UMID(O)
Una rubrica a cura di Martina Marasco presenta:

 

IL CANE

Tradivo mia moglie da un bel po’, ormai, quando smisi di vedere Sofia: mi ero messo in testa di poter rimettere in carreggiata il mio matrimonio. Così una sera, dopo aver respinto non senza sforzi l’ennesimo tentativo di riconciliazione della mia segretaria bulgara ventiseienne – che forse mi amava ma sicuramente amava le dimensioni del mio cazzo – mi presentai a casa con due regali: uno per mia moglie e uno per tenere impegnato Gianmarco. Con mio figlio sapevo di andare sul sicuro; era un ragazzino particolare, molto più sveglio della norma, introverso, appassionato di cose strane, come dimostrava la sua inspiegabile esaltazione nei confronti dei manuali di istruzioni degli elettrodomestici. Gli regalai un telescopio che era un po’ più di un giocattolo, un discreto oggetto per amatori, e infatti non lo rivedemmo per il resto della sera. A mia moglie regalai due giorni alle terme, un soggiorno speciale a Ischia in un hotel extra-lusso dove avrei speso ogni mia attenzione e fino all’ultimo euro necessario per garantire il suo incondizionato benessere. Anche con lei feci centro.
Quella sera scopammo per la prima volta dopo almeno tre settimane e i risultati furono soddisfacenti. Certo, lo ammetto: in alcuni momenti chiusi gli occhi e mi misi a pensare a Sofia, al suo corpo elastico da piccola contorsionista, al suo culo incredibile, alla sua fica stretta dall’odore di mare chiuso salato in cui avrei nascosto il mio naso anche per sempre.
Mentre mi dormiva avvinghiata addosso immaginai che non sospettasse nulla. Così mi convinsi che sarebbe stata sufficiente un po’ di applicazione per far tornare le cose come erano state nei primi dieci anni di matrimonio. D’altra parte si era trattato solo di sesso: al di là dell’attrazione fisica – dopo la gravidanza certo mia moglie non era più il massimo che si potesse desiderare – non provavo niente per quella ragazzina bulgara. E forse sarebbe bastato davvero, il mio impegno, se al ritorno dal fine settimana alle terme non avessimo trovato quel cane.

Il venerdì mattina portammo Gianmarco da mia madre, poi partimmo per la costa. Durante tutta la settimana Gianmarco non aveva fatto altro che armeggiare con il telescopio. Prima di partire, Concetta mi aveva detto che era arrivato a fingere di sentirsi poco bene per poter rimanere chiuso in camera a consumare il suo nuovo giocattolo. Così non fu una sorpresa quando volle che lo aiutassi a smontare tutto l’ambaradan per portarlo dalla nonna, non ti preoccupare che poi lo so rimontare io, mi diceva, e a me non sembrava nulla di grave che mio figlio avesse la passione per le stelle, anzi, mi rendeva orgoglioso.
Nel week-end tutto andò come avevo previsto. Mia moglie fu contenta della qualità dell’albergo e dei suoi servizi, inoltre la stupii con qualche fuoco d’artificio di quelli che fin da ragazzo mi sono riusciti tanto bene con le donne: un aperitivo in barca al tramonto con ostriche, champagne e menestrello malinconico napoletano, una cena privata a lume di candela sulla spiaggia, dove mi scusai dolcemente per aver trascurato lei e il bambino. Dopotutto lo sapeva: con l’idea di garantirle una vita da principessa alcune volte mi lasciavo assorbire troppo dal lavoro, ma lo facevo per loro, ripetevo.
Facemmo sesso tutte le sere e non fu spiacevole; a un certo punto, il sabato, in un momento in cui mi sembrava di aver raggiunto un livello di confidenza che ci mancava da molto tempo, la girai con irruenza e cercai di metterglielo dietro. Sofia non opponeva mai resistenza, anzi, le piaceva da matti sottomettersi a quel modo e mi eccitava da morire quando diceva col suo accento slavo sono la tua porcellina, la tua porcellina cattiva. E sono convinto che sarebbe piaciuto anche a Concetta, ma non me lo lasciò fare. Si scansò bruscamente non appena intuì i miei progetti, era scandalizzata, e anche se sapevo che in qualche modo avrei potuto convincerla, rinunciai subito per non rischiare di rovinare il fine settimana.

