Avevo conosciuto Chiara a un concerto. Ci scrivevamo in chat da qualche mese e non l’avevo ancora mai vista dal vivo: era amica di alcuni miei amici e abitava molto lontano. Era stata lei a contattarmi dato che aveva visto delle mie foto che avevo scattato durante una competizione di gatti.
Mi piacque molto l’immagine del suo gatto mentre pisciava diamanti. Tuttavia, non aveva ancora perso il vizio di mangiarsi roba non commestibile e quindi il rischio che il suo stomaco collassasse di nuovo era sempre dietro l’angolo.
Non ero contento che ci fosse anche lui quella sera. Temevo che Chiara se la potesse prendere a male. Inoltre non avevo capito se Vincenzo avesse ancora delle mire su di lei: come ho detto, era un tipo molto strano. Una volta arrivati nel locale ci sedemmo a un tavolo a bere una birra. Lui sembrava un po’ su di giri e avevo paura che la birra a stomaco vuoto potesse portarlo a compiere qualche sconsideratezza.
“Ma se nemmeno la conosco”, mi giustificai.
“Ti mostro le foto”, disse tirando fuori lo smartphone.
Puzzava di birra da far schifo e si era pisciato lungo tutto il lato destro dei pantaloni. Con lui avevo chiuso.
“Molti vengono qui per questo, è una proposta che piace”, disse senza troppo entusiasmo.
Il pepe mi provoca da sempre un’infiammazione istantanea e, a costo di fare la figura del noioso, volevo assicurarmi che nel mio piatto non ce ne fosse.
La questione in fondo era molto semplice: brucare il maglione mi dava quella serenità che la complicata età dell’adolescenza teneva da me ben distante. A dispetto delle critiche e sberleffi di cui ero bersaglio, continuai a mangiarmi la lana fin verso il compimento dei sedici anni.
“I tortelli”, disse il cameriere gettandomi davanti il piatto.
“È assurdo – dissi – davvero assurdo”.
Come ho già detto, non sono mai stato un grande sciupafemmine. Certe cose, come spogliarmi o essere il primo ad allungare le mani, sono gesti che ancora mi costano fatica. Dovermi spogliare in quel salotto semibuio, mentre l’odore della cacca del gatto si spandeva per casa, (e con il proposito di infilarmi dentro un costume da gatto), mi fece scendere di molto l’entusiasmo. Chiara si sedette sul divano con le mani sulle ginocchia, fremente di eccitazione per il mio travestimento. Domandai se potevo tenermi i vestiti e infilarmi così dentro il gatto. Mi fu negato. Incespicai levandomi i jeans. Mi levai anche il maglione mangiucchiato che non mi ero ancora tolto dal ristorante. Restai in canottiera, calze e mutande. Domandai se almeno quelle robe potevo tenermele. Chiara fece segno di sì con la testa. Mi infilai dentro il costume e la puzza di poliestere mi fece perdere la ragione. Fu come entrare dentro una vasca di deprivazione sensoriale.
Andai in salotto, dove intanto all’odore di cacca si era aggiunto un forte sentore di piscio. Piscio con cristalli. Mi sedetti sul divano e al buio, tastando, trovai il mio maglione. Lo presi in mano, me lo portai alla bocca e brucai la lana fino a quando non spuntarono le prime luci dell’alba.