Sarà stata una settimana che non mettevo piede fuori da casa. Ogni sera, prima di infilarmi a letto, riflettevo su cosa avrei potuto fare il giorno seguente per fronteggiare la mia condizione di prigioniero. Andare dal barbiere, fare qualche commissione, distribuire dei curriculum per negozi, fosse stata la volta buona…
Invece niente. Mi alzavo sempre troppo tardi, e dopo pranzo venivo sorpreso da una sonnolenza robusta, che mi paralizzava ben oltre il tramonto. Sembrava quasi che tutto cospirasse contro di me, per farmi morire anzitempo in quel buco di monolocale.
Quel pomeriggio avevo in programma di andare al cinema vicino casa, spettacolo delle 16,30.
Credo proprio che ci sarei riuscito, se non mi fossi azzardato a studiare la programmazione. Sfortunatamente davano un film su un nano e una bambina, e nell’altra sala una roba che aveva a che fare con un pappagallo parlante. Si da il caso che io detesti i film coi nani, e anche quelli coi pappagalli. Se poi c’è una cosa che non posso proprio soffrire, sono i film che hanno come protagonisti un nano e una bambina.
Perciò ero quasi rassegnato a schiacciare un pisolino, quando improvvisamente fui colto da un’inspiegabile voglia di cereali. Latte e cereali. Non chiedevo altro.
Probabilmente erano anni che non mangiavo cereali – del resto non ne ero mai andato pazzo – eppure il desiderio che provavo in quel momento rappresentava una sensazione talmente nuova ed erotica che decisi lo stesso di assecondarlo.
Mi vestii in fretta, afferrai il portafoglio e uscii di casa. Una volta fuori, mi meravigliai della semplicità con la quale si poteva effettivamente uscire da un appartamento. Era una giornata soleggiata e ventosa.
Passai davanti alla mia ex scuola elementare e mi accorsi che era stata demolita. A giudicare dall’ampiezza del cratere nel quale era stata risucchiata l’intera struttura, i lavori non erano iniziati da poco. Eppure non me ne ero mai accorto. Un brivido di malinconia mi percorse tutto quanto, poi realizzai che io odiavo quella scuola e ogni singolo bambino che l’aveva frequentata, perciò la piantai subito coi ricordi nostalgici.
L’ingresso nel supermercato mi creò un piccolo shock da ritrovata socialità. Ero sovrastato dai colori della frutta e da orde di anziani trascinati dai loro carrelli, senza contare che il bip delle casse perforava le orecchie come uno spillo. Bip bip. Vagai per un po’ fra gli scaffali, privo di meta. Di tanto in tanto mi scostavo il ciuffo dalla faccia. Continuavo ad avvertire delle ragnatele sul viso, ma era solo uno scherzo del mio cervello malandato. La scala mobile mi calmò.
Infilai la giusta corsia e giunsi al reparto cereali. Ci impiegai un po’ per passare in rassegna i vari tipi. Alla fine optai per gli anellini al miele. Percepivo con grande chiarezza che gli anellini rappresentavano la scelta giusta, in quel momento.
Era primo pomeriggio, e il supermercato aveva soltanto due casse in funzione. Valutai quale delle due dava l’impressione di essere meno affollata e mi misi in coda. Quando notai che la tizia davanti a me aveva svaligiato metà negozio era ormai troppo tardi per cambiare rotta. A un certo punto si voltò e ci fissò, a me e alla mia scatola di cereali. Evidentemente non ritenne che il mio unico articolo costituisse una corsia preferenziale per guadagnare l’uscita in anticipo, e tornò a farsi gli affari suoi.
Era una donna di mezza età che portava con fierezza i suoi anni, una di quelle che potrebbe tranquillamente aver partorito due gemelline bionde, in un passato non troppo lontano.
La fila avanzava lentamente, ognuno attendeva che il proprio fardello di vita venisse battuto guardando nel vuoto o fissando un punto innocuo. Con una mano reggevo la confezione di cereali, con l’altra cercavo ancora di scacciare le ragnatele dalla faccia.
Arrivò il turno della signora. Prodotti di ogni genere sfilavano rapidissimi fra le mani della cassiera e si accatastavano in fondo alla cassa.
Alle mie spalle cominciarono ad arrivare i primi sbuffi e i primi commenti sibilati a mezza voce.
“Forza, non abbiamo mica tutta la giornata”, sospirò la vecchia che stava dietro.
La osservai con attenzione. A prima vista, dava l’impressione di essere una pensionata qualsiasi, di quelle che convogliano le fatiche quotidiane nel sacro rituale della spesa, autentica cisterna di aneddoti e incredulità abitudinarie.
Ma forse sbagliavo: a guardarla bene, infatti, aveva tutta l’aria di essere un animale notturno. Selvaggio, istintuale, sfrontato.
Sul suo viso rintracciai rughe e ombreggiature diaboliche che in un primo momento non ero riuscito a cogliere, sfoghi cutanei di lorde perversioni.
Nella frazione di secondo che intercorreva fra un bip e l’altro, ricostruii un quadro più fedele a proposito della sua travagliata esistenza, sordida e avventurosa. Convenni che si trattava di un’esistenza effettivamente troppo notevole per essere sacrificata sul nastro trasportatore di un supermercato e mi offrii di farla passare.
“Se quella non si da una mossa, è inutile che mi faccia passare…”, ribattè la vecchia.
Fece schioccare sonoramente le labbra e, scuotendo la testa, ispezionò il quadrante dell’orologio.
