incontro con i genitoi

“Ma sì, certo, certo – dice come per fare finta di niente – siete i genitori di Renzo e Lucia”.
Davanti allo sguardo serio di Annamaria, la maestra si sente ancora in imbarazzo e si scusa nuovamente per lo sbaglio: si sono conosciuti lo scorso anno, ora ricorda.
“È che lei assomiglia tanto a Juan, un compagno di classe dei suoi figli – dice al padre seduto di fronte alla cattedra – per questo mi sono confusa”.
Scorrono alcuni istanti di silenzio in cui la maestra farfuglia di essere un po’ stanca e i genitori restano fermi a guardare. Poi finalmente un sorriso di comprensione si apre sulle labbra di Annamaria, concedendole il permesso di cominciare il colloquio genitori-insegnanti.

La maestra apre una cartella. Come quasi tutti i genitori della classe, anche Annamaria e il marito avevano usufruito della 37b, il decreto che aveva concesso alle sole coppie di autoctoni brasiliani la procreazione di un soggetto maschio e di uno femmina, piccola e unica eccezione del grande piano di contenimento demografico globale.
La maestra spiega che è normale per i bambini nati dopo il Novantadue essere un po’ più malinconici, giocare poco e sempre di malavoglia. Tiene a rassicurare i genitori, puntualizzando che non è ancora stato spiegato nulla, “nemmeno accennato, se è questo che vi preoccupa”, a proposito delle questioni sessuali e riproduttive. La sopravvivenza della specie e la conservazione genica sono argomenti che non potrebbero nemmeno capire, piccoli come sono, li annoierebbero.

Pensando alle interminabili code per gli uffici della 37b, Annamaria guarda suo marito contenta: hanno due figli e mai ci avrebbero sperato, considerata la sterilità diffusa della loro generazione. Ma Renzo e Lucia erano nati comunque, a dispetto di calcoli e burocrazie, medici, indovini e infermiere.
Annamaria si gira, notando lo sguardo della maestra dietro di lei, e fa ciao con la mano a Renzo, che sta sbirciando e non ha fatto in tempo a nascondersi dietro la porta. È sempre stato molto lento. La maestra dice che se vogliono possono entrare, Annamaria allora fa un gesto per farli venire e li fa sedere lì, a fianco della cattedra.
“State buoni però”, dice Annamaria.
La maestra è ancora impegnata a riproporre i soliti motti da réclame politica sulla 37b, recita gli slogan della propaganda eugenetica più recente, per risvegliare l’orgoglio dei genitori grazie ai quali il sangue di popoli antichi scorre ora nelle vene vive di Renzo e Lucia.
I due bambini non sanno bene dove guardare e si cercano a vicenda le vene di cui stanno parlando i grandi: uno sotto le unghie, l’altra tra i capelli. Si osservano afflitti perché non sono riusciti a trovare niente, poi una mosca che vola cattura tutta la loro attenzione.

Il padre, intanto, si infervora subito per i discorsi patriottici della maestra e cerca il tesserino dell’ABN – Associazione Amanti della Bossa Nova – nel taschino. Vorrebbe mostrarlo alla maestra ma una smorfia dispiaciuta gli marca il viso.
“Non trovi qualcosa?”, chiede Annamaria.
“Il mio tesserino dell’associazione.”
Annamaria, paziente, rovista nella sua borsetta, lo trova e il marito quasi glielo strappa dalle mani per sventolarlo emozionato davanti all’insegnante.
Ad Annamaria vien da ridere, ripensando a quella storiella della resurrezione di una civiltà per merito di una legge che ha svuotato i coglioni di mezza America Latina.
Tutto merito di suo marito, che ha un cuore d’oro, oltre che testicoli fertili. Ancora adesso non immagina nemmeno quante coppie del quartiere abbiano potuto avere figli grazie allo sperma che lei aveva donato di nascosto, in provette. I tempi della 37b scadevano velocemente e non c’era tempo per fare tentativi, diagnosi e terapie. Un’altra occasione del genere, concessa dalla Commissione di Stato per la pianificazione genetica, non si sarebbe più verificata per avere famiglia. Annamaria lo sapeva bene, e così ha agito, di nascosto.
Per questo s’informa sempre un po’ su tutti ai colloqui, della classe insomma, di tutti i figliastri suoi, ed è sempre contenta quando apprende che i bambini vanno d’accordo. La maestra non sa e non deve sapere niente di tutto questo, sarebbe troppo pericoloso. Evidentemente si è soltanto confusa prima, nulla di grave, quando sono entrati in aula e ha scambiato il marito per il padre di Juan. Forse per quei capelli dello stesso colore, il naso piccolo, gli occhi entrambi aperti e funzionanti, verdi.
Anche ad Annamaria fa uno strano effetto quella naturale somiglianza. E non riesce mai a frenare una piccola commozione quando le capita di incontrare Juan, che la saluta e la chiama per nome. Annamaria trattiene sempre il respiro per non piangere, o cadere. Lo guarda sbattere le palpebre e le sembra un accarezzarsi gli occhi: immagina la parte colorata, più morbida, e quella bianca, fredda e liscia.

