C’è un gioco che si chiama Il gatto. Le regole sono:
1. si gioca sempre;
2. se si pensa al gatto, si perde;
3. quando si perde, bisogna dirlo ad almeno una persona;
4. quando si perde si dice: “ho perso il gatto”.
Il gatto è il miglior gioco del mondo perché non si può vincere. O meglio, si può vincere solo se i gatti non esistono.
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Ogni mattina la gente non affronta lo sgomento degli incubi stando sul letto a fottere se stessi, come invece faccio io. Scoppio sulla pancia, che ho azzimato bene per dargli muscolatura. Il mondo intorno funziona da subito come una resistenza, soprattutto per me, già esploso nei primi minuti di veglia, che aggredisco la vita esausto.
C’è una cosa che cola, lucida, a grumi, bianca, calda. Da sotto l’ombelico va verso il fianco, attraverso i peli scuri, sulla pelle tesa. L’ho gettata nell’aria a parabola, con un bel fare di pressioni pelviche, e poi è caduta sulla pelle, dove rimane. Ma non è più me.
Se non lo facessi, ragazzo mio, sarei tutto nervi e violenza, e la cosa non sarebbe adatta alla gente che mi si fa incontro. Li trangugerei tutti, che poi è quello che penso mentre mi masturbo: mangiare la gente.
Io e gli altri non è che siamo troppo ok, insieme. Nonostante questo, siamo costretti a stare nello stesso luogo. Nelle interiora conservo un enorme peso di libidine, che scarica a pulsioni su tutto quello che incontro mentre vago nel mondo-metallo. M’hanno dotato anche di questo grosso naso-scandaglio e della capacità di rintracciare l’odore dalla distanza. Vai tranquillo, che ti becco anche il gatto meglio nascosto. Può essere svelto quanto gli pare. Una volta che l’ho percepito, a prenderlo ci metto niente: ho gambe e muscoli veloci.
Ora però levati, che devo andare. È l’ora della caccia.
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La gente, dopo gli incubi, esce e fa cose.
Io, per darmi la calma esco e faccio i gatti.
Nel supermercato, la rumena del banco salumi traffica con i coltelli, numero dopo numero, e non è calma per nulla. Il prosciutto di cinghiale l’affetta come se fosse la carne di quello che l’ha violentata. Il che potrebbe anche essere vero, per quanto ne so.
Me l’ha raccontato lei, il fatto: l’ha violentata uno con la faccia da cinghiale, in Romania. Lei gli ha preso il gatto dal giardino, l’ha controllato per bene e l’ha sparso nella sua macchina. Dappertutto: lui non la smetteva di trovarne i frammenti. Dopo se n’è venuta in Italia, e ora andiamo insieme in giro e facciamo i gatti. All’inizio li facevamo sul posto, dove li trovavamo. Lei è una signora: ha il sorriso pacato, mentre fa le perizie. Io sono molto più aggressivo e tiro fuori più vita possibile, con una violenza rozza e sfrenata.
I gatti mi piace sentirli, quindi andiamo in un ex ospedale fuori città: dove ai tempi facevano guarire, noi adesso facciamo malattia. Il posto è enorme e multilineare. Abbiamo ricavato una sala operatoria coi fiocchi, nell’ala più lontana dalla strada. Ci sta l’amianto, sul tetto dell’edificio, a bizzeffe, e la gente non ci mette piede, tranne ogni tanto vengono dei ragazzini fatti con gli acidi o delle coppie. Non è un problema: qui ci stanno i diavoli. La gente non si avvicina.
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Altra cosa che faccio per darmi la calma è andare a sputare ai travella.
