Il cuore mi batteva così forte da farmi credere che il sangue avrebbe spaccato le vene. I polmoni non riuscivano a gonfiarsi e gli occhi mi bruciavano, in tutto quel bianco. Lì dentro ogni cosa lo era. Bianca e precisa.
Ricordo il dolore, che ogni ora si faceva più pesante e mi schiacciava. Nei giorni buoni mi dicevo che sarebbe passato, in quelli cattivi che mi ci sarei dovuto abituare, mentre ogni notte finivo per rimpiangere quanto avevo provato il giorno prima.
Ricordo che ti guardavo, mentre eseguivi quello che tu chiamavi lavoro, ma che per me aveva il suono di una lunga morte. Ricordo la fame diventare grande, per poi farsi piccola e densa dentro la pancia, fino a quando non plasmava ogni mio pensiero e lo trasformava in un niente che finivo per ringraziare.
Ricordo i giorni che erano venuti prima, quando mi avevi scelto tra centinaia di altri miei simili, immerso nell’odore della pelle sudata, del piscio e della decomposizione di chi non ce l’aveva fatta a sopportare un altro domani. Eravamo così tanti da non riuscire a stenderci per riposare. Lo spazio si creava solo quando quelli che rinunciavano a vivere si accasciavano a occhi aperti negli angoli e rimanevano immobili, fino a quando non diventavano parte dello sfondo. Il mio odore si perdeva in mezzo a quello degli altri fino a sciogliersi e gocciolare sul pavimento di metallo. Lì dentro eravamo un’unica cosa tenuta assieme dalla paura.
Quel giorno toccò a me strisciare in fondo alla cella. Lo avevo deciso appena mi ero svegliato, ma tu decidesti che avrei avuto un altro destino. Avevi guardato uno foglio su cui c’era scritto un numero, avevi sorriso e avevi detto all’uomo che si occupava di sbarazzarsi dei morti che io ero quello giusto. Lui si era grattato un lato della testa, poi ti aveva guardata come se non capisse.
Avevi detto Duemilacinquecentosessantatrè, l’uomo dei morti aveva scosso la testa e tu avevi puntato il dito verso di me, fino quasi a toccarmi. Mi aveva sorpreso che non puzzassi e quel gesto mi aveva messo a disagio, perché la gentilezza è una delle prime cose che impari a dimenticare quando conosci solo le sbarre e la vita che ci sta dietro.
Non sapevo da dove venivo. Non avevo nulla con me, nemmeno il nome e, se anche ne avessi avuto uno, sarebbe finito disperso in mezzo a tutti i lamenti. Ero nudo, lurido, con gli occhi opachi e la bocca ricoperta di croste, eppure mi avevi scelto.
Ti eri chinata a guardarmi e avevi detto Tu vieni con me. Quelle quattro parole mi erano sembrate la più bella dichiarazione d’amore di tutta la mia vita. Quando ero uscito, mi ero voltato a guardare la massa di corpi dall’altra parte della gabbia. La pietà che avevo provato per loro era stata infinitamente più piccola del sollievo che mi aveva riempito mentre mi allontanavo da quello che, fino a quel momento, era stato il mio mondo. Mi avevi tirato fuori da lì e il mio primo pensiero era stato che non ti era importato che fossi sporco e puzzassi di morte e merda.
Avevo annusato l’aria. È questo l’odore della libertà, avevo detto. Non lo avevo chiesto: sapevo che era così, mentre case, alberi, lampioni, cartelloni pubblicitari, persone e colori, tantissimi colori, scorrevano dall’altra parte del finestrino del furgone. Ti avevo vista sorridere mentre lo ripetevo.
Sapevo anche che non saresti mai riuscita a imparare la mia lingua ma, se ero uscito da quella prigione, allora tutto era possibile. Continuavo a parlare e ridere, mentre guardavo il mondo scivolarmi davanti. Avevo bisogno di raccontare questa nuova vita, perché avevo paura che se non lo avessi fatto, ogni cosa sarebbe scomparsa. Tutto quello che accadeva fuori da quello che avevo creduto fosse l’inferno era così perfetta che i tutti i limiti erano diventati inconsistenti.
Grazie a te mi avevano dato cibo, acqua per lavarmi e bere, e uno spazio tutto per me. Ricordo che avevo trascorso un’ora intera a correre e saltare. Alla fine, con il cuore che mi batteva forte e le lacrime che mi scendevano dagli occhi, avevo gridato di gioia e tutti si erano voltati a guardarmi. Anche tu avevi sorriso e quella notte, per la prima volta, mi ero addormentato senza chiedermi se qualcuno mi avrebbe ammazzato nel sonno. Non feci incubi e persi il conto del tempo che trascorsi in quello stato di pace.
