Una voce registrata dice flagello; Mishka pensa: è solo inverno. Una voce che viene dal televisore. La voce blatera, le immagini invece sono mute. La voce prova a seguire le immagini ma il loro nitore la lascia indietro. Le immagini guizzano in avanti, la loro bellezza è indescrivibile. Prima che le immagini lo rapiscano e lo trascinino con loro nel silenzio, Mishka spegne il televisore, va alla finestra. Un altro riquadro, un’altra cornice. Fuori la città sembra consistere solo nella distanza tra gli edifici. Mishka osserva il vuoto, i suoi piccoli occhi troppo vicini sprofondano nell’angustia dello spazio.
È lunedì, Mishka oggi non lavora. Riposare in questo giorno è come essere ricoverati in un immenso ospedale abbandonato. Mishka apre l’acqua in cucina, ascolta la scintilla del boiler che ticchetta, poi la fiamma che si accende con un soffio. Lava le tazze della colazione, la sua e quella di sua moglie. Sciacqua i biberon della notte. Si prepara un altro caffè. Resta in piedi nella cucina, in attesa che salga. Quando beve si scotta la lingua. Il bruciore gli ricorda che deve scrivere. Ma il tabacco è finito.
Appena mette piede in strada il vento gli fa perdere l’equilibrio, sui marciapiedi giacciono alcuni rami strappati, Mishka li scavalca con piccoli salti. La tabaccheria è sempre calda, deve esserci una stufa da qualche parte dietro il bancone. Sulla via del ritorno, le dita di Mishka in tasca stringono il pacchetto di tabacco, come un topolino morto. Passa davanti all’officina e alla rosticceria che ha aperto solo un anno fa. Gli affari non vanno. Presto dovranno rassegnarsi e abbassare la serranda per sempre. L’officina invece non ha problemi. Tutti hanno un’auto, tutte le auto prima o poi hanno un guasto. A volte, quando torna a tarda sera, Mishka si ferma a guardare il bagliore verdino al neon che arriva dall’officina ancora aperta. Là dentro si lavora in silenzio. È un’officina, ma di notte sembra lo studio di un pittore di nature morte. Un ragazzo è steso sotto una macchina di lusso. Di un altro si vedono solo le gambe, il resto è chino dentro la bocca di un cofano. Lavorare su un motore con questo freddo deve spaccare le mani.
Mishka apre il portone, attraversa l’androne, sale a piedi. Senza togliersi il cappotto si prepara una sigaretta, va allo scaffale dei libri non letti e prende l’antologia di un poeta che la moglie gli ha regalato per Natale. Mishka sa chi è quel poeta ma non lo ha mai letto. Piuttosto ha ascoltato, spesso senza saperlo, alcuni sui versi recitati nei film del figlio del poeta. In occidente il figlio regista è molto più famoso del padre poeta. Il figlio è morto a Parigi. Il padre è morto a Mosca il 27 maggio 1989, tre anni dopo il figlio, un giorno prima del terzo compleanno di Mishka. Il libro che Mishka tiene in mano è di dimensioni insolite, molto grande, bianco, con il profilo nero del poeta in copertina e il titolo in azzurro. Si tratta di un riferimento agli ultimi versi di una poesia dedicata a Grigory Skovoroda, filosofo e musicista, la cui ombra vagò a lungo per l’Ucraina profonda.
Ma donami il canto di un uccello
e la steppa, non so perché.
Forse che di là, giunta la mia ora,
alla luce di stelle tardive,
benedetto il mistero terreno,
potrò tornare al camposanto natio?
Nel cielo sopra i palazzi un corvo dalle ali ampie viene sballottato di qua e di là dal vento, mentre Mishka sente che nel petto qualcosa si stringe al suono di quell’ossimoro irregolare. Camposanto natio.
Gli viene in mente un film in cui un vecchio e un ragazzo camminano in un cimitero e il vecchio dice: “La vedi? Questa è la patria!”.
Sovrappensiero, si prepara un’altra sigaretta e resta ancora un po’ sul balcone a leggere. I testi del poeta sono belli. Ora Mishka vede apparire piccoli crepuscoli, poi scheletri invernali, scatoline di inchiostro che vengono aperte nella sera da mani sottili, botole piene dei canti della storia. Le visioni si susseguono per un po’, poi Mishka rientra in casa. Si siede alla scrivania davanti alla finestra. Apre il file del lavoro, il testo che sta scrivendo ormai da… Mishka non ricorda. Per un’ora legge e corregge le ultime pagine. Non può ancora sapere se sono buone. Conserva il dubbio sulle pagine come lo custodisce sugli uomini, siano vivi o morti, parlino o no la sua lingua. Guarda l’orologio, ha solo due ore prima che la moglie torni a casa. In due ore si può scrivere, ma si può anche non farlo, perché due ore sono un tempo davvero breve. Accende di nuovo il televisore, regola il volume al minimo, inizia a scrivere, sente che sarà una giornata proficua.