In ogni caso i giorni passarono piacevolmente e arrivò il momento di tornare. Mentre andavamo con la macchina da mamma, per riprendere Gianmarco, al lato della statale che collega il nostro con il suo paese, rannicchiato in una conca tra l’asfalto e il terrapieno, c’era il cane, il pelo sporco di polvere e sangue. Mia moglie lo vide di sfuggita e mi convinse a tornare indietro e ad accostare.
Scendemmo entrambi e attraversammo la strada: ci avvicinammo al cane e ci piegammo sul ciglio della statale per verificarne le condizioni. Era un bastardo di dimensioni medio piccole, grossomodo grande poco meno di un labrador e con i geni del pastore tedesco nel sangue, ma aveva una testa grande, sproporzionata rispetto al resto del corpo e, nelle linee che la definivano, tendente al ridicolo. Nei due mesi successivi, mi sarei chiesto più e più volte come il suo piccolo collo potesse sostenere quella grossa testa, come riuscisse a tenerla in equilibrio e a non farla cadere ora da un lato e ora dall’altro. Respirava, ma era messo male.
Mia moglie disse che non potevamo lasciarlo lì, e io chiaramente fui d’accordo. Lo caricammo nel portabagagli, che avevo ricoperto con i teli da mare trovati nelle valigie per non sporcare la tappezzeria, poi chiamai mia madre per avvertirla che avremmo fatto tardi.
Lungo la strada pensai a che fine avrebbe fatto quella povera bestia nel caso in cui fosse sopravvissuta e mi convinsi che forse avremmo potuto tenerla, avevamo un grande giardino tutto attorno alla casa dove avrebbe potuto correre senza dare troppo fastidio e mi sembrava che un cane fosse proprio quello che ci sarebbe voluto per unire ancora di più la nostra famiglia. Mi parve una presa di posizione che in qualche modo mia moglie e mio figlio avrebbero potuto apprezzare.

Il cane tremava forte. Il veterinario che lo visitò disse che era stato investito, se la sarebbe cavata ma avrebbe necessitato di molte cure. Quando mia moglie, la vidi, stava per precisare che il cane non era nostro ma l’avevamo trovato sulla strada la zittii, e poi le sorrisi. Lei capì subito, e il modo in cui mi guardò e il moto dalla sua mano, che si aggrappò alla mia per stringerla forte, mi fecero capire che avevo fatto la cosa giusta. Devo ammettere che mi provocò una certa eccitazione riscoprire in Concetta quello sguardo: come se in qualche modo nella luce adorante dei suoi occhi fosse racchiusa ancora un po’ della Concetta giovane e bella di tanti anni prima, Concetta la puledra da cavalcare.
Il veterinario ci prescrisse i farmaci, ci chiese il libretto della bestia e quando finalmente gli spiegammo la situazione ci invitò a tornare, una volta che si fosse ripreso, per cominciare i cicli di vaccinazioni consigliate. Con il cane nel bagagliaio andammo a prendere Gianmarco, declinammo l’invito a cena di mia madre perché il cane in quelle condizioni doveva essere subito portato a casa e, stendendo la scatola di cartone appartenuta qualche mese prima alla lavatrice nuova, delimitammo un’area in cui sistemare alcune vecchie coperte infeltrite. Creavamo quel giaciglio per il cane tutti e tre insieme, come se fosse l’otto dicembre. In qualche modo eravamo felici.