Il disegno di Renzo che la maestra ha messo sul tavolo non è male, ha nove anni, e non colora più il cielo come una singola riga azzurra sul bordo alto del foglio; mentre quello di Lucia è davvero brutto. Annamaria non è turbata per questo, ma perché le è parso di distinguere in quelle forme sgraziate l’imitazione incomprensibile di un volantino che Lucia deve aver trovato in camera tra le cose sue – un segreto nascosto sotto le mutande e i calzini. Nessuno però sembra aver notato quella che è una figura femminile a capo di una folla rivoltosa, forse perché è stata solo una sua impressione, oppure, per fortuna, Lucia non sa ancora disegnare e probabilmente non ne sarà mai capace.
“Ma è brava in matematica”, la rincuora la maestra che ha visto Annamaria impensierirsi di fronte al disegno.
“E poi – aggiunge – bisogna tenere conto che avendo solo tre dita questo è un ottimo risultato, anzi, forse non dovrei dirlo, ma disegna molto meglio di Gonzalo, che ne ha quattro di dita”.
Annamaria tenta di far finta che questo la conforti e ci riesce, la maestra ritira i disegni.
“Stai bene?”, le chiede il marito.
“È solo l’occhio”, dice Annamaria prendendo il collirio dalla borsetta e applicandolo nell’occhio che rischiava di seccarsi. Sente il riflesso morto di una palpebra che non ha mai avuto e le sembra strano. Sarà il pensiero di Juan e dei suoi occhi verdi.
“Devi fare attenzione”, le dice il marito che le strofina una mano sulla gamba.
Sì, ha ragione, pensa Annamaria, dovrà stare più attenta ora che i bambini crescono.

D’improvviso la maestra scoppia a ridere e Annamaria non capisce, non stava seguendo. Il marito deve aver fatto una battuta come ogni volta in cui vuole smorzare un clima di tensione. Annamaria va in bagno, li lascia parlare, ridere: la maestra, le è sembrato, nel silenzio dei suoi pensieri, non rideva ma era come se piangesse con i denti di fuori. La lingua pendeva mollemente dal palato su una mandibola fatta solo di denti.
Guardandosi allo specchio, Annamaria pensa a quand’era giovane e bella nel Settantasette. Aveva dimenticato l’esistenza di quel volantino che la ritraeva con il petto scoperto e che, chissà come, Lucia era riuscita a trovare.
Annamaria si trucca l’occhio già truccato per darsi un tono davanti a quella maestrina che non sa niente se non quello che le hanno insegnato. Ripensa alle grandi vie delle città percorse dai manifestanti, le madri con le pance piene contro la legge. Nessuno sembra ricordarsi più – eppure sono passati solo vent’anni – che dal monte soprannominato Taigeto, fuori città, dove ora costruiscono ville lussuose e sorge anche un ospedale, la polizia eugenetica gettava i neonati che non erano permessi oltre il numero di due a famiglia o perché nati deformi – come la maggior parte. E pensare che tutto era iniziato da quell’intervento statale per il miglioramento fisico della specie: una legge che doveva risolvere le deformità causate da secoli di riproduzione sregolata. La chiamavano “responsabilità verso i propri figli”, come uno slogan per la promozione della raccolta differenziata dei rifiuti.

