“Francesca – chiama una voce oltre la porta – Francesca. Facci entrare”.
Francesca trema e ha il fiatone. È seduta per terra, la schiena contro la porta della sua stanza. Indossa un camice bianco aperto sulla schiena. Si strofina le mani sulle braccia, cercando di scaldarsi.
“Francesca”, dice la voce calma, gentile “Ci dispiace molto di averti spaventato.”
Francesca trema e ha il fiatone. È seduta per terra, la schiena contro la porta della sua stanza. Indossa un camice bianco aperto sulla schiena. Si strofina le mani sulle braccia, cercando di scaldarsi.
“Francesca”, dice la voce calma, gentile “Ci dispiace molto di averti spaventato.”
La sua stanza è come l’ha lasciata: piena di peluche. Francesca non li vede da cinque anni, ma ricorda ancora tutti i loro nomi. Ci sono anche tante foto di Giulia, la sua migliore amica. Francesca non le vuole guardare.
“Abbiamo posto il quesito all’Alveare – dice la voce oltre la porta – e abbiamo raggiunto il consenso. Ti spiegheremo tutto da capo”.
Francesca si strofina le gambe nude. Mentre scappava gli facevano male, ora sono insensibili e rigide. Non riuscirebbe più a correre, anche se avesse un posto dove andare. Guarda le sue gambe e si stupisce della loro lunghezza. Che il seno gli fosse cresciuto si era accorta, ma delle gambe non si era resa conto. Deve essere diventata veramente alta. Si chiede per un secondo se sia più alta di Giulia, ora. Mentre scappava non ci ha fatto caso.
“Dopotutto – continua la voce calma dall’altra parte della porta – sei uscita dal coma da poco, e deve essere tutto così diverso per te. E poi, non siamo più molto sicuri di come funzioni un cervello Isolato. Forse non ci siamo spiegati bene”.
Francesca, scalza, si guarda le piante dei piedi. Sono nere. Un sassolino scuro, conficcato nel piede, le fa male.
“Mamma”, dice.
“Piccola mia – continua la voce oltre la porta – Non preoccuparti. Adesso ti rispieghiamo tutto”.
“Quando la macchina ti colpì l’Alveare non era ancora nato, ma c’era già un uso diffuso e quasi continuo di social media. Facebook. Twitter. Rifletti, Francesca, eravamo già molto vicini all’Alveare. Facemmo il salto con Dittgenstein. Dittgenstein era un neurologo americano, giovane, bravo, esperto di informatica. All’epoca era un ragazzo, si era appena laureato. Dittgenstein ha raccontato che stava camminando e guardando il suo cellulare, così non vide un palo e ci sbattè la testa contro. Racconta che toccandosi il bernoccolo, pensò: Se voglio essere collegato con il resto del mondo, devo proprio guardare uno schermo?. Si inventò allora un piccolo chip, che le persone potevano inserirsi sotto la pelle, qui, appena sotto l’orecchio, che gli permetteva di stare collegati a internet sempre, e lo chiamò l’Ape, tutto il sistema lo chiamò Alveare. Capisci, Francesca? Le persone andavano a lavoro, o a scuola, ma una piccola parte del loro cervello continuava a interagire con il tutto il mondo. Grazie ai motori di ricerca dell’Alveare, qualsiasi informazione diventava immediatamente disponibile. E, soprattutto, quando si aveva un dubbio e non si sapeva cosa fare, si cominciava a porre il quesito all’Alveare. Quando si pone una domanda all’Alveare, Francesca, centinaia di migliaia di persone dibattono il tuo problema, condividono informazioni, valutano pro e contro, e infine raggiungono un consenso. Questo sistema è ormai così esteso che i governi non esistono più, Francesca. Tutte le decisioni le prende l’Alveare, e poi sono semplicemente messe in pratica dalle persone. I governi erano troppi lenti.