Tempo fa stavo sul letto con la testiera in ferro di camera dei miei, che sono crepati in un incidente. Mi hanno lasciato questo letto matrimoniale con carta da parati con sfondo verde e piccoli fiori rosa che si ripetono con regolarità e non m’interrompono mai. Sopra c’è una madonna, incorniciata in spesso legno dorato. Glielo stavo dando alla rumena e guardavo la madonna e mi veniva da pensare che come facevano i miei a scopare su questo letto con sopra la madonna. Un fastidio. Mio padre era un tipo simpatico: è lui che mi ha insegnato ad andare dai travella. Faceva il collezionista d’arte e infatti questa Madonna vale i soldi e questa casa dove vivo è enorme. Mentre scopavo pensavo che quella sera, dopo il sesso, uscire e andare a sputare in faccia ai travella era proprio un bel progetto. La rumena non era d’accordo, voleva andare a gatti quella sera. Era una bella sera primaverile, con il glicine in fiore, il fiume faceva per dimagrirsi, gli alberi erano belli e odorosi, la gente aveva l’odore della corteccia degli alberi. Per quella sera i gatti li avrei lasciati in pace, ma i travella no, quegli schifosi. Per prepararmi sono passato per il bagno, ho fatto le facce brutte allo specchio e poi sono uscito. La rumena s’è addormentata e mi ha lasciato in pace, ché era drogata. Io non mi drogo mai, perché le droghe non mi fanno nessun effetto, e la rumena mi fa ingoiare spesso tantissima roba solo per sbellicarsi del fatto che non vado mai fuori di testa. Vivo con i soldi che ho ereditato, e ci faccio la noia.
È quella sera lì che ho reclutato il terzo membro del nostro gruppo di gattari: uno che dice che di essere un anarchico. Mentre fastidiavo a questi omoni imbellettati, orrendi, con i loro membri giganti in bella mostra sotto le gonnelline striminzite, la moto a un certo punto si è rotta. L’ho lasciata lì e ho cominciato a correre via, a mani basse: alcuni di quelli mi potevano rincorrere e spaccarmi la faccia. L’anarchico passava di là con la sua mini verde. Una svastica dipinta sul tettuccio. Mi ha caricato. Mentre facevamo conoscenza, gli è preso lo sghiribizzo. Ha inchiodato davanti al trans filippino del bowling e l’ha scopato menandogli fortissimo e ha anche tirato fuori il coltello e sono dovuto scendere di corsa e fermarlo, strattonandolo fuori della signorina. Sembrava incastrato. E mentre andavamo via il filippino stava per terra, a piangere, ma poi s’è alzato e ha avuto la brillante idea di lanciarci sulla macchina una bottiglia di peroni vuota e ha beccato lo specchietto retrovisore destro che è andato in pezzi e Simone con calma ha aperto il bagagliaio mentre sto filippino gli urlava contro e ha tirato fuori un ferro 3 da golf (non ho idea di dove l’avesse trovato) e l’ha pestato a sangue a quello. Mica lo so se l’ha ammazzato. Però io e lui da quella volta siamo diventati amici. Poi gli ho detto la storia dei gatti e lui ha voluto partecipare.
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La stanza 21 sta nell’ala H del sanatorio. Vi si accede da una porticina nascosta dietro i vecchi condizionatori. Abbiamo molti attrezzi: il mio preferito è un bel trapano che mi ha regalato mio padre da bambino, con le pile incassate nella base. Un’ottima velocità di rotazione e vibrazioni contenute. Un bel set di coltelli da cucina giapponesi che l’anarchico lucida ogni settimana. Avevamo anche costruito una grande gabbia, dove un tempo tenevamo i gatti prima di levargli la vita. Ma quelli la morte che arrivava la percepivano, e si mettevano a strippare e a urlare in coro con un’eco che sembrava un deserto. Così forte che si sentivano dalla strada, quindi il progetto della riserva dei gatti l’abbiamo abbandonato e ora la gabbia è rimasta vuota. L’ambiente è molto pulito, la rumena pulisce sempre. I rumeni come si sa hanno il plurilinguismo nel sangue e le donne rumene nel sangue hanno anche essere donne delle pulizie.
Nel mio quartiere un tempo era pieno di gatti, che dormivano tranquilli sui cofani caldi delle macchine spente da poco. Io li ho presi uno a uno e ne ho combinate di tutti i colori.
