Da qualche anno abito a S., un borgo aggrappolato sullo stinco dell’Italia: stringhe di tornanti che accalappiano il terreno franabile scortandolo fino alla cima. Di simili paesi – e ce ne sono tanti a concorrere con un conglomerato rampante com’è il nostro – è pieno il territorio nazionale e sono oramai ridotti a una brancata di cittadini irredenti immolati all’imperituro ordine delle loro origini. Stavo marchiando una ragnatela sul gomito di un mio cliente quando quello si è messo a parlarmi degli incentivi statali per il ripopolamento dei paesi fantasma vittime dell’erosione del tessuto socio-economico o, come nel caso di S., delle scosse di assestamento che continuano a prodursi nella memoria collettiva quale riflesso di un emiballismo dell’anima. Già convinto dell’ottima decisione che avrebbe finalmente rivoluzionato la qualità della mia molle vita, mi informai sulle direttive e ne parlai a Annaluce, la mia compagna.
“È la nostra occasione”, le dissi.
Ci avrebbero assegnato una casa nel centro storico a patto che accettassi il lavoro che mi avrebbero proposto e che generassimo un nuovo abitante di S.
Non sapendo come Annaluce avrebbe accolto questa possibilità, mi ero preparato una serie di argomentazioni a cui neanch’io credevo, ma a quel punto l’istinto di sopravvivenza mi portava ad accettare un compromesso tutto sommato sano e che forse mi avrebbe addirittura riconciliato alla mia stessa esistenza.
Sorprendendomi, Annaluce rispose semplicemente: “Che problema c’è? I figli si fanno quando ci sono le condizioni per metterli al mondo”.
Effettivamente realizzai che non ci eravamo mai esposti sulla questione per via della vita che conducevamo e il desiderio di moltiplicare il nostro amore si stava manifestando per la prima volta nel momento in cui le nostre preoccupazioni sul futuro venivano placate da una certezza.
Dopo un mese in cui facemmo l’amore tutte le notti nella nostra nuova dimora, io e Annaluce ci sposammo nella chiesa di Sant’Andrea, decidendo che questo sarebbe stato il nome di nostro figlio indipendentemente dal sesso. Il comune, analizzando i miei documenti, stabilì quale lavoro affidarmi; e un giorno mi fece recapitare la comunicazione nella cassetta della posta: SMALTIMENTO LIBRI AL MACERO. Non avevo idea di come questo lavoro si svolgesse ma, fiducioso delle abilità trasformiste infusemi dal precariato, mi avventurai nell’impresa.

