Il mio cognome è alsaziano. I Jaeglé sono originari di Colmar, una città dell’Alto Reno in cui non ho mai messo piede. Secondo l’etimologia, Jaeglé deriverebbe dal nome Jakob, oppure dalla parola tedesca Jäger, che significa “cacciatore”. A me piace questo patronimico dalla sonorità straniera e mi sento a mio agio nei panni di una cacciatrice. Eppure il mio cognome mi ha creato anche qualche difficoltà.
I francesi, stupiti dall’insolita associazione della J e della G, e dalla A seguita dalla E, spesso credono che lo si debba pronunciare all’inglese. Allora mi chiamano Djégueul, che non suona bene, e soprattutto offriva ai compagni di classe svariate idee per nomignoli e soprannomi.
La maggior parte del tempo, anche quando ci si prende la briga di fare lo spelling, le persone lo scrivono male, il che dà luogo a pronunce ancora più assurde.
A volte, quando eravamo piccole, mia sorella maggiore e io viaggiavamo da sole, con un cartellino di plastica appeso al collo, affidate alle attente cure delle hostess. All’aeroporto qualcuno della nostra famiglia ci aspettava; un annuncio all’altoparlante ci informava del posto in cui avremmo trovato i nostri parenti. Ci è anche capitato, nella hall di Roissy, che le sorelle Gigot fossero attese all’ingresso. Abbiamo tergiversato per capire se potessimo essere noi. Eravamo noi.
Nonostante il cognome alsaziano, non abbiamo nessun legame con Colmar. Nel 1870, quando la regione è stata ceduta alla Germania, il mio bisnonno paterno, poco incline a ritrovarsi in campo avversario, decide di emigrare e si installa a Münsingen, una piccola città nel cantone di Berna, nella Svizzera tedesca. Là apre un negozio di orologeria, sposa una donna, fa dei figli, e per finire, prende la nazionalità svizzera.
“Che bell’idea!”, ha esclamato, a questo punto della storia, una donna ebrea dal forte accento pied noir, a cui un giorno raccontavo il nostro trascorso. E l’ha detto con tale entusiasmo, con una convinzione così sincera e con talmente tanto slancio, che la sua esclamazione si è, per così dire, integrata alla storia della mia famiglia o, per lo meno, al modo in cui me la racconto.
Il mio avo prende dunque la nazionalità svizzera (che bell’idea!) che noi abbiamo ereditato. Nei pochi anni in cui mio padre ha lavorato in Svizzera, dopo aver aperto a sua volta un’orologeria nella periferia ginevrina, ho sentito a più riprese dei bravi cittadini elvetici stupirsi educatamente.
“Yéglé ?” In Svizzera, la J si pronuncia Y.
“Yéglé? Ma non è un cognome svizzero, vero?”
Essere svizzeri, non è sempre una passeggiata.
Io stessa, nonostante il mio passaporto rosso e bianco, non ho mai vissuto al di là della frontiera, e non ho, per così dire, alcun legame con la Svizzera. In effetti mio nonno, cittadino svizzero nato a Münsingen, trovandosi senza lavoro negli anni Venti, decide di emigrare verso le terre piene di promesse che erano allora le colonie. Per ragioni che ignoro, opta per la Tunisia. È là che incontra mia nonna, anche lei svizzera, figlia di un avventuriero venuto a farsi una nuova vita coltivando terre tunisine.
È dunque su questa terra che mio padre viene al mondo e che noi abbiamo vissuto fino alla mia adolescenza. Quanto a me, io vengo al mondo a Losanna, perché mia madre, che lavora negli ospedali di Tunisi e sa cosa aspettarsi, ha preferito partorire là dove le condizioni sono un tantino più sicure, riaffermando così il mio diritto alla nazionalità elvetica (che bell’idea) che ci tramandiamo come un gioiello di famiglia.
E così, dopo aver pazientemente scandito J-A-E-G-L- E, quando mi chiedono quali siano le mie origini, per essere precisi dovrei rispondere che sono una svizzera di Tunisi. Perché se mi limito a dire che ho vissuto la mia infanzia a Tunisi prima di venire in Francia, una visibile confusione si insinua nel mio interlocutore. Ho gli occhi verdi e i capelli ricci, la pelle chiara con qualcosa di mediterraneo, orientale nella fisionomia, il che induce la gente in errore.