Soprattutto Gianmarco, almeno all’inizio. Avrebbe pensato a tutto lui, promise: avrebbe imboccato Laika, così aveva deciso che il cane si sarebbe chiamato, finché non avesse ripreso a camminare; l’avrebbe spazzolato e gli avrebbe tenuto compagnia per tutte le ore in cui noi non eravamo in casa. Sulle sue giornate si affacciava la vacanza, quel tempo di passioni precarie che per nostalgia dell’infanzia, quando siamo adolescenti, rimpiazziamo con gli amori estivi, un tempo in cui il caldo fa andare a male i frutti presto. Ci spiegò che Laika era stato il primo cane nello spazio, e il nostro Laika era venuto proprio dallo spazio, da nonna Pina con il telescopio l’aveva visto cadere dal cielo proprio nel pomeriggio in cui l’avevamo trovato per strada.
Il primo impulso di mia moglie fu quello di contraddirlo, di spiegargli che i cani non vengono dallo spazio, ma la zittii, perché non mi dispiaceva che mio figlio avesse una passione per lo spazio, e che ci mettesse un po’ di fantasia non mi sembrava poi tanto grave. Inoltre potevamo avere più momenti per noi finché sarebbe durato, e con il fatto che – scaricata Sofia – riuscivo a rientrare sempre con una o due ore di anticipo, per alcuni giorni facemmo gli straordinari a letto e io potei convertirla, centimetro per centimetro, spinta dopo spinta, alle meraviglie del sesso da dietro: viva la legge del bastone.
La prima volta, quando ebbi la certezza che finalmente ce l’avrei fatta, lo avevo durissimo, e anche se pensavo a come fosse più mitologico, per via delle sue piccole dimensioni, impalare la maialina bulgara, mi eccitai così tanto a sentire mia moglie gridacchiare dal dolore e mordermi la mano, che per un attimo sperai mi strappasse la pelle.

Intanto il cane guariva rapidamente. Dopo circa una settimana, quando Gianmarco se ne dimenticò, come se non fosse mai esistito nessun cane, era già in grado di camminare verso le ciotole con le sue zampe.
Con mio figlio chiuso in camera tutto il giorno, e il rapporto con mia moglie che cominciava ad andare a gonfie vele, ero dell’umore giusto per occuparmi dei suoi bisogni; mi appagava pensare che questo avrebbe ulteriormente migliorato la mia posizione.
Nessuno aveva mai insegnato a quel cane a fare i bisogni fuori, poco ma sicuro. Quando tornò a stare bene, a scodinzolare e a muoversi con disinvoltura, cominciai a portarlo in giardino, con l’idea di premiarlo ogni volta che avesse fatto un bisogno sul prato. Il cane, però, non sembrava volerne sapere e, tutte le volte che rientravamo, appena lo scioglievo dal guinzaglio, cacava in un angolo del salotto, o si nascondeva a farla dietro il muro.
Dopo molti fallimenti cominciai a dubitare delle mie capacità persuasive. Come prima cosa comprai un libro, una guida al padrone perfetto; provai a seguire con ordine i consigli riportati sulla guida, ma non ci fu nulla da fare: il cane continuava a fare i suoi bisogni dentro casa, tutto contento dopo la passeggiata. Potevo leggergli sul muso quell’aria di soddisfazione imprecisabile tipica dei cani quando fanno la cacca, e nel suo caso, con quella testa ridicola, da scherzo della natura, lo rendeva la caricatura di un satanasso grottesco.
Quando lo portai alla prima vaccinazione, il veterinario mi diede il numero di un suo amico addestratore e mi consigliò di montare uno di quegli sportelletti mobili che permettono alle bestie di uscire dalla porta autonomamente. Magari il problema si sarebbe risolto da sé, mi disse. Seguii il suo consiglio, anche se cominciavo a sospettare, senza tuttavia la minima intenzione di riconoscerlo davanti a me stesso, che quel problema non fosse un problema, ma la precisa volontà del cane di trascinarmi all’inferno con sé.