Sai Francesca, in questo momento politologi, sociologi, e madri di famiglia in tutto il mondo stanno discutendo di te, Francesca, cercando il modo migliore di gestire la tua situazione, e quella di chi, come te, non ha ancora preso parte all’Alveare. Sei un po’ un caso di studio, e potresti influenzare la scelta finale dell’Alveare. Sette miliardi novecentomilatrecentoquattro persone ci stanno seguendo in diretta. Sei famosa, piccola mia.”
“Non chiamarmi così! – gli grida contro Francesca, stringendosi la testa tra le mani – Non chiamarmi così!”
“…Francesca, so che sei spaventata. Sappiamo che il tentativo di Giulia di impiantarti l’Ape ti ha molto turbata. Giulia è qui, ed è molto dispiaciuta. Giulia. Per favore.”
“Mi dispiace, Francesca. Volevo… Volevo solo che vedessi il mondo come lo vediamo noi.”
“Francesca, devi capire. L’Alveare è diventato qualcosa che nessuno si sarebbe potuto mai immaginare. Quando i cervelli vennero collegati, questi iniziarono a comportarsi come neuroni di un unico, grande cervello, in grado di affrontare e risolvere problemi troppo complessi per una singola persona.
E poi, poi ci fu l’idea di Josè Hernandez. Josè era un quindicenne messicano. Una volta si ritrovò tra le mani un libro chiamato L’Intelligenza Emotiva. Leggendo quel libro Josè imparò che c’è una parte del cervello molto antica, chiamata amigdala, che è preposta a gestire le nostre emozioni. Ne rimase molto colpito. E così chiese all’Alveare: ‘Cosa succederebbe se collegassimo l’Ape all’Amigdala?’
Francesca, quello che successe dopo fu incredibile. Considera che ormai erano direttamente collegati all’Alveare il 92.4% della popolazione mondiale. I ricchi bambini americani si trovarono così a provare la fame dei piccoli esuli afghani. Il combattente israeliano provò il dolore del padre palestinese a cui un missile aveva distrutto la casa e strappato il figlio. Le signore ricoperte di gioielli provarono sulla propria pelle l’addestramento dei bambini soldato in Africa Centrale.
Io stavo stirando, quando successe. Guardando la televisione. E all’improvviso, sentii le emozioni della vecchia signora del piano di sopra, ti ricordi? Quella antipatica che si lamentava sempre della televisione alta. Sentii tutta la sua solitudine, e come questa diventava rabbia. Posai il ferro sulla mia gonna preferita. La bruciai, ma non mi importava. Erano ormai passati quasi sette anni da quando tuo padre ci aveva lasciate. Non potevo ignorarla, quella solitudine, non quando la sentivo anch’io, così forte. Uscii di casa. Credo che lasciai la porta aperta. Salii le scale. Feci per suonare alla porta della signora di sopra, ma non ce ne fu bisogno.
La vecchia signora mi aprì. Mi guardava e piangeva. Scoppiai a piangere anche io e la abbracciai. Non so quanto rimanemmo così. Puzzava, ma non mi importava.
Dopo aver pianto tutte le nostre lacrime, scendemmo le scale insieme, mano nella mano, e andammo in strada. Francesca, immagino che tu abbia intravisto qualcosa, mentre correvi qui dall’ospedale, così forse ti puoi fare un’idea di cosa trovai.
C’era gente che faceva l’amore ovunque, nelle strade. È incredibile fare l’amore con l’Ape collegata all’Amigdala, Francesca. Il piacere entra in risonanza tra gli amanti e si moltiplica fino a diventare quasi insostenibile. Ricordo che nel giardinetto vicino casa nostra, c’erano due ragazzi, due maschi, che stavano facendo l’amore con una tenerezza incredibile, e tutto intorno a loro c’era un gruppetto di persone con il naso all’insù e l’espressione estatica. Tramite l’Ape stavano godendo anche loro del loro piacere. Vidi anche il prete, tra loro.
Poi un gruppetto di ragazzi si avvicinò a noi, e abbracciò la vecchia signora. Erano stati attirati dal suo dolore, che splendeva nero nell’Alveare. La presero e la portarono via. Tramite l’Alveare la seguii: la portarono nella casa di uno di loro, la lavarono, le diedero vestiti puliti e la ricoprirono di attenzione, e la ascoltarono parlare, per ore, e le asciugarono le lacrime con fazzoletti di cotone.
