabilirsi in casa nostra per quattro mesi abbondanti.
Semplicemente, ha poggiato lo zaino per terra e ha cacciato fuori i soldi dell’affitto. Poi ha chiesto dove fosse la camera e ci si è chiuso dentro. Come accidenti fai a spiegare tutta la storia dei parametri a uno così, eh?
Potessi tornare indietro rinvierei giù per le scale il suo zaino da quattro soldi e lo butterei fuori a suon di pedate nel culo. Non farei altro che il nostro bene, dato che poi è scomparso senza versare due mensilità, non ha mai alzato un dito per pulire e ne ha combinate di tutti i colori. A proposito, se lo vedete, chiedetegli se ne sa qualcosa di quel mezz’etto di burbuka che è sparito dal mio cassettone della biancheria…
Il casiere
Il mio nome non è importante. Ho tre figli maschi. Il primo l’ho mandato all’università ed è andata bene. Biologia. Il secondo ha voluto fare lettere ma siccome non compicciava un bel niente l’ho sistemato da mio fratello, che ha una ditta di condizionatori. Il terzo sta facendo l’alberghiero e quando avrà finito farò in modo che trovi un lavoro come si deve. Sono presidente del comitato anti-autovelox e nel tempo libero colleziono zippo. Li compro, li sistemo, li rivendo. In un certo modo mi rilassa. Di lavoro faccio il casiere. A maggio sono trent’anni. La palazzina appartiene a una famiglia di dentisti. Tutti dentisti. Dal bisnonno al figlio minore. Generalmente si fanno gli affari loro e la paga non è male. Il problema sono più che altro gli inquilini.
La verità è che l’edificio crolla a pezzi, e pur di non cacciare fuori un quattrino i dentisti affittano gli appartamenti a prezzi modesti e senza effettuare la benché minima selezione. Se hai i soldi della caparra sei dentro, e festa finita. A loro sta bene così, tanto chi deve andare a menar le mani, a sfondare porte, a minacciare sfratti, ad appostarsi per giornate intere davanti ai pianerottoli di attaccabrighe e mezzi avanzi di galera-beh- quello sono proprio io.
Perciò nessuno può biasimarmi per aver permesso a quello lì di stabilirsi nella palazzina. Si è presentato con un pacco di soldi in mano, uno zaino e una cicca consumata fra le dita ingiallite. Non ha spiccicato parola, è vero, ma ho pensato fosse straniero. E’ una cosa piuttosto comune, ospitare gente a cui non affideresti nemmeno il carrello della spesa e che si esprime soltanto a mugugni e gesti mozzi.
Era azzurrognolo, e allora? Qui dentro strabordiamo di negri e musi gialli, non sarà certo un tossico da strapazzo a turbare la quiete del pollaio.
Il problema arriva quando non trovo l’affitto dentro la buca delle lettere, il cinque del mese. O quando busso e non ricevo risposta. O quando mi accorgo che una persona esce a notte fonda col preciso intento di evitarmi. Questi sì che sono problemi.
Perciò ho iniziato a fargli la posta a quello lì. La sera metto una sedia davanti alla porta del mio appartamento e appena sento un rumore butto un occhio nello spioncino. Ormai sono cinque notti che va avanti così e ancora non sono riuscito a inchiodarlo. Eppure io lo so che quel verme mette la testa fuori dal suo buco. E’ come se lo sentissi strisciare fino in strada e sospirare il mio nome dentro il buco della serratura. Sì, proprio il mio nome, che non è un nome importante. Ciò che importa è che l’ho appena sentito salire le scale e se stavolta non apre la porta io vado in magazzino, prendo una chiave inglese lunga quanto un avambraccio e faccio irruzione nel suo lurido buco, così vediamo se non sputa fuori i soldi dell’affitto. Voi rimanete qui. Controllate che non se la squagli.
L’ombra sotto la porta si allunga sgusciata e sembra quasi riuscire ad acchiapparlo. Lunghe dita nere appiattite sotto lo stipite, pronte a frugargli nelle tasche, a scassinare i cassetti della stanza, ad unghiarlo nelle parti molli. Non muovere un muscolo no.
Suda silenzio fino a quando l’ombra non si ritrae. Ma non è un segno di resa.
L’Inquieto sa bene che torneranno a prenderlo eserciti di unghie cupe, se non si decide a darsi una mossa. Adesso.
Un giro di valzer alla porta, l’inchino al corridoio. Via libera.
Saltabecca le scale misurando i rumori e si fionda dall’ingresso nella strada.
Sprofonda nella notte come in una gola viscida. Lo inghiotte in un sol boccone, scivolato senza masticare. Fuori è tutto maledettamente tranquillo.
Sfila una sigaretta dal pacchetto per ficcarla in bocca. Prima di accenderla pesca il fuoco dal borsone. Sceglie uno zippo con l’effigie di Marlboro Man.
Infiamma la boscaglia di tabacco e lascia che Marlboro vada a farsi una cavalcata nel campo sotto la statale.
Cammina svelto, come se avesse una destinazione verso la quale dirigersi.
Un’altra rinascita è in vista. Stavolta avverrà in anticipo rispetto al solito, ma questo non lo spaventa più di tanto.
L’Inquieto sa bene che il mondo è pieno di posti da abitare. Sono le occasioni per fuggire che scarseggiano.