Mentre Mishka crede di fare tutto questo, in tutta questa immobilità, un uomo percorre il ponte della ferrovia.
Nessuno lo conosce. Cosa ci fa in giro? Vecchio com’è non sarebbe dovuto uscire di casa, non avrebbe dovuto lasciare la sua stanza, non avrebbe dovuto affrontare un viaggio così lungo. Arranca, sorretto da una stampella che fa le veci della gamba amputata. Sotto di lui le rotaie tracciano miseri sentieri bruni.
Arriva alla fine del ponte e si ferma per riprendere fiato. Si rimette in marcia. Ha la faccia stanca, scavata come una fossa. Il trench verde pesante con il collo sollevato, ben stretto sotto le costole da una cinghia, svolazza nel vento. Sui risvolti del cappotto porta due decorazioni, entrambe ossidate. Il cappuccio gli copre la testa. Ogni cinque passi la stampella manca la presa e scappa sull’asfalto.
Forse è arrivato in pullman, oppure in automobile, dopo un infinito viaggio tra montagne, valli, pianure industriali, ha lambito le città d’Europa e i piccoli villaggi. Ieri o l’altro ieri deve essersi fermato a San Galgano e a Bagno Vignoni, per piangere, e stamattina è arrivato a Roma.
Ha abbandonato la macchina all’ombra di un garage in periferia e si è messo a camminare. Su quante “case senza gli inquilini” deve aver messo gli occhi per poi subito distoglierli e tornare a guardare davanti a sé?
Oppure non c’è stata nessuna automobile. L’uomo semplicemente è apparso senza neppure averlo desiderato, per un miracolo o per un esorcismo, una negromanzia, una tristezza senza fondo dal cui silenzio all’improvviso si sono sentiti salire i passi e i tocchi della stampella, sempre più vicini, fino a quando la figura è emersa intera sul ciglio, all’imboccatura del ponte ricurvo o sulla soglia di una casetta allagata.
Nonostante gli occhi orientali e il viso lontanamente mongolo, i negozianti che lo vedono passare davanti alle loro vetrine illuminate lo scambiano per uno di loro, un caduto in disgrazia, un padre separato che non può permettersi altro che una camera ammobiliata e che ogni mese provvede all’invio degli alimenti stabiliti dal tribunale. Quando può, aggiunge anche qualcosa. Spera che bastino. A ben guardare, c’è qualcosa di vero: il vecchio è un padre che vaga. Nel portafogli tiene due documenti ripiegati: uno dichiara Taras Podovka. Alcuni anni fa hanno messo la sua faccia sui francobolli da otto rubli e il vecchio ha pensato: devono essere pazzi.
Per un attimo Mishka interrompe la scrittura, torna alla finestra. Le cose non stanno andando come previsto. A volte, pensa Mishka, le immagini precedono le parole e non si lasciano raggiungere.
Una vecchia sul balcone, dall’altra parte del cortile, apre la bocca affinché fiocchi di neve invisibili vi cadano dentro.
Il vecchio ha raggiunto la stazione ferroviaria e schiaccia il naso contro il vetro di un gabbiotto del trasporto pubblico, al centro del grande capolinea degli autobus. Dentro c’è un uomo in divisa, addormentato. Il vecchio bussa, ma l’uomo non si sveglia. Poco più in là un gruppetto di zingari siede al riparo di una pensilina. Quando lo vedono avvicinarsi smettono di parlare. Una zingara gli chiede dei soldi. Il vecchio scuote appena il capo sotto il cappuccio. Distribuisce sigarette, ne dà anche ai bambini. Gli zingari gli fanno posto, il vecchio fuma in silenzio, mentre gli altri lo guardano con gli occhi come acque nere. Impiegano tutti moltissimo a finire le sigarette. Dopo aver spento la sua, il vecchio si fa indicare una direzione e se ne va. Attraversa l’intero piazzale dei capolinea, scivola dentro un portico pieno di ristoranti che servono il cibo di ieri. L’odore che soffia dalle bocche di scarico è nauseabondo. In venti minuti raggiunge un parco, un fatiscente giardino all’italiana. Si ferma un momento a guardare la porta magica sorretta dai due nani di pietra, prosegue. Deve scansarsi, quando l’uomo alla guida di un camioncino lavastrade gli fa segno che sta intralciando il passaggio. Il vecchio si scansa, barcolla, procede. Quello che vede lo abbaglia e non sa come registrarlo nella memoria. Una gelateria immensa, con decorazioni dorate e luci bianche. Un piccolo negozio dove giovani cinesi armeggiano con scatoline di plastica fluorescenti. Un giornalaio. Un alimentari polacco. Una concessionaria di auto di lusso con cinque vetrine che danno sulla strada. Dietro un cassonetto c’è un uomo che urina. Una macchina si ferma e dal finestrino una voce grida: vallo a mette n’bocca a tu madre, quella bocchinara!. Riparte a tutta velocità. Il vecchio, quasi stanco, non capisce cosa abbiano urlato da quella macchina, alza gli occhi e vede il grande incrocio. Ai piedi delle mura di pietra c’è un mercato di merce rubata. La mercanzia è disposta su coperte logore dispiegate sul marciapiede. Il vecchio si avvicina, si mischia ai plotoni di individui con facce da morti che vengono a tirare sul prezzo. Un oggetto attira la sua attenzione, si china, lo prende tra le dita e lo esamina. È una catenina di finto oro con una croce. Il vecchio vorrebbe comprarla, ma non ha soldi. Il venditore lo insulta e lo caccia via.