Rimasta sola, io ebbi all’improvviso la voglia di essere in un posto alto. Così camminai fino ad arrivare alla collinetta. Incontrai un vecchio attore, in piedi su una sedia, che stava recitando. L’Alveare mi disse che stava recitando Shakespeare. Seduti attorno a lui c’erano dei ragazzini di dodici anni, a bocca aperta. Una ragazza piangeva. Arrivai alla collinetta, la scalai, e rimasi in piedi, in cima, con ancora indosso il mio grembiule. E lì sopra, sentii. Sentii tutto. Arrivano ondate di dolore, e ondate di gioia, e di consolazione, e piansi, perché compresi che non sarei mai più stata sola. Capisci, adesso? Capisci, piccola mia?”
“Non mi chiamare così! Tu non sei mia madre! Tu non parli come parla Mamma! Mamma non parla così.”
“…Francesca, devi capire. Io sono molto cambiata. Essere continuamente esposta a tutte queste emozioni, e a tutte queste informazioni, ti… cambia. Ti ricordi come ero subito dopo che tuo padre se ne era andato? Bevevo, Francesca, te ne eri accorta? Compravo il liquore per i dolci per non dovermi vergognare con la cassiera. L’unica cosa che leggevo erano quei giornalacci di pettegolezzi. Ho scoperto così tanto, da allora. Mi piacciono le poesie, specialmente dell’America Latina. Lavoro in un teatro, adesso, mi occupo di scenografia. In questo periodo mi sto vedendo con un signore nordafricano e con una ragazza poco più grande di te. Alle volte usciamo tutti e tre insieme. Faccio uso controllato di allucinogeni con la signora del piano di sopra. E non avrei fatto tutto questo se non fosse stato per… Aspetta… Francesca. Ascoltami. L’Alveare ha deciso. Ascoltami, Francesca. L’Alveare è arrivato alla conclusione che sa che cosa è meglio per le persone che non ne fanno ancora parte. Che siete come bambini, che non sapete cosa vi fa bene. La decisione si sta già applicando. In questo momento, stanno iniziando l’inserimento forzato dell’Ape allo 0,4 della popolazione ancora non collegato. Francesca, spostati. Stiamo per buttare giù la porta. Stiamo per inserirti l’Ape.”
“Mamma, ti prego. Non voglio.”
“Non ha più importanza, piccola mia.”
“Abbiamo posto il quesito all’Alveare – dice la voce oltre la porta – e abbiamo raggiunto il consenso. Ti spiegheremo tutto da capo”.
Francesca si strofina le gambe nude. Mentre scappava gli facevano male, ora sono insensibili e rigide. Non riuscirebbe più a correre, anche se avesse un posto dove andare. Guarda le sue gambe e si stupisce della loro lunghezza. Che il seno gli fosse cresciuto si era accorta, ma delle gambe non si era resa conto. Deve essere diventata veramente alta. Si chiede per un secondo se sia più alta di Giulia, ora. Mentre scappava non ci ha fatto caso.
“Dopotutto – continua la voce calma dall’altra parte della porta – sei uscita dal coma da poco, e deve essere tutto così diverso per te. E poi, non siamo più molto sicuri di come funzioni un cervello Isolato. Forse non ci siamo spiegati bene”.
Francesca, scalza, si guarda le piante dei piedi. Sono nere. Un sassolino scuro, conficcato nel piede, le fa male.
“Mamma”, dice.
“Piccola mia – continua la voce oltre la porta – Non preoccuparti. Adesso ti rispieghiamo tutto”.