Andando dall’addestratore cominciai ad avere meno tempo per mia moglie, proprio come quando mi scopavo la troietta bulgara. Per di più, le volte in cui riuscivo a liberarmi presto da ogni incombenza, la trovavo restia al sesso. Era preoccupata, mi ripeteva con sempre maggior frequenza, era preoccupata per Gianmarco. Se fossi stato più vigile l’avrei notato pure io: nostro figlio aveva cominciato a comportarsi in modo strano. Tutto il giorno, tutti i giorni, se ne stava immobile a guardare nel telescopio, non voleva mangiare, non voleva lavarsi, non voleva muoversi fino al calar della sera. Poi, non appena tramontava il sole, si staccava e non lo toccava più fino alla mattina seguente. Mi chiese, con una vena di disperazione che pulsava nelle sue parole, una delle terribili notti in cui mi lasciò a bocca asciutta – tanto che dovetti andare in bagno a fare da me, come un adolescente – ma le stelle non si guardano di notte?
Mentre gli davo di mano pensavo alla situazione e decisi che non potevamo andare avanti così, in qualche modo dovevo trovare una soluzione. Così un giorno mi diedi malato a lavoro per beccare in flagrante Gianmarco e parlarci. Non fu difficile: bastò aprire la porta della sua stanza per trovarlo al telescopio.
Quando mi avvicinai lui non staccò l’occhio dall’arnese. Aveva sentito il rumore dei miei passi e così fece cenno di avvicinarmi e parlare. Fu forse il senso sotterraneo a cui alludevano le nostre reciproche posizioni – io questuante in udienza, lui mio signore – oppure il fatto che già mi aspettasse, ma ecco che il mio atteggiamento era quello di un apprendista di fronte al savio dei savi, ero lì come se mi fosse stato concesso un privilegio. Dissi a mio figlio che lo sapevo che le stelle esistono anche di giorno, certo, e anche gli altri corpi celesti e la luna, ma che bisogno c’era di guardare il cielo per tutto il tempo, poteva fare anche una pausa e riprendere durante la serata. Senza staccare l’occhio dal telescopio vidi che sul volto di Gianmarco si fece largo un sorriso. Rispose che non era per via delle stelle o degli altri corpi celesti che guardava il cielo di giorno, ma perché stava aspettando che i suoi compagni arrivassero per riprendersi il cane.
Come ipnotizzato annuii e me ne uscii. Soltanto più tardi realizzai quanto accaduto e la gravità delle parole di mio figlio. La rabbia per essermi fatto soggiogare da un bambino si unì alla rabbia che cresceva nell’attestazione dei miei fallimenti con il cane, alla voglia di sesso che stagnava insoddisfatta proprio per causa loro, e in preda al nervosismo decisi che non ne volevo saperne più di nessuna delle due cose. Sbattei il cane fuori di casa, e tra i pianti disperati strappai mio figlio al telescopio per portarlo a casa di sua nonna, che se lo costruisse, se voleva continuare a guardare le cose del cielo.

Mia moglie non fu entusiasta della mia decisione; per il cane andava bene: non faceva freddo, il posto dei cani è notoriamente fuori e inoltre mi ero premurato di comprargli una di quelle cucce a casetta di plastica, anche lei riconosceva che sarebbe stato da Dio. Per quanto riguardava Gianmarco, invece, mi accusò, con quella supponenza tipica delle madri quando parlano dei loro figli, di non saper risolvere la situazione. Se avessi lasciato fare a lei fin dall’inizio, il problema non si sarebbe neanche posto, me lo garantiva.
Era furibonda. E ancora di più lo divenne quando cercai di farla riflettere su quanto tempo potevamo avere per curarci di noi due soli, considerato che da un po’ non ne avevamo avuto più occasione; affermazione, questa, che mi costò il mio posto nel letto per un paio di giorni.

Fu proprio in quei giorni che capii che il cane mi stava spiando. La prima volta lo vidi mentre aprivo il divano, attraverso la porta finestra del soggiorno. Mi fissava immobile, senza emettere un fiato, e nella notte non si toglieva dal muso il suo enorme ghigno d’inferno.
Inizialmente pensai che fosse un caso, ma nei giorni successivi mi resi conto che, da qualsiasi finestra io mi affacciassi, a qualsiasi ora lo facessi, dalla camera o attraverso la persiana del bagno, nel giardino davanti o verso quello dietro la casa, di soppiatto oppure avvicinandomi al davanzale con calma il cane era lì, lui guardava sempre precisamente nella mia direzione, come se biasimasse silenziosamente la mia scelta di averlo cacciato fuori.
Cominciai a temere di star perdendo la testa, e in un momento di sconforto rivelai a mia moglie che avevo paura di impazzire per lo stress, facendo però attenzione a non aggiungere niente di strano, perché se di una cosa non avevo bisogno era che mi credesse pazzo. La sua reazione fu piacevole e inaspettata: il suo istinto da donna infermierina si svegliò e la spinse a cambiare radicalmente atteggiamento nei miei confronti.
Quando capii che il mio malessere mi avvicinava a lei con tanta facilità, considerando anche che in un paio di giorni sarebbe finita la settimana di Gianmarco dalla nonna, decisi di insistere, esagerando anche un pochino la situazione nei momenti opportuni. In questo modo riuscii a infilarmi di nuovo nel mio letto, e un giorno, rimasto a casa a simulare una febbre da stress, lei mi riaprì la strada per la sua fica, che era sì molle e slentata dopo tanti anni di martello e un parto, ma che mi sorprendevo a constatare così ben fatta per il mio palo, come se lui, a forza di entrarci dentro, avesse lasciato un segno irreversibile, un segno di dolce possesso.