Ho cominciato che ero ragazzino, e quando sono cresciuto, tutti i gatti del mio quartiere erano finiti e quindi sono andato a prenderli da altre parti della città. È diventata la mia missione e ho trovato i miei due compagni.
Non sono animali stupidi, motivo per cui li preferisco ai cani, troppo facili da acciuffare e dove sta il divertimento? L’animale gatto, bestia d’agguato, gli devi fare a tua volta l’agguato, per catturarlo. Cosa che chiamo caccia, come ho detto prima.
Quando tirano le cuoia gliele faccio tirare io a comando. Che è la cosa migliore, il nocciolo della faccenda. Non tanto per il fatto di prendersi la vita dell’altro, cosa cui tendiamo tutti da sempre. No, la cosa, ripeto, è la calma che mi infonde, la scossa che proviene dal corpo del gatto che muore. Trema tutto e poi accasciandosi, si ridà al silenzio, si ridà all’abisso, ci ridiamo all’abisso.
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“Io studiavo a scuola che i re a Bisanzio quando li levava dal trono tagliavano orecchie e naso…”, dice la rumena. Tiene in braccio il gatto più costoso che abbiamo mai catturato. Un Ashera. Costa ventimila dollari. Ci siamo introdotti in un appartamento del centro passando dai tetti, e lui, l’Ashera, era lì con i suoi un metro e passa, sdraiato sopra un tavolo di noce. L’anarchico l’ha accarezzato per un po’ e lo voleva tenere. Ma non ci sono storie, qui non si molla. La rumena ora vuole fare questa furbata di tagliargli le orecchie e il naso e tenerlo così per un po’ a girare per il posto, tipo re detronizzato. Non lo so proprio, dove l’ha tirata fuori questo fatto dei bizantini. Che poi sarebbe anche una cosa bella ma non si può: se ne lasciamo anche solo uno in giro perdiamo.
“Secondo me dovremmo aumentare le sedute, piuttosto”, le risponde Simone, mentre traffica con un siamese.
Nei giornali ci chiamano “la banda della sonda”. Quando abbiamo finito i gatti di un quartiere, ne lasciamo uno di razza appiccato in mezzo a una piazza, a monito: l’ultimo era un gatto sacro di Birmania, si chiamava Merlino, l’abbiamo appeso sul muro di un palazzo storico.
All’ingresso dell’ospedale c’è un grande poster con tutte le razze e i pochi temerari che si avventurano da queste parti avranno un gran chiedersi perché ci sia un poster del genere al vecchio ospedale, e forse qualcuno l’avrà anche capito che la banda è là dentro, che lavora.
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Quando devo dormire, dopo che sono tornato a casa dopo una giornata del genere mi sdraio sul tappeto del salotto dei miei, davanti al mobile dell’800, e metto la musica di un negro e penso a cose terribili tipo perché Dio ha scelto di crearci? Cos’è, s’annoiava? Tra tutte le cose che poteva darci, proprio l’essere. Poteva darci il nulla.
La fase che più mi stanca dell’agitazione è la sera, la notte dell’anima. Mi metto a nuotare sul pavimento in cerca del sonno, ma l’agitazione, che era solo un sentimento che ero riuscito a scacciare con tutta la macelleria, è diventata una condizione, che mi fa male dal punto in cui finisce lo sterno fino all’intestino. I muscoli sono attraversati da brividi. Sotto pelle, capisci, ragazzo mio?
Mi si avvicina il mio gatto personale Clifford. È rosso e ha sei anni. Lo accarezzo sulla testa: mi si accoccola sulla pancia, comincia a fare il pane e mi fissa negli occhi, cercando il buio e la caccia.