Poi venne quel giorno in cui mi portarono nell’altra stanza. Così grande che il soffitto e il pavimento si perdevano in un orizzonte lontanissimo. Quello spazio così grande e chiuso mi aveva terrorizzato. Quando avevi allungato la mano per prendermi e mettermi su un tavolo di metallo, mi ero rivoltato e ti avevo morsa. Ricordo come mi avevi guardato quando ti eri portata la mano davanti al volto e avevi osservato i buchi che i miei denti ti avevano lasciato sulla pelle. Erano quasi invisibili e, credimi, la sofferenza che avevo provato quando ti avevo inflitto quel dolore era stata mille volte superiore alla tua. Avevo avuto paura, era stato per quello che lo avevo fatto, ma tu non lo avevi capito. Avevo provato a chiederti scusa, ma ti eri rifiutata di ascoltarmi e ti eri allontanata. Ricordo la tua voce che si era fatta più fredda man mano che parlavi, fino a quando non avevi cominciato a usare parole che non conoscevo.
Mi avevi fatto prendere da qualcuno che non era te, come se d’un tratto ti avesse fatto schifo o paura toccarmi. Sì, paura, o disprezzo. Non l’ho mai capito. Poi mi avevi fatto mettere in una stanza piena di gabbie ed eri entrata, solo che non ti eri avvicinata sorridendo. Eri rimasta distante, con una mano stretta nell’altra. Mi ero aggrappato al pensiero che mi avessi fatto portare lì perché volevi calmarmi o curarmi da quella pazzia che mi aveva spinto a farti male. Avevo gridato che stavo meglio, che non era necessario che mi visitassero, che ti volevo bene perché mi avevi salvato e che quello di prima era stato solo un errore, uno stupidissimo errore. Qualsiasi cosa era perfetta fuori dall’inferno dal quale mi avevi liberato e io te ne ero grato, ma quel posto dove mi avevi portato ci assomigliava tanto e la paura mi aveva fatto sbagliare. Sapevo che mi avevi sentito mentre lo dicevo e sapevo che avevi scelto di non ascoltarmi.
Fu quello il giorno in cui imparai che la fiducia è molto peggio del dolore, perché distrugge ogni difesa.
Mi rifiutavo di credere che mi avessi gettato di nuovo in una prigione. Perché liberarmi per poi rinchiudermi ancora? Non aveva senso. Me lo ero ripetuto per ore dopo che te ne eri andata, mentre cercavo una spiegazione a quello che stava succedendo. Tornasti il giorno dopo o forse quello dopo ancora. Non c’erano finestre in quel posto e il tempo era scandito solo dai neon che venivano spenti e poi accesi. Il giorno e la notte erano artificiali, fatti da una mano e dal tick di un interruttore.
Quando ti rividi, ti chiamai e stavolta ti girasti verso di me. Indossavi un camice bianco e le tue mani erano coperte da guanti verdi. Ricordo bene quei colori, perché mi avevano fatto tornare in mente le piante e le nuvole che avevo visto dal furgone.
Quelli che seguirono furono giorni di dolore. Era diverso da quello che avevo patito prima di incontrarti. Questo era metodico, strutturato, finalizzato al compimento di uno scopo. Il male era solo un effetto collaterale prevedibile, ma inevitabile; un numero fisso nell’equazione dell’esperimento.
Eppure non fu la sofferenza fisica a farmi desiderare la morte, quanto la consapevolezza di essere stato separato per sempre dalla speranza. L’anima può sopportare una quantità di danni infinita, ma la speranza no e, quando muore, diventa una bocca che divora ogni altro sentimento.
Cominciarono le iniezioni. Sentivo le vene contorcersi, le ossa bruciare come se volessero fondersi. Quando mi abituavo a quel dolore, tu cambiavi procedura e mi iniettavi altro, che bruciava sotto la pelle, nelle vene e nella carne. Volevo solo lasciarmi morire, ma tu mi negavi anche questo, e mi infilavi tubi in gola e nella pancia che pompavano acqua e cibo. I giorni diventarono settimane, poi mesi, fino a quando smisi di sperare nella morte e quello che rimase di ciò che ero stato, fu solo un vuoto immenso, riempito unicamente dalla tua voce. Ti ascoltavo dire ai colleghi che l’esperimento era stