“Ti ricordi quel tizio che aveva una gamba più corta dell’altra?”
Il mio attimo di concentrazione è stato interrotto. Le orecchie, tappate dal brusio della folla, sono state colte di sorpresa dalla domanda del nano. Lo guardo dubbioso.
“Quale tizio?”
“Sì, quel tizio che aveva la gamba destra più corta dell’altra di quasi trenta centimetri. Però, riusciva lo stesso a camminare e restare in piedi senza bisogno delle stampelle.”
“Immagino che zoppicasse.”
“Sì, certo. Dal lato della gamba corta, usava il braccio come se fosse un’elica. Camminando, lo ruotava per mantenere l’equilibrio e sospingersi in avanti. La gente lo guardava e rideva. Per gli altri, era strano. Il tizio, però, non pensava di essere né strano né ridicolo. Reggendosi in quel modo così buffo, non è mai finito col culo per terra. La gente rideva, ma nessuno l’ha mai visto cadere. Lo stesso vale per te, quando passeggi lassù. Non far caso se ti prendono in giro perché hai un’andatura stramba e sembri barcollare. È proprio quella la tua specialità.”

Già, è sempre stata la mia specialità, una camminata frammentata, quasi a strattoni, come se zoppicassi. Dev’essere per questa ragione che il nano mi sta facendo l’esempio dell’uomo con una gamba più corta dell’altra. E secondo lui dovrei accontentarmi dell’idea di aver trovato il mio equilibrio? In realtà, è proprio il mio modo di affrontare la situazione che da qualche tempo mi rende nervoso.
“Non era mai capitato di sentirmi così insicuro. Il problema è che sono io per primo a diffidare del mio equilibrio. Mi vengono in  mente tutte le voci in sottofondo, quelle che non avevo mai ascoltato e da cui non riesco più a distrarmi. E dicono che prima o poi cadrò.”
“Questo perché, purtroppo, la storia del tizio con una gamba più corta dell’altra non finisce qui. Ogni equilibrio può spezzarsi da un momento all’altro. Puoi essere tu stesso a romperlo o può essere qualcun altro a farlo. Comunque avvenga, il punto è che l’equilibrio di una persona viene intaccato. È un po’ come quell’altra storiella, quella del castello di carte…”
“Sarebbe?”
Le metafore del nano stanno cominciando a infastidirmi, ma lo lascio proseguire.
“Da ragazzino, sapevo costruire dei bellissimi castelli di carte. Gli altri bambini provavano a imitarli, ma i miei castelli erano i più alti di tutti. Non erano i soliti castelli di carte, quelli che siamo abituati a vedere. Avevano forme strane, oblique. Molte carte erano sistemate in diagonale o di taglio, altre poggiavano soltanto su uno degli angoli. A guardarli di sfuggita, quei castelli davano l’impressione di reggersi in modo precario, malfermi e traballanti. Invece, erano più solidi e stabili di quanto sembrasse, proprio come il tizio con la gamba più corta. Gli altri ragazzini non riuscivano a spiegarselo. C’era chi tentava di farli cadere per dispetto, ma per quanto ci soffiassero contro i miei castelli restavano in piedi. Sembrava che nulla potesse farli crollare, neanche quando qualcuno li toccava o li urtava. Comunque fosse, il mio castello non cadeva. Finché, un giorno, qualcuno aggiunse una carta alla mia costruzione e questo fu sufficiente a sbilanciarla. Il castello crollò. Capisci?”
“Cosa?”

“Significa che, per quanto tu sia riuscito a trovare un punto di equilibrio diverso da quello degli altri, prima o poi nella vita incontrerai qualcuno che rovinerà tutto. È inutile stare a preoccuparsi. Adesso vai. È il tuo momento.”

Già. È il mio momento, il momento del funambolo. Non devo ascoltare le loro voci, devo ignorarle. Mentre salgo verso quel filo, cerco di concentrarmi sul mio strumento di lavoro, la striscia sottile che percorrerò per tutta la vita barcollando, zoppicando, come se avessi una gamba più corta dell’altra. Arrivato in cima, chiudo gli occhi e mi butto in avanti col solito passo, come se mi spingesse una folata di vento. Solleva la polvere, una nuvola di sabbia che mi avvolge. Non vedo più nulla, non ascolto più nulla. Allora, comincio a immaginare. Immagino di essere là sotto, in mezzo al pubblico. E ho voglia di andarmene. Immagino di salire sulla panchetta e camminare attraverso gli spalti. Sempre a occhi chiusi, i miei piedi si appoggiano delicati sulle spalle delle persone, sulle loro teste, poi sugli schienali delle poltroncine in prima fila e sulla balaustra. Continuo ad avanzare traballante. Passo sopra i palloncini del clown, sopra i piedistalli per le foche ammaestrate, arrivo sulle gabbie dei leoni, uso la frusta del domatore come se fosse un trampolino e balzo fuori dal tendone. Percorro tutto il piazzale tra i cofani e i tettucci delle auto posteggiate. Ce l’ho fatta a fuggire. Ecco un’altra folata di vento. Spazza via la nuvola di sabbia. E intorno a me non c’è più nulla.
 Testo: Fabrizio Di Fiore
Immagine: Enrico “Stres” Giannini

 

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