Gli arabi mi prendono per una cabila; i sefraditi per una di loro; i francesi per un meteco, e su questo tutto sommato hanno ragione. Ma visto che spesso non ho l’energia necessaria per spiegare a un interlocutore cosa sia uno svizzero di Tunisi, quando mi chiedono Da dove vieni? mi limito a rispondere che non ho origini particolari, non sono di nessun posto.
L’attaccamento dei miei nonni alla loro patria, invece, è sempre stato molto profondo e per tutta la loro vita si è manifestato con un campanilismo che, per me, è tipico degli abitanti di questo piccolissimo paese, in cui da una valle all’altra le persone non parlano la stessa lingua, non praticano la stessa religione e provano una diffidenza viscerale nei confronti di tutto quello che è straniero.
I miei nonni vivono a migliaia di chilometri dalla confederazione svizzera, circondati da tunisini. Eppure, nei giorni di festa, in cima dell’asta, mia nonna non issa la bandiera svizzera che tutti conoscono, con la croce bianca su sfondo rosso, ma un’orifiamma porpora e oro su cui un orso scala un pendio con la lingua penzoloni: vessillo a giusto titolo sconosciuto del cantone di Berna.
Nella famiglia Jaeglé si parla francese, ma spesso mio nonno e mia nonna conversano tra loro in schwitzerdütsh, il dialetto svizzero tedesco.
Anche mio padre parla tedesco. L’ha imparato, racconta, quando studiava alla scuola di orologeria di Soleur. Uno degli aneddoti che gli ho sentito raccontare a più riprese è che a diciotto anni, arrivato nella Svizzera tedesca senza parlare minimamente la lingua, la impara così velocemente e perfettamente che, due anni più tardi, i compagni della scuola di orologeria, che ignorano il suo passato, sentendolo fortuitamente parlare la lingua di Molière gli chiedono: “Ma dove hai imparato a parlare così bene il francese?”.
A dire il vero, l’autenticità di questo aneddoto resta dubbia, perché mio padre racconta anche un altro episodio che relativizza il carattere miracoloso del suo apprendimento della lingua.
Durante la guerra, a soli dodici anni, si introduce furtivamente in un deposito tedesco dove sono ammassate le carcasse degli aerei accidentati, in attesa di venire rispediti nel Reich per essere rimessi a nuovo. Mio padre non solo è affascinato dagli aerei ma anche, da buon figlio d’orologiaio, da tutto ciò che segna l’ora.
È quello a cui mira entrando nell’hangar: smontare e fregare l’orologio del quadro di controllo di un aereo per aggiungerlo alla sua collezione personale. Ma il soldato di guardia lo sorprende nel bel mezzo della sua impresa. Mio padre, da bravo monello, si passa un brutto quarto d’ora tedesco. E, conclude incoerente, se la cava abbastanza bene perché riesce a rispondere al soldato tedesco.
“Che vuoi farci! – sospira mia madre quando le faccio notare le contraddizioni nei ricordi di suo marito
– Tuo padre non è mica santo”.
Un altro dei ricordi paterni rimanda a quel periodo cupo. Nel novembre del 1942, dopo lo sbarco anglo- americano in Marocco e Algeria, i tedeschi trasferiscono le truppe dell’Afrikakorps in Tunisia. Sotto il comando del maresciallo Rommel si organizza una grande offensiva contro l’ottava armata britannica a est della Linea del Mareth. Come molti altri, i miei nonni, senza acclamare l’invasore, si guardano bene dal compiere un qualsivoglia atto di resistenza. Come molti altri, si chiudono a guscio nella tormenta, sforzandosi di tirare avanti in attesa di tempi migliori. Mio nonno continua a lavorare, andando ogni giorno in negozio, al 27 di Avenue de Paris, nel cuore di Tunisi. Sull’insegna del negozio il nostro nome è scritto a grandi lettere luminose.
Ed è là che un giorno si presenta un soldato tedesco con l’uniforme della Wermacht. Chiede del proprietario, vuole parlargli.
“Sie heißen Jaeglé? Ich auch.”