“Quando la macchina ti colpì l’Alveare non era ancora nato, ma c’era già un uso diffuso e quasi continuo di social media. Facebook. Twitter. Rifletti, Francesca, eravamo già molto vicini all’Alveare. Facemmo il salto con Dittgenstein. Dittgenstein era un neurologo americano, giovane, bravo, esperto di informatica. All’epoca era un ragazzo, si era appena laureato. Dittgenstein ha raccontato che stava camminando e guardando il suo cellulare, così non vide un palo e ci sbattè la testa contro. Racconta che toccandosi il bernoccolo, pensò: Se voglio essere collegato con il resto del mondo, devo proprio guardare uno schermo?. Si inventò allora un piccolo chip, che le persone potevano inserirsi sotto la pelle, qui, appena sotto l’orecchio, che gli permetteva di stare collegati a internet sempre, e lo chiamò l’Ape, tutto il sistema lo chiamò Alveare. Capisci, Francesca? Le persone andavano a lavoro, o a scuola, ma una piccola parte del loro cervello continuava a interagire con il tutto il mondo. Grazie ai motori di ricerca dell’Alveare, qualsiasi informazione diventava immediatamente disponibile. E, soprattutto, quando si aveva un dubbio e non si sapeva cosa fare, si cominciava a porre il quesito all’Alveare. Quando si pone una domanda all’Alveare, Francesca, centinaia di migliaia di persone dibattono il tuo problema, condividono informazioni, valutano pro e contro, e infine raggiungono un consenso. Questo sistema è ormai così esteso che i governi non esistono più, Francesca. Tutte le decisioni le prende l’Alveare, e poi sono semplicemente messe in pratica dalle persone. I governi erano troppi lenti.
Sai Francesca, in questo momento politologi, sociologi, e madri di famiglia in tutto il mondo stanno discutendo di te, Francesca, cercando il modo migliore di gestire la tua situazione, e quella di chi, come te, non ha ancora preso parte all’Alveare. Sei un po’ un caso di studio, e potresti influenzare la scelta finale dell’Alveare. Sette miliardi novecentomilatrecentoquattro persone ci stanno seguendo in diretta. Sei famosa, piccola mia.”
“Non chiamarmi così! – gli grida contro Francesca, stringendosi la testa tra le mani – Non chiamarmi così!”
“…Francesca, so che sei spaventata. Sappiamo che il tentativo di Giulia di impiantarti l’Ape ti ha molto turbata. Giulia è qui, ed è molto dispiaciuta. Giulia. Per favore.”
“Mi dispiace, Francesca. Volevo… Volevo solo che vedessi il mondo come lo vediamo noi.”
“Francesca, devi capire. L’Alveare è diventato qualcosa che nessuno si sarebbe potuto mai immaginare. Quando i cervelli vennero collegati, questi iniziarono a comportarsi come neuroni di un unico, grande cervello, in grado di affrontare e risolvere problemi troppo complessi per una singola persona.
E poi, poi ci fu l’idea di Josè Hernandez. Josè era un quindicenne messicano. Una volta si ritrovò tra le mani un libro chiamato L’Intelligenza Emotiva. Leggendo quel libro Josè imparò che c’è una parte del cervello molto antica, chiamata amigdala, che è preposta a gestire le nostre emozioni. Ne rimase molto colpito. E così chiese all’Alveare: ‘Cosa succederebbe se collegassimo l’Ape all’Amigdala?’
Francesca, quello che successe dopo fu incredibile. Considera che ormai erano direttamente collegati all’Alveare il 92.4% della popolazione mondiale. I ricchi bambini americani si trovarono così a provare la fame dei piccoli esuli afghani. Il combattente israeliano provò il dolore del padre palestinese a cui un missile aveva distrutto la casa e strappato il figlio. Le signore ricoperte di gioielli provarono sulla propria pelle l’addestramento dei bambini soldato in Africa Centrale.
Io stavo stirando, quando successe. Guardando la televisione. E all’improvviso, sentii le emozioni della vecchia signora del piano di sopra, ti ricordi? Quella antipatica che si lamentava sempre della televisione alta. Sentii tutta la sua solitudine, e come questa diventava rabbia. Posai il ferro sulla mia gonna preferita. La bruciai, ma non mi importava. Erano ormai passati quasi sette anni da quando tuo padre ci aveva lasciate. Non potevo ignorarla, quella solitudine, non quando la sentivo anch’io, così forte. Uscii di casa. Credo che lasciai la porta aperta. Salii le scale. Feci per suonare alla porta della signora di sopra, ma non ce ne fu bisogno.