Mentre uscivo di casa, pronto per il mio primo giorno di lavoro, Annaluce mi sistemò lo zuccotto sulle tempie adocchiandomi come un bambino che al principio della scuola sta per salire su un trabiccolo dal quale potrà scendere solo in età pensionabile, poi sorrise posando una mano sul grembo e con l’altra mi incoraggiò ad avviarmi. Mi recai all’indirizzo che mi era stato indicato con una specie di mappa su cui erano segnati riferimenti utili all’orientamento: un paio di castagneti da lasciarsi alle spalle, un ruscello da costeggiare, qualche rudere sparso, che mi avrebbero portato al culmine della montagna dove avrei trovato un casolare trecentesco. Non mi sarei potuto sbagliare, mi avevano assicurato.
Giunsi di fronte a un cancello impiantato tra pruni e sterpi, dove ebbi appena il tempo di fermarmi ad ascoltare il mio rantolo cittadino mischiarsi a uno sfrigolio d’acque lontane e al verso di qualche animale selvatico, quando dal profilo del confine privato venne ad accogliermi galoppando un clamoroso cane pezzato più simile a un ovino che a un lupoide.
“Non s’entra là! – mi intimò una voce di cui non riuscii a individuare la fonte – Fa’l giro ’sta parte!”.
Costeggiai la rete perimetrale ritrovandomi infine faccia a faccia con un grande uomo imbrattato come un meccanico, con una morsa frenava il cane per il collare.
“Di là s’a lo scarico – mi disse – da quest’arte s’al macero. Segui Bodoni, pren’gli attrezzi”. Bodoni si mise a segnare il territorio con spruzzi di urina ogni tre zompetti assicurandosi che lo stessi seguendo, mentre io lo assecondavo pur guardandomi attorno per apprendere l’appezzamento che risultava in ogni direzione berninianamente trascurato e nobile nella sua decadenza.
Rallentai all’altezza del casolare dove l’uomo, appoggiato con il coccige a un muretto, stava infilandosi un paio di lunghi cosciali attempati. Avanzò nella mia direzione con ampie falcate, racchettando su una coppia di robuste fiocine, infine guardò i miei anfibi.
“Che lavoro’cevi prima?”
“L’ultimo lavoro che ho fatto è stato il tatuatore ma ho una laurea all’Accademia di Belle Arti.”
Fece una smorfia indecifrabile.
“Ho fatto tanti altri lavori. Ho anche lavorato in una libreria.”
Si arrestò un attimo sul posto.
“Ti piacci libri?”
“Moltissimo! Non potrei vivere senza.”
Replicò la smorfia e compresi che avrei dovuto decifrarla in breve tempo.
“Si fortunato. Se’n uomo libero: se muori n’danneggi nessuno.”
Mi lanciò una fiocina da afferrare al volo.
“Ma se un giorno mi trov’ dentr’sta pozza prima che’l lavoro sia finito, e sappi’n finirà mai, nessun figlio ti farà avvert’il senso del dovere quant’st’impiego.”
Con una spallata spinse su un binario arrugginito un pesante cancello che ricollegava il giardino al retro dell’appezzamento verso cui Bodoni si fiondò belando.
Avanzammo una decina di metri prima di trovarci di fronte a una parete di papiri esplosi come fuochi artificiali, fitti come una foresta di bambù, in cui l’uomo iniziò a inoltrarsi facendomi strada. Quando posò l’ultimo passo oltre la vegetazione spuntai da dietro alle sue spalle: una palude ellittica, cupa come lo Stige ma limpida in superficie. Gorgheggiava una nenia trionfale, una rapsodia cosmica. Rabbrividii. L’uomo sorrise per la prima volta.
“Sursum corda!”, sbottò sollevando la fiocina come uno scettro e si immerse fino alle ginocchia nel liquido denso forchettando il fondale che a ogni colpo smuoveva una nebulosa oscura come la previsione di un temporale.
Lo imitai. Il fondale era un pantano su cui faticavo a tenermi in equilibrio. L’uomo si muoveva con disinvoltura in ogni direzione e Bodoni saltellava come uno stambecco, cercando di stanare qualche ombra sotto il pelo dell’acqua. Cercai di addentare un po’ di materiale con la fiocina e portai a galla una manciata di pagine, bianche e flosce come la cera, che ricaddero in un tuffo schizzandomi di strisce nere.
Andammo avanti così per ore, io non avevo il coraggio di domandare niente anche se iniziavo a sentire la pelle delle gambe squamarsi sopra i muscoli irrigiditi e il terreno vibrare sotto i piedi, finché l’uomo riemerse dall’acqua ricoperto di straccetti di carta e gocciolante di inchiostro.
Spalancai la bocca afono: una raffica di volatili striduli gli ricoprirono la superficie del corpo becchettandolo, senza scomporsi quello si tirò fuori dalla laguna.
Il sole stava calando. Una pioggerellina ci lavò dal corpo l’inchiostro che andò a depositarsi in chiazze brune sul limo circostante. I papiri vibrarono intirizziti.

Prima di andarmene l’uomo si era raccomandato di procurarmi una muta per evitare di ridurmi a una pezza come quel primo giorno.
“Qui non sia’na biblioteca”, ci aveva tenuto a ricordare, sebbene di libri ce ne fossero in gran quantità.
Nel tragitto per tornare a casa sentivo il residuo dell’adrenalina contrapporsi al desiderio di assorbirmi nell’abbraccio di mia moglie, la calma del bosco mi tratteneva a indugiare a ogni passo.
“Una palude nel bosco! – mi ritrovai a pensare guardandomi attorno – Certo che di lavori ne ho fatti nella vita, ma questo!”.
Mi sentivo euforico e intorpidito. Eppure non mi era sembrato che l’uomo utilizzasse agenti chimici per accelerare lo smaltimento. Allungai il percorso per godere del paesaggio immacolato che mi circondava: non avevo nessuna fretta, solo il calare del buio poteva rappresentare un pericolo poiché non avevo ancora memoria del percorso che presto mi sarebbe divenuto familiare, ma in confronto al ricordo del traffico, dell’inquinamento acustico e dei pilastri di cemento che avevano mortificato la mia vita precedente, nulla in quel momento mi faceva paura. Un passo dopo l’altro arrivai a casa.

Annaluce aveva preparato una minestra di patate e verze che riempiva l’appartamento di un calore commovente, mi sembrava già di vedere Andrea sbrodolarsi sul seggiolone a capotavola.
“È vero che c’è un uomo che si mangia le parole? Come ti ha accolto? Dicono che c’è un luogo inaccessibile, ci posso venire una volta? Come si svolge il lavoro? Ti è piaciuto? Tu ci abiteresti lassù? Non è che ti ammali a quell’altezza? È vero che l’aria lassù fa girare la testa? Dicono che è il punto più alto della montagna da cui si vede tutta l’Italia a forma di stivale. Io non ci credo” mi interrogò impetuosa Annaluce.
Posai il cucchiaio nel piatto, tamponai le labbra con il tovagliolo.
“È un lavoro – risposi masticando – come un altro”.
Temevo di intimorirla riferendole le parole mozze che il mio superiore mi aveva rivolto e tutto ciò a cui avevo assistito.
“Aldo, il mio supervisore, mi sembra un uomo assennato. Di poche parole ma di grande esperienza. Mettiamo i libri in ammollo nell’acqua finché non si sciolgono, come si fa da sempre.”
“Be’ se è così che si fa, ci sarà un motivo.”
“C’è sempre un motivo valido nelle antiche usanze.”
“Ma sei così sporco e umidiccio. Perché non ti fai un bel bagno caldo?”
L’idea di immergermi in una vasca colma d’acqua, devo ammettere, mi impressionò, eppure, accettando il consiglio di mia moglie, mi addormentai a mollo incredulo della mia nuova vita.