Lei si chiama Jaeglé? chiede a mio nonno sorpreso. Anch’io.
Ma non è tutto; non è nemmeno l’essenziale di quello che racconta poi.
Quel Jaeglé non conosce la sua famiglia. Sua madre ha partorito a Berlino (che brutta idea!) l’ha chiamato Martin e l’ha abbandonato. È stato allevato dalle istituzioni della carità e poi si è arruolato nell’esercito. Non è sposato e non ha figli.
Martin Jaeglé è vicino alla trentina. Ha fatto diverse campagne prima di arrivare in Tunisia, ma non ne parla. Durante quegli anni di servizio è rimasto soldato semplice.
Nella conversazione assale mio nonno di domande. Ha una sorella maggiore? Una cugina? Potrebbero aver vissuto in Germania? Essere andate a Berlino? Essere state incinta senza volerlo e aver abbandonato il bambino?
Mio nonno, stupito, toccato e imbarazzato, racconta quello che sa delle sue origini alsaziane, narra le avventure di suo padre in fuga all’annessione della Germania, spiega che non crede di avere una parentela diretta con una donna che ha messo al mondo un bambino a Berlino. A quel punto, al bancone del negozio, ferito e deluso, Martine Jaeglé piange con i lacrimoni.
E mio nonno, mosso da non so quale sentimento di compassione, invita a pranzo questo giovane soldato tedesco, questo lontano parente, quest’orfano. Martin Jaeglé accetta l’invito di mio nonno, e poi ritorna ancora.
“Com’era?”, domando a mio padre.
Lui esita: “Un uomo… non tanto alto, ma nemmeno piccolo. I capelli castani, ondulati. Un viso avvenente ma… senza tratti distintivi”.
“E di carattere?”, chiedo speranzosa.
Mio padre riflette. “Non era cattivo.”
L’immagine di Martin Jaeglé resta decisamente sfocata.
Durante le sue visite, in civile per non farsi notare dai vicini e non creare problemi ai miei nonni, porta dei vestiti per i bambini, delle sigarette per mio nonno, qualche vettovaglia per mia nonna. E ogni volta, ricominciano le domande. Quanti Jaeglé conosce mio nonno? A Colmar ce ne sono molti? Calcola le probabilità che mio nonno sia imparentato con sua madre. Guarda i suoi tratti. Cerca somiglianze con i suoi figli. Insieme ai bambini gioca come con sorelle e fratelli più piccoli, sforzandosi di dire qualche parola in francese.
Nel 1943 comincia la disfatta dell’esercito tedesco. Il tentativo di offensiva di Rommel contro l’Ottava armata britannica finisce nel nulla. Le truppe dell’Asse si rivelano impotenti davanti all’artiglieria britannica. A maggio, dopo aver subito numerosi attacchi, l’Afrikakorps ripiega verso est in una confusione che annuncia il disastro.
Martin Jaeglé lascia Tunisi con le truppe.
“E poi – conclude mio padre scuotendo la testa – non ha più dato notizie.”
“Pensi che si sarebbe fatto sentire se fosse sopravvissuto?”
“Sì – mio padre ne è certo – Sarebbe tornato”.
Martin Jaeglé si è preso un colpo da qualche parte nel deserto libico. Bruciato vivo su un carro, o è annegato nelle paludi d’Egitto.
Oggi conosciamo i crimini di cui l’armata di Hitler si è resa colpevole in quegli anni cupi. E quando si piangono le vittime della guerra, naturalmente non è per le sorti dei soldati tedeschi che ci si impietosisce. Eppure.
Il destino solitario di quel vecchio bambino abbandonato, di quell’adulto orfano che cercava una famiglia e pensava di averla trovata nei miei nonni, questa scomparsa che nessuna madre, nessuna sposa ha pianto, che nessuno nel suo paese ha forse nemmeno notato, mi fa male.
Ed è per questo che scrivo ancora il suo nome, Martin Jaeglé, perché si sappia, qualunque cosa abbia commesso, che apparteneva a una famiglia.
Testo Marianne Jaeglé
Traduzione Gessica Franco Carlevero
Illustrazioni Nadia Sgaramella
Racconto fluido e toccante. Grande umanità.
Quante storie in un cognome. Davvero una bella narrazione.