La vecchia signora mi aprì. Mi guardava e piangeva. Scoppiai a piangere anche io e la abbracciai. Non so quanto rimanemmo così. Puzzava, ma non mi importava.
Dopo aver pianto tutte le nostre lacrime, scendemmo le scale insieme, mano nella mano, e andammo in strada. Francesca, immagino che tu abbia intravisto qualcosa, mentre correvi qui dall’ospedale, così forse ti puoi fare un’idea di cosa trovai.
C’era gente che faceva l’amore ovunque, nelle strade. È incredibile fare l’amore con l’Ape collegata all’Amigdala, Francesca. Il piacere entra in risonanza tra gli amanti e si moltiplica fino a diventare quasi insostenibile. Ricordo che nel giardinetto vicino casa nostra, c’erano due ragazzi, due maschi, che stavano facendo l’amore con una tenerezza incredibile, e tutto intorno a loro c’era un gruppetto di persone con il naso all’insù e l’espressione estatica. Tramite l’Ape stavano godendo anche loro del loro piacere. Vidi anche il prete, tra loro.
Poi un gruppetto di ragazzi si avvicinò a noi, e abbracciò la vecchia signora. Erano stati attirati dal suo dolore, che splendeva nero nell’Alveare. La presero e la portarono via. Tramite l’Alveare la seguii: la portarono nella casa di uno di loro, la lavarono, le diedero vestiti puliti e la ricoprirono di attenzione, e la ascoltarono parlare, per ore, e le asciugarono le lacrime con fazzoletti di cotone.
Rimasta sola, io ebbi all’improvviso la voglia di essere in un posto alto. Così camminai fino ad arrivare alla collinetta. Incontrai un vecchio attore, in piedi su una sedia, che stava recitando. L’Alveare mi disse che stava recitando Shakespeare. Seduti attorno a lui c’erano dei ragazzini di dodici anni, a bocca aperta. Una ragazza piangeva. Arrivai alla collinetta, la scalai, e rimasi in piedi, in cima, con ancora indosso il mio grembiule. E lì sopra, sentii. Sentii tutto. Arrivano ondate di dolore, e ondate di gioia, e di consolazione, e piansi, perché compresi che non sarei mai più stata sola. Capisci, adesso? Capisci, piccola mia?”
“Non mi chiamare così! Tu non sei mia madre! Tu non parli come parla Mamma! Mamma non parla così.”
“…Francesca, devi capire. Io sono molto cambiata. Essere continuamente esposta a tutte queste emozioni, e a tutte queste informazioni, ti… cambia. Ti ricordi come ero subito dopo che tuo padre se ne era andato? Bevevo, Francesca, te ne eri accorta? Compravo il liquore per i dolci per non dovermi vergognare con la cassiera. L’unica cosa che leggevo erano quei giornalacci di pettegolezzi. Ho scoperto così tanto, da allora. Mi piacciono le poesie, specialmente dell’America Latina. Lavoro in un teatro, adesso, mi occupo di scenografia. In questo periodo mi sto vedendo con un signore nordafricano e con una ragazza poco più grande di te. Alle volte usciamo tutti e tre insieme. Faccio uso controllato di allucinogeni con la signora del piano di sopra. E non avrei fatto tutto questo se non fosse stato per… Aspetta… Francesca. Ascoltami. L’Alveare ha deciso. Ascoltami, Francesca. L’Alveare è arrivato alla conclusione che sa che cosa è meglio per le persone che non ne fanno ancora parte. Che siete come bambini, che non sapete cosa vi fa bene. La decisione si sta già applicando. In questo momento, stanno iniziando l’inserimento forzato dell’Ape allo 0,4 della popolazione ancora non collegato. Francesca, spostati. Stiamo per buttare giù la porta. Stiamo per inserirti l’Ape.”
“Mamma, ti prego. Non voglio.”
“Non ha più importanza, piccola mia.”
Testo: Stefano Pellegrini
Immagini: Alessio “Alect” Piccini