Antica smorfia napoletana
In tutta onestà non saprei dire se a bruciarmi fosse la notizia che mi dava o la vaga richiesta di un aiuto in danari: stavolta voleva fare le cose in grande, finanche il viaggio che a causa mia aveva mancato nel matrimonio con mia madre. Era chiaro come una cartolina che la mia imprudenza di allora dava corda agli obblighi di oggi, e non credo mi andasse a genio.
Lì di certo non attaccai i manifesti riguardo i fuochi tardivi comparsi nella vita di mio padre. Ma non ero stupido, e capivo che quando il discorso girava su di lui, o qualcuno lo teneva ad esempio, in realtà c’era un senso nascosto, come un doppio fondo di valigia. In tutto ciò mio padre era rimasto uguale (a parte i capelli che gli erano rispuntati neri sulla testa), e nonostante quella volta gliele avessi predicate a colori, continuava a tenermi a giorno con certe telefonate lunghe e penose che lasciavo soprattutto a mia moglie. Un giorno poi ci invitò a cena, me e Laura.
Finsi di non sapere: né dove si trovasse la casa, né chi fosse la donna che viveva con mio padre. Invece ero andato a spiarli una sera sul tardi, dopo che in pasticceria avevo preparato i lieviti per il giorno dopo. Sapevo che alla fine s’erano sposati solo in chiesa, per mettere le cose in ordine davanti a Dio, e degli uomini se n’erano altamente fregati: Viola non aveva perso la bussola per mio padre al punto da rischiare la reversibilità del marito. Di lei sapevo che era una vegetariana convinta. Pochi giorni prima della cena aveva chiamato Laura per informarsi sui miei gusti e quando aveva sentito che sarebbe andato bene qualcosa di leggero, qualsiasi cosa, magari carni bianche aveva infilato un gridolino nell’apparecchio, come se le avessimo chiesto di padellarci un cane. Questa cosa mi aveva insuolato ancora di più i pensieri: in pasticceria presi una delle torte congelate dal freezer e me la feci incartare a festa. Proprio non mi venne in mente di chiamare Viola per sentire che gusto preferiva.
Mio padre s’avvicinò alla parete, prese una matita grossa e cominciò a fare dei segni che all’inizio non capivo. Prima un semicerchio, poi col pastello corse in avanti, allungò il tratto e tornò indietro; tirò veloce verso il basso e poi risalendo disegnò qualcosa che già assomigliava a una pancia. Furono le orecchie, forse troppo grandi che mi fecero capire. Mi accostai anch’io, presi una matita in una busta appesa a un cavalletto e feci la mia parte. Quando mia moglie e Viola vennero a vedere ci trovarono lì, in silenzio, che disegnavamo sulla parete ancora fresca di pittura. E anche se la cena era pronta e forse in tavola, noi andammo avanti. A un certo punto mi voltai e vidi Laura che sorrideva con gli stessi occhi di quando le avevo raccontato il sogno. Fu allora che abbassai le braccia e feci qualche passo indietro per guardare meglio la parete, poi senza dire niente andai a lavarmi le mani.
Certe volte mi viene il pensiero che siccome adesso sono vecchio anch’io, potrei decidermi a dire a Laura la verità sul mio elefante, ma poi mi chiedo a cosa serva: è sbagliato non avere segreti e ridursi come un salvadanaio vuoto, che lo scuoti e non manda rumore.