Editoriale

 

La spazzatura
fenomenologia del fetore

In fin dei conti è stato inevitabile. A nessuno è venuto in mente di buttare la spazzatura, e la spazzatura ha cominciato a puzzare. E quando l’odore è diventato insopportabile non c’è stato più nulla da fare. Quel rigetto nauseante si era già impadronito di tutto. Le pareti, gli angoli, i conati della brava gente.

Inutile aprire le finestre, permettere all’aria fresca di riconquistare centimetri. La puzza dilagava nelle strade e non faceva prigionieri. Ormai la zona era compromessa: si salvava il possibile, ma il possibile era a sua volta uno scarto raschiato dalla spazzatura.
Non restava altro da fare che traslocare. Più in alto, dove l’aria tornava a essere respirabile.
In fondo bastava aggiungere un piano, abbandonare la spazzatura in quella che prima era casa e adesso è cantina. Una città sopra la città, eretta su abbondanti dosi di cemento armato e su memorie sufficientemente morbide per essere scavate.

Poi si traccia una linea e si dice Fin qui, e tu che sei spazzatura te ne rimani buono buono lì, perché qui ci siamo noi e sarebbe meglio che ognuno restasse nel suo spazio, altrimenti ecco che si ricomincia da capo.

La mattina li senti scalpicciare come ghiri incastrati nel sottotetto. Pestano i talloni, affaticano le gambe, sovraccaricano i muscoli di nevrosi. Le tempie ti rimbombano della loro puntualità, dei loro preziosi minuti offerti in pegno alle bocche dei mezzi pubblici, immolati negli ingorghi autostradali.
La città che ridicolizza minuziosamente ogni piccolo gesto, moltiplica in scale triliardarie innocenti abitudini, nel grottesco dilagante, nel sistematico invito al carnevale osceno di code davanti alle biglietterie.
Ridicoli voi, ridicoli noi, quaggiù, spazzatura da passeggio, pellagra rampicante e contagiosa. Ciondoliamo spersi  in questo ventre odoroso, l’orfano contaminato che avete partorito e abbandonato senza il pudore di uccidere.
C’avete nascosto il sole, avete borseggiato l’aria buona, ma la vostra pietà è la colpa più grande.

Lo sanno tutti. La spazzatura va incenerita. Altrimenti non smetterà di puzzare.

La sentinella ficca una sigaretta in bocca e tuffa una mano nella tasca del giaccone. Rovista per un po’, cerca qualcosa, non trova.
Sputa copiosamente e bestemmia fra i denti, alla fine alza il braccio in direzione della torretta più vicina, la numero sei.
Il pollice va su e giù fino a quando l’altra vedetta non dà cenno d’aver inteso.
“Vieni tu”, dice.
La sentinella sbuffa. Sul ponte tira un vento mortifero che latra dappertutto. Fucile in spalla s’incammina verso l’altra torretta. Le raffiche beffarde stuzzicano il bavero e le maniche della giacca.
Soltanto vento sul ponte, e i passi infastiditi dell’uomo. La solita notte di sigarette e raffreddori a presidio di un ponte che nessuno si sogna di varcare.

Adesso la sentinella fumerà con il collega, scambierà qualche battuta di circostanza sul tempo e l’umidità infame, poi guarderà per un po’ le torrette distribuite lungo il perimetro del ponte, rigide una dopo l’altra, le osserverà prendere colore fino a quando non sarà ora di tornare a casa.

Nel frattempo una figura bluastra appostata nella boscaglia sarà strisciata via dal suo nascondiglio e avrà già approfittato della distrazione delle due sentinelle. Non ci è dato sapere quanto tempo sia durata l’attesa – se ore, o giorni, o mesi – ma il momento è giunto, e la figura si è incuneata come un’infezione nel territorio negato.
L’Inquieto

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