Era ancora una ragazza Annamaria, quando aveva visto i suoi genitori guardarsi imbarazzati dopo aver aperto una lettera che scioglieva ciò che il loro dio – o il sindaco – aveva unito. Una nuova legge sull’incesto aveva allargato la sua definizione fino al decimo grado, sciogliendo incoscienti matrimoni come il loro, che avevano scoperto così di essere cugini di nono.
Annamaria lo sa che i libri avrebbero dimenticato in ogni caso Stefano, José, Carlo e tutti gli altri nomi di coloro che insieme a lei avevano urlato e scopato nelle piazze fino a perdere il fiato. Ma lei non deve dimenticare. Si erano tutti uccisi dopo che la polizia li aveva arrestati e castrati, avrebbero preso anche Annamaria se un portone non si fosse aperto magicamente e lei non si fosse chiusa all’interno. L’avrebbero operata, buttato le sue ovaie in un cestino come si fa con le interiora degli animali fuori dai ristoranti. E ora non sarebbe qui, in una scuola affollata proprio grazie a lei e a suo marito, che non ha mai capito bene il motivo di tutte quelle provette che ha fatto così tanta fatica a riempire – e lei che aveva inventato strane perversioni erotiche che la facevano morire dal ridere.
Ma ecco che una lacrima le rovina di nuovo il trucco ripensando al piccolo Juan, e a quando una volta la madre di lui li aveva visti andare mano nella mano, come due fidanzati. Annamaria gli aveva dato un bacio sull’occhio – aveva trovato il coraggio – e la madre, furiosa, dopo aver spinto via Juan con una mano, con l’altra aveva indicato Annamaria e le aveva detto minacciosamente “I figli sono di chi li nutre”.
Anche di chi li fa, pensa ora Annamaria che, seria, torna in classe. La maestra sta dicendo qualcosa ai bambini, ma non le interessa. Sfiora la mano chiusa in un pugno del marito, l’avvolge e infilandoci due o tre volte il dito dentro gli fa capire che vuole scopare.
Se nascerà un bambino bello come Juan, lo prenderà per mano. Sarà suo e, se proveranno a toglierglielo, Annamaria farà allora portare via tutti i bambini della città, svelando quello che è il segreto di tutti. Annamaria sarà l’uomo nero, la matrigna crudele, la strega che ti prende e ti rapisce, la cattiva di tutte le fiabe che hanno rischiato di scomparire per mancanza di pubblico.

gaia inserviente

Il colloquio è finito e la maestra un po’ impacciata si ostina a usare la mano destra per salutare, anche se è finta e deve tenerla su con l’altra mano. Poi i bambini chiedono ancora qualcosa e la maestra sorride, scompiglia loro i capelli e dice di non preoccuparsi. Annamaria chiede di ripetere, non ha sentito.
“Ma niente, ho forse sbagliato a dire ai bambini che questa settimana ci sarà un controllo generale a scuola per prelevare il sangue.”
“Il sangue?”, ripete il marito preoccupato.
“Oh no, niente di grave”, dice la maestra con un sorriso orribile.
Copre la bocca per non farsi sentire dai bambini e aggiunge: “è solo un controllo per vedere i progressi genetici della 37b, m’hanno detto”.
“Ah”, fa il marito, sorridendo rincuorato, mentre ad Annamaria, invece, si gela il sangue.
“Che hai mamma?”, chiede Lucia strattonandole la gonna.
Annamaria scuote la testa, per dire di non preoccuparsi, e accarezza la testa ai due bambini. Ma improvvisamente cade per terra. Le manca il fiato e si tocca la pancia per sentire se dentro è tutto ancora al suo posto. La scopriranno. E ai bambini, invece, che cosa faranno? D’istinto alza le braccia, come per prenderli e portarli a sé. Piange, e tutti la guardano stupiti. Il marito, non sapendo che fare, le porge dolcemente il collirio.
La vista di Annamaria si offusca e il parlare di tutti diventa pian piano un lieve ronzio. È come se Annamaria stesse per addormentarsi e sognare, o per cadere in un brutto incubo, un cielo nero in cui si accorge d’un tratto di volare incerta sopra una scopa.
Sotto di lei vede la città spenta e addormentata, ma alcune luci sono ancora accese. Sono i bambini che ancora non dormono nonostante le raccomandazioni dei genitori. Annamaria si avvicina piano alla finestra delle camerette, per bussare, farsi aprire e convincere i bambini ancora svegli a seguirla in un posto lontano, dove potranno mangiare merendine confezionate e guardare cartoni animati tutto il giorno. Un luogo in cui non avere mai più paura del buio e dei mostri sotto il letto. Ma all’improvviso i genitori entrano nella stanza e lei è costretta a nascondersi. Hanno sentito dei rumori da fuori e sono venuti a controllare.
Annamaria ascolta incredula le fiabe che le madri raccontano su di lei, la strega che rapisce i bambini cattivi che non fanno i compiti o si lamentano per finire quel che hanno nel piatto. Raccomandano ai figli di fare silenzio quando vedono entrare nella stanza Annamaria la strega, stare ben nascosti sotto le coperte, chiudere gli occhi e addormentarsi, senza fare tante storie, altrimenti Annamaria…
Sì, proprio così dicono. E ad Annamaria, volando via, le si spezza il cuore a immaginare Juan farsi forza, e con un’ultima forchettata mangiare il cibo rimasto nel piatto, alzarsi, e finalmente poter andare a giocare.

Testo Lorenzo Zerbola
Illustrazione Gaia Inserviente

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