Fin dalle prime settimane io e Annaluce ci accorgemmo di come il tempo a nostra disposizione sembrava essersi moltiplicato: facevamo passeggiate, cucinavamo, ci guardavamo negli occhi. Sembravamo una coppia di neofidanzati e in paese ci trattavano come figli adottivi. Quando ci sedevamo ai tavolini del bar della piazza per bere un caffè o un bicchiere di vino, qualche paesano a turno veniva a presentarsi e durante le ore in cui io mi assentavo per lavorare Annaluce trascorreva il tempo con le vicine che, sapendo della sua gravidanza, la aiutavano nelle faccende quotidiane.

Nei mesi successivi il mio lavoro proseguì allo stesso modo: lo scarico dei libri era sempre più frequente, io dirigevo le manovre dei camion come un pastore: entravano dal cancello posteriore a retromarcia, sollevavano il rimorchio e lasciavano franare tonnellate di libri sul fondale della palude provocando uno tsunami di inchiostro. Erano duri a morire, bisognava trinciarli ripetutamente finché l’inchiostro si separava del tutto, creando una soluzione bifasica. Non mi ero mai azzardato a tuffarmi a perlustrare il fondale mentre Aldo continuava a sparire negli abissi della palude come un mostro marino e avevo l’impressione che il suolo vibrasse sempre più spesso.
Finché un giorno, a fine turno, mi rivolse la parola: “Non si accort’i niente?”.
Avevo sbagliato qualcosa? Lavoravo meccanicamente da mesi, è vero, forse mi era sfuggito qualche ordine. Mi aveva messo alla prova? Speravo solo che non mi facesse licenziare.
Mi passò un retino a maglia stretta, fitto come una maschera da scherma. Lui stesso si mise a setacciare l’acqua torbida. Raccolsi una manciata di materiale simile a un grumo di riso al nero di seppia. Aldo scolava e svuotava in una carriola e io facevo lo stesso; quando finimmo di raccogliere tutto il materiale, lo portammo al casolare.
Senza chiedere il mio aiuto, compì alcune operazioni all’interno dell’appartamento e infine mi invitò a entrare. La casa era illuminata da luci fioche che lasciavano intravedere una trascuratezza da campagna. Aldo posò due piatti colmi su un tavolo disordinato e mi fece accomodare.
“’st’è’l vero lavoro”, disse, e iniziò a grufolare nel piatto prelevando cucchiaiate di glifi unti e croccanti che frantumava con la prima digestione.
Agli esordi, quando zappettava con la forchetta tra le collinette di refusi per rispettare l’ordine alfabetico, il pasto durava ore, mi raccontò. Poi aveva iniziato a creare sequenze di senso compiuto che si divertiva a verificare rivolgendosi a Bodoni attraverso l’eruttazione. A-n-d-i-a-m-o-!-B-r-a-v-o.
Ma anni di rallentamenti causati da un invenduto massiccio lo avevano portato ad assumere un aiutante per smaltire gli scarichi accumulati sul retro, dove si spalanca la palude.
Con angoscia, mi spiegò che quando il terreno inizia a vibrare con una certa insistenza vuol dire che si stanno accumulando troppi refusi. Che, in passato, non c’è stato modo di smaltirli lasciandoli accumulare da qualche parte perché creano un campo magnetico che genera un ipocentro.
“Non ha’ bisogno ti spiegh’i conseguenze”.
Avevo quindi la responsabilità di tutte le vite circostanti? Non sapevo cosa dire. Sollevai il cucchiaio lentamente e iniziai a portare alla bocca quel cibo pericoloso.
“E p’ormai ho’n certa età, mi serve’n erede”, concluse.
Finì di ingoiare e spantofolò intorno al tavolo sputacchiando gocce di inchiostro mentre si produceva in una glossolalia alimentare. Con lo stecchino svincolava le grazie incastrate tra le fughe dei denti. Una virgola precipitò sul pavimento, Bodoni l’annusò per riconoscerla e la fece sparire con un colpo di lingua.

Testo Cristina Venneri
Illustrazione Maria Garzo

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