“Non posso mica fare notte qui. Ho messo su il minestrone…”
Intanto i prodotti della signora davanti a me giacevano tutti ammonticchiati sul fondo della cassa, come trascinati dalla marea, o da una calamità esotica.
La seconda tragedia si consumò all’incirca in quel momento. Brutta storia, la carta di credito rifiutata. E pure il contante insufficiente non fu da meno. La donna che frugava dentro la borsetta all’insensata ricerca di un centone dimenticato (non fosse mai…), la cassiera che spostava articoli a casaccio, e la fila che iniziava a subbugliare rancore, e a scuotersi e agitarsi da una parte e dall’altra come un vascello urticante.
Incastrato fra i rottami dei corpi, le lamiere delle casse, la carrozzeria dei carrelli della spesa, avvertii la violenza dello scontro causato dal tremendo frontale fra me e tutti questi elementi.
Slittai sulla superficie liscia del pavimento. Il battito polmonare accelerò, il respiro cardiaco si fece più ingrossato.
Sentivo lo stomaco rivoltarsi come un avanzo umido e malmasticato.
La signora tentava di giustificare il suo comportamento insolvente: “Non riesco a capire. Provi con questa carta…”
Ma nessuna carta l’avrebbe salvata. E nessuna carta avrebbe salvato me.
Rimpiansi i pisolini pomeridiani e il momento in cui avevo deciso di fuoriuscire dal mio guscio.
Ci volle una buona dose di autocontrollo per impedirmi di lanciare in aria la scatola di cereali e fuggire dritto verso casa.
Per fortuna la situazione venne abilmente sbloccata dall’apertura di una nuova cassa, che mi permise di pagare in tutta fretta i cereali e imboccare la porta scorrevole appena prima di stramazzare al suolo.
Le ragnatele imperterrite continuavano a graffiarmi il volto e io tentavo di liberare la visuale senza smettere di camminare nella direzione salvifica.
Proprio mentre stentavo verso le strisce pedonali la terza tragedia mi colpì in pieno stomaco con la più malefica delle sue armi: la parlantina.
Non penso che al giorno d’oggi esistano figure più diaboliche di un dialogatore del WWF armato di pettorina azzurrognola e tecniche di persuasione da quattro soldi imparate in fretta e furia durante un corso di formazione della durata compresa fra le quattro e le sedici ore e che solitamente viene denominato “Strategie di fundraising diretto: imparare a dialogare con gli altri”.
“Ciaaaooo”, con la bocca, spalancata, sembrava volermi inghiottire intero.
“Avresti un minuto per il WWF?”
“No, io non… no, io…”, mi giustificai.
“Suvvia, è per una buona causa!”
Avrei voluto spiegargli che la gente ha preso in antipatia le buona cause proprio grazie ai dialogatori. C’è chi appiccherebbe incendi devastanti in Amazzonia, chi si ciberebbe esclusivamente di hamburger McDonald’s, chi sterminerebbe specie rarissime, e questo soltanto per liberarsi dallo stress accumulato durante un incontro con un azzurrissimo dialogatore, anch’egli disaffezionato alle cause sociali per colpa del suo lavoro.
Avrei voluto spiegargli tutto quanto, ma il desiderio di tornare a casa mi strattonava verso di sé come un cordone ombelicale mutante.
Riuscii soltanto a blaterare qualche parola sconnessa e assai poco ambientalista.
“Il detersivo… ho scordato il detersivo…”
Mi voltai e iniziai a camminare a passo svelto. Mi accorsi di aver stretto la scatola dei cereali nel pugno, e di averla accartocciata all’altezza dell’apertura. Ma non m’importava.
Entrai nel supermercato e uscii dalla porta scorrevole che dava sul lato opposto dell’edificio, poi iniziai a correre.
Mi lasciai alle spalle squarci di quartiere appesantiti da sacchi dell’immondizia abbandonati e da nuvole rapprese, ancora con quella ragnatela a ovattarmi la vista, a separare l’aria in due mondi distinti. Infine arrivai. Una leggera esitazione nell’infilare le chiavi nella toppa, nel chiudermi alla spalle la porta. Ammaccata la scatola di cereali, ma in salvo nell’appartamento.
Una tazza, un cucchiaio. Il tintinnare di ogni singolo anellino che formava uno scroscio rilassante, quasi marino. La partizione dell’angoscia in tante piccole porzioni inoffensive, indistinguibili, insignificanti al cospetto dell’appagamento fanciullesco offerto da una bella tazza di latte e cereali.
L’anta del frigo spalancata, e la mano tesa ad afferrare il cartone del latte. Che non c’era.
Ebbene, può capitare. Quando non metti il naso fuori da casa per una settimana, i beni di prima necessità si possono estinguere senza autorigenerarsi.
Sfinito, mi abbandonai su una sedia. Fuori il sole trapassava le nuvole di raggi. Una luce aliena filtrava fra i banchi, come se un parassita volante le avesse tutte smangiucchiate.
Afferrai la scatola e da essa comincia a trarre grosse manciate di cereali, che riponevo direttamente in gola.
Il cibo si sbriciolava sotto i miei denti e impastava con la saliva un magma di bolo informe. Era solamente la prima di una lunga serie di operazioni che mi avrebbero condotto alla digestione. Ma non me ne preoccupavo granchè.
Masticavo piano, senza avvertire né fretta né sapore.
Avevo tutto il tempo del mondo.
Immagine: Ilaria Meli