Mishka esce sul balcone della stanza da letto per fumare. Per un po’ se ne sta a contare gli occhi dell’albergo dall’altra parte della strada. È un palazzo alto e silenzioso, costruito negli anni Settanta. I caratteri cinesi dell’insegna sono farfalle trafitte da uno spillo. Suonano al citofono. Mishka spegne la sigaretta in un vaso e va a sentire chi è. Non risponde nessuno. Lancia un’occhiata alla fotografia del figlio del poeta che tiene appesa in soggiorno. Il figlio è seduto sulla sua sedia da regista con la scritta Сталкер. L’ultima volta che il figlio nomina il padre nei suoi diari è il 26 marzo 1986.
Ho sognato mio padre che conversava con Pasternak. È un brutto sogno. Devo telefonare a Mosca.
Mishka ora ha freddo. Le finestre sono vecchie, i vetri gelati. Mishka ora ha freddo per davvero, un freddo inspiegabile. Di tanto in tanto Mishka ha brutti presentimenti. Sua figlia è al nido, sta giocando con altri bambini. Lui non racconta mai a nessuno di quello che vede, o meglio intravede. Si ricorda che in dispensa c’è del tè. Il bricco è nel lavabo, sporco di latte. Lo pulisce, versa l’acqua, accende il fornello piccolo. C’è una cucina minima in una casa, dove un uomo di trentadue anni aspetta che l’acqua si scaldi. Nell’attesa de tè, legge qualche altra pagina del libro bianco, stavolta concentrandosi sull’appendice biografica.
Nel 1939 il poeta viene ricoverato per difterite all’ospedale Botkin di Leningrado, dove condividerà la stanza con un altro ammalato di nome Dmitrij Šostakovič.
Nell’estate del 1941, a Mosca, il poeta e Marina Cvetaeva trovano rifugio nello stesso bunker antiaereo e vi passano la notte. La mattina si separano e non si rivedranno più.
Per combattere il freddo, nell’inverno del 1942, Elena Čajkovskaja bruciò nella stufa i quattromila volumi della biblioteca del poeta, mentre lui non era in casa.
Torna a sedersi ma non può più scrivere. Prova a telefonare a un amico per sentire una voce umana, ma l’amico non risponde. Allora Mishka spegne il computer, si rimette il cappotto ed esce di nuovo, fa dieci metri ed entra nel bar di Gerardo. Cinque o sei clienti abituali stanno a un tavolo accanto alle slot e non lo guardano neanche. Mishka si siede su uno sgabello alto, chiede una birra, anche se non è ancora mezzogiorno.
Quando Mishka è a metà della bevuta, la porta si apre, una sbuffata di freddo si introduce nel bar e subito dietro di lei entra un vecchio bardato fino agli occhi. Si tiene in piedi grazie a una stampella di alluminio. Gerardo non fa in tempo a dirgli buongiorno che quello attacca a cantare una canzone sguaiata in russo. È ubriaco e puzza di cadavere. Gli habitué alzano gli occhi e lo mandano affanculo, ma il vecchio non la smette, va avanti a cantare e sul suo volto, tra le rughe e le croste, iniziano a scendere grandi lacrime. Due degli habitué allora si alzano e lo trascinano fuori. Gli urlano di togliersi dal cazzo. Anche il vecchio si mette a urlare. Mishka si tappa le orecchie, ma le grida del vecchio non se ne vanno. Lo stanno riempiendo di botte e lui continua a gridare. Lo lasceranno morto sul marciapiede e torneranno dentro. Mishka si scola gli ultimi sorsi e lascia due monete sul bancone, esce proprio mentre i due habitué stanno rientrando. Il corpo del vecchio, rantolante, giace sul marciapiede. Mishka lo scavalca. Dalla sua bocca viene fuori una frase incomprensibile. Qualcosa su un’immagine perduta, qualcosa sull’anima che è immortale.
Testo Luciano Funetta
Illustrazioni Spiove