Dopo circa un’ora che avevamo finito, la trovai chinata in camera di Gianmarco a pulire la sua piccola scrivania di noce e la volli di nuovo. La presi di sorpresa, da dietro, e nonostante le iniziali resistenze le bastò sentire quant’era pronto il mio trapano per cedere. La misi a novanta e cominciai a sbattermela; poi notai il fottuto telescopio montato vicino alla finestra.
Per un attimo, un solo ributtante attimo, rividi mio figlio che mi spiegava che sarebbero tornati a prendersi il cane, lo vedevo come se fosse lì in quel preciso momento, proprio mentre con il bacino davo una spinta poderosa per mettere allo spiedo mia moglie. Mi sentii disgustoso.
Nello scacciarla, l’immagine divenne il ronzio fastidioso di un insetto volante. Mi rimbombava nella testa. Io spingevo ancora mentre ne percepivo l’eco.
Pensai alla forma del telescopio, mi sembrava un grosso fallo da amare. Il ronzio si fece più forte, il suo rimbombare assunse la parvenza di un idioma sconosciuto, il suo ripetersi a diverse intensità connotava la differenza tra parole di una frase misteriosa. Questa frase si impastava con il piacere. Trafissi con più forza. Con più forza.
Allora sentii il glande invocarmi mentre si prodigava tra le pieghe della pelle calda di Concetta: diramava nel mio corpo un richiamo che percepii essere la rivelazione di un codice smarrito nello spazio, scritto in una lingua antica che in qualche modo aveva ritrovato la strada di casa. Persi il controllo. Fu come se improvvisamente qualcosa di dormiente, che attendeva da secoli nei recessi venosi del mio cazzo si fosse destato per impartirmi un ordine.
Spinsi Concetta contro il muro, staccai una parte del giocattolo dal basamento e lo infilai nella sua fica bagnata mentre le ero dentro da dietro. Al glande però non bastava, non era sufficiente a chi mi stava controllando, non ero più me ma un veicolo per qualcos’altro, qualcosa di necessario e grandioso.
Diedi due colpi forti, poi lo sfilai e piegando il gomito me lo infilai nel culo, spingendolo forte mentre spingevo a mia volta, sfruttando il movimento di rientro del mio bacino per infilarcelo tutto. In quello stesso istante, lanciando uno sguardo involontario oltre la finestra vidi il cane; mi guardava. Con la sua testa orribilmente grande e l’espressione di godimento sul muso mi fissava come quando faceva la cacca all’angolo del salotto. Con la schiena arcuata e le zampe puntate sui braccioli, spingeva il dorso avanti e indietro: si stava scopando una delle piccole poltroncine verdi che avevamo comprato per il giardino, o almeno ci provava. E mi fissava, voluttuoso. Il tutto durò comunque molto poco. Mi destai da un incubo meraviglioso.
Non appena mia moglie, tra un gridolino e l’altro, realizzò cosa stavo facendo si staccò da me e colta da una furia potente cominciò a menare ceffoni all’aria, colpendomi e colpendo tutto quello che aveva a tiro. Pensavo, preoccupato, che se fossi riuscito a farla gridare come stava gridando in quel momento avrei avuto il miglior orgasmo della mia vita, intanto cercavo – indietreggiando – di ripararmi dai suoi colpi, fino a quando non raggiunsi una via di fuga.