Poi sposta lo sguardo sulla cicatrice sotto l’occhio sinistro. Me l’ha data lui quand’era piccolo: l’avevo in braccio e ha sentito l’aspirapolvere e si è spaventato. Mia madre me lo diceva, di non guardare mai gli animali negli occhi, che si possono pensare siano un gioco e tentare di prenderli, tipo pallina. Ma Clifford e io ci guardiamo sempre. Quanto sei bello, Clifford, sei proprio il cuore di gattino del mio cuore. Hai il pelo morbido e questi occhi acquosi e il colore fulvo che ti dona così tanto. Sei più bello di tutti i gatti d’Europa, certo! O del mondo? Mi fai stare tanto bene quando stai qui a fare il pane sopra di me… fatti dare un bacino vieni qui. Sì, ti piace quando ti gratto così dietro le orecchie?
Mi avvicino sempre di più al sonno, e i pensieri vanno da soli. Vedo la mia mamma morta, la prima volta che mi ha portato in bici alla pineta vicino al mare. Cascavo a terra, preso dalla foga del correre, e mi sbucciavo e c’era la tomba di un pittore, in quella pineta. La mamma mi diceva, mentre io frignavo e urlavo, di stare calmo, che quella ferita non faceva male per niente, in verità. Rispetto ai grandi mali, intendeva. Mi mostrava il taglio del cesareo, sotto l’ombelico: “guarda, questo mi ha fatto molto male; l’anestesista si è sbagliato e io mi sono svegliata mentre ti tiravano fuori dalla pancia e ti ho sentito urlare. Dicevi ‘non voglio essere partorito! Voglio restarti in corpo per sempre! Sei calda!’. Ora intanto piegati e succhiati via il sangue dalle ginocchie come si fa con le vipere”.
Poi mi assopisco e sogno di quando correvo nella pineta, verso il mare, con le ginocchie sanguinanti, e tutti i pini diventavano serpenti e mangiavano tutti i gatti e poi arrivavo alla sabbia bollente e correvo ancora e quando entravo nell’acqua del mare il sale bruciava. Imparo ancora una volta il sangue, e il sale e il fare male alle cose, quando la mamma morta mi mostra da dove sono nato e me ne fa una colpa.
“Oh!”, sento una voce, in sogno, mentre sono nell’acqua e piango. L’immagine della mamma si sfilaccia, insieme al sonno. Sento delle zampe sulla faccia. È Clifford.
Mi alzo e mi accendo una sigaretta. Lui cammina sul bracciolo della poltrona, salta a terra e si fa le unghie sulla moquette.
Mentre lo fa mi guarda, cercando di capire, e poi esce dalla stanza passando dalla finestra aperta sui tetti. Si mette a correre velocissimo e lo vedo sparire. Di notte esce sempre, non so dove vada; è il miglior gatto del mondo, nessuno riuscirebbe a beccarlo.
Guardo il soffitto è c’è la traccia umida delle tubature troppo vecchie che perdono e bagnano da dentro l’intonaco e la vernice.
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Abbiamo finito i gatti, è dicembre e il freddo è terribile. Simone e la rumena mi hanno portato in una casa di campagna. Hanno organizzato una grande festa solo per noi. Il salotto è abitato da gatti impagliati, ognuno immobile nella sua propria funzione di gatto. Riconosco Martino, Emanuele, Paul, davanti al fuoco acceso, con il riflesso delle fiamme negli occhietti. Anna e Guglielmo sul grande tavolo di legno al centro della sala. Jean e Michele accoccolati sopra al frigorifero in cucina, a leccare per sempre uno il pelo dell’altro. Davide e Donatella all’ingresso salutano chi esce e chi entra. C’è l’Ashera, si chiama Hans, in mezzo al salotto: l’abbiamo detronizzato e gli abbiamo tagliato le orecchie e il naso, ma rimane sempre il nostro re. La rumena piange e beviamo a lungo. Sono molto agitato, per tutta la cena, ma preferisco non darlo a vedere.
Poi torno a casa.
“Ciao “, mi dice Clifford.
Mi salta sulla spalla e andiamo a farci un giro per la città. Non un miagolio, non un guizzare di code sotto le macchine. Che pace. Il fiume si è ingrossato e noi ci fermiamo sul ponte. È notte fonda, non c’è nessuno.
Testo: Andrea Landes
Immagine: Cristiano Baricelli

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