Editoriale
Si trattava di un giochetto stupido, lo so, eppure a noi era sempre piaciuto. Si lanciava un dado, tutti assieme, così, il numero più alto vinceva. In caso di pari merito si continuava a lanciare fino a quando uno dei partecipanti non aveva la meglio. Semplicissimo. Forse ci piaceva proprio per questo: nessun merito, nessuna abilità, nessuna strategia, soltanto fortuna. Impossibile recriminare al cospetto di un sano colpetto di fondo schiena. Ma questo lo dico adesso, ai tempi non stavamo troppo a rimuginarci su, preferivamo tirare e stare a vedere quale faccia ci avrebbe mostrato il dado.
Non era nostra abitudine scommettere forte. Se capitava, il più delle volte a causa di un bicchiere di troppo, lo facevamo per dare uno scossone a una serata particolarmente insignificante. In fin dei conti eravamo consapevoli che rimaneva tutto fra noi: ciò che perdevi al bar una sera lo recuperavi al bar la sera successiva, e viceversa.
Non saprei dire cosa ci prese quella notte. Forse la presenza di uno sconosciuto all’interno della nostra innocente dimensione di gioco ci dette alla testa.
Lo notammo per caso, laggiù, seduto a un tavolo in fondo al locale. Nessuno lo aveva visto entrare.
Un tipo strano, deforme, dal colorito poco incoraggiante. Ciucciava un whisky con i suoi dentacci guasti, completamente immerso in un blando solitario.
Quella sera vincevo bene. I dadi mi mostravano sempre il loro volto sorridente e io ero un po’ su di giri. Lo notai nel bel mezzo di una partita. Fra un lancio e un altro non riuscivo a smettere di fissarlo. Un doppio 6 e un 5 mi regalarono l’ennesima partita. Andai verso il bancone per ordinare un altro giro. Mi venne spontaneo avvicinarlo.
Gli altri ridacchiavano increduli, non capivano dove volessi andare a parare. Mi sa che ero soltanto un po’ stufo, e che forse avrei fatto meglio a filare a casa.
E invece eccomi lì, ad approcciare il tipo più strano che abbia mai incontrato e a sfidarlo a dadi, convinto di risolvere la serata spennando il primo poveraccio capitato sotto tiro.
Ammetto che rimasi sorpreso quando, senza battere ciglio, si alzò e si unì ai nostri, senza nemmeno sapere a cosa stessimo per giocare.
Ci radunammo tutti attorno al tavolo più grande del bar, serrando le ginocchia per far posto ai partecipanti, nove persone in tutto. Qualcuno smozzicò un paio di battute che ricaddero subito nel silenzio. Già dai primi lanci si faceva sul serio, non si giocava più.
Subito un doppio sei e un quattro, poi mi salvai dalla seconda scrematura con un mediocre triplo quattro, uno di quei turni in cui vieni graziato dal mucchio: qualcuno peggiore all’inizio c’è sempre. Il tizio macinò numeri alti senza fare grandi complimenti. La fortuna del principiante, pensai.
Nessuno si fece scrupoli ad alzare la posta ogni volta che giungeva il momento di puntare, sembravamo indemoniati, i classici giocatori terminali che potrebbero affollare i bassifondi al piano di sotto.
A conclusione del quinto turno eravamo rimasti in quattro: io, il tizio, mio suocero e un altro nostro amico.
Mio suocero si congedò con un tre e un miserabile doppio uno. Eravamo rimasti in tre, ma io ero concentrato solo sullo sconosciuto. Non riusciva a smettere di calare cinque e sei, presentandosi sempre con punteggi appena superiori dei miei.
Il terzo incomodo venne fatto fuori da una sciagurata combinazione due-tre-quattro. Ci spartimmo la posta. Restavamo solo noi due. Gli altri mi davano pacche sulle spalle, mi incoraggiarono con frasi sempre più aggressive nei confronti del mio sfidante, dal canto suo completamente indifferente a tutto ciò che gli accadeva intorno. Pareva ci stesse facendo un favore. Beveva whiskey, e lanciava quando c’era da lanciare.
Quello che accadde, quel gesto inconsulto che mi porto ad afferrare il portafogli, ad aprirlo, e a estrarre dal suo interno tutto ciò che avevo, ancora non mi risulta perfettamente chiaro. Nei giorni seguenti descrissi il mio stato psichico come soggiogato da una sorta di “ipnosi” ma, considerate le facce che fecero coloro che mi stavano ascoltando, decisi di piantarle e iniziai a liquidarlo come un semplice colpo di testa, una di quelle sciocchezza che almeno una volta nella vita capita di combinare.
Quello che accadde, quel gesto inconsulto che mi porto ad afferrare il portafogli, ad aprirlo, e a estrarre dal suo interno tutto ciò che avevo, ancora non mi risulta perfettamente chiaro. Nei giorni seguenti descrissi il mio stato psichico come soggiogato da una sorta di “ipnosi” ma, considerate le facce che fecero coloro che mi stavano ascoltando, decisi di piantarle e iniziai a liquidarlo come un semplice colpo di testa, una di quelle sciocchezza che almeno una volta nella vita capita di combinare.
Da queste parti la povertà è stata messa al bando da un pezzo, se hai problemi devi spostarti al piano di sotto, però le banconote che avevo messo sul tavolo erano un bel gruzzolo anche per me, tre mesi buoni del mio stipendio. Chiusi gli occhi e scaraventai i dadi sul tavolo: due sei e un quattro. Mi morsi la lingua dal sollievo.
Lui prese i dadi in mano e forse fu allora che mi guardò negli occhi per la prima volta.
Adesso è facile parlare. Mia moglie me lo ripete in continuazione. È stato mio suocero a spifferarle tutto. Al mio ritorno a casa non dissi niente, non una parola sull’episodio. Non mi andava.
La verità è che nessuno di noi si era accorto di nulla, almeno fino a quando non abbiamo trovato i dadi abbandonati sul tavolo. A me sembrò più una minaccia che un affronto. Non saprei spiegare che tipo di minaccia. Ricordo solo che presi in mano questi sei dadi – tre con sei facce da cinque e altri tre con sei facce da sei – e rabbrividii appena.
Da allora non ho più toccato un dado.
L’Inquieto