Il giorno dopo, senza avvertirmi, andò a prendere Gianmarco da mia madre e smise di rivolgermi la parola. Ci pensavo e ripensavo, sapevo che era una punizione troppo severa per quello che avevo fatto, ma forse questo era soltanto ciò che volevo raccontarmi. Se avesse avuto meno pregiudizi, le sarebbe anche piaciuto parecchio quel gioco, ma nella situazione in cui mi trovavo non mi azzardai a dire nulla.
Intanto il cane continuava a fissarmi. E, come se non bastasse, dormendo sul divano, una notte, venni a conoscenza di una cosa di cui altrimenti non avrei potuto accorgermi.
Una zanzara mi stava tenendo sveglio, quando dal piano di sopra sentii provenire un rumore, poi un altro, poi mi accorsi che erano i passi di mio figlio, e quando lo vidi capii che era sonnambulo. Con il timore di svegliarlo, per non contraddire la chiacchiera secondo cui a svegliare un sonnambulo gli si creano gravi problemi, lo lasciai fare, e vidi che apriva la porta e usciva fuori in giardino a giocare con il cane. Per più di mezz’ora osservai sbigottito Gianmarco correre da una parte all’altra per lanciare e riprendere un giocattolo mangiucchiato dal cane senza dire una parola. Poi, nel più totale silenzio rientrò e salì di nuovo al piano di sopra per tornare nel suo letto.

Le notti seguenti decisi di mettere una sveglia, per capire se si trattasse di un evento episodico oppure di un gesto reiterato. Tutte le mattine, alla stessa ora, mio figlio si piazzava davanti al telescopio, che mia moglie nel frattempo gli aveva permesso di usare di nuovo, fino al tramonto e tutte le notti, alla stessa ora, si alzava dal letto e vagava sonnambulo per il giardino inseguendo il cane, che di giorno continuava a fissarmi.
Se non avessimo litigato pochi giorni prima, avrei di certo raccontato tutto a mia moglie, ma la notte in cui finalmente decisi che quella storia non poteva andare avanti, fu ormai troppo tardi.
Quando il telefono cominciò a vibrare nella tasca del pigiama stavo sognando di violentare Sofia con un bel dildo elettronico King Size e mi svegliai con una sgradevole sensazione di incompletezza appiccicata addosso. Quella notte non sentii i passi di mio figlio. Andai a controllare nella sua stanza, ma stavolta trovai la porta chiusa.
Aprii e mi sporsi sul giardino; mio figlio non c’era, ma per la prima volta da tanto tempo non trovai neppure il cane a spiarmi.
Una luce innaturale si rifletteva sul prato inglese tenuto basso dai ripetuti passaggi del taglia-erba, un chiarore esangue e diffuso, come se qualcuno stesse giocando nel buio, con una torcia e uno specchio chinato a pochi centimetri da terra.
La torcia era il cane, che aveva preso fuoco. Non lo realizzai subito. Correva in fiamme nel prato del giardino senza emettere un lamento, sciogliendo una scia di tenebre attorno a sé mentre, rapidamente, il suo corpo si consumava come quello di una stella. Assistei alle sue circonvoluzioni immobile.

Mi guardai intorno in cerca di qualcosa per tenere a bada le fiamme. Presi il tappetino davanti all’ingresso e corsi verso di lui per salvarlo. Più bruciava più il cane rallentava, e così non fu troppo difficile raggiungerlo; nonostante questo, quando mi gettai su di lui, avevo il fiatone. Prima lo cinsi brandendo il tappetino, senza curarmi del fatto che avrei potuto prendere fuoco anche io; ardeva caldissimo, ma il tappeto reggeva alle fiamme. Cominciai a sbattergli gli estremi addosso con tutta la forza che avevo in corpo, sbattevo e incredibilmente le fiamme si placavano, ma non perché lo stavo salvando; perché non c’era quasi più niente da bruciare. Mi resi conto che a quel punto della combustione non si poteva salvare, che era già morto.
A ogni colpo una parte del cane si sgretolava e diventava cenere. Allora presi a stringerlo. Strinsi forte quel tizzone infuocato che si dimenava sempre più debolmente come quando con l’asciugamano pieno di sabbia stringevo mio figlio dopo il bagno a mare, per asciugarlo, e così la stretta divenne un abbraccio e io cominciai a piangere.
Nella notte, in ginocchio nel giardino umido delle quattro del mattino, a pochissimi metri in linea d’aria dalle stanze in cui mia moglie e mio figlio stavano forse dormendo beati, dentro casa mia e casa loro, nella nostra ordinata e silenziosa periferia cittadina, abbracciavo il cane che in una polvere sottile si disperdeva sull’erba all’inglese, tagliata la domenica, tenuta bassa. E piangevo, perché in realtà sapevo che non stavo abbracciando più niente.

il cane

Testo Luca Marinelli
Illustrazione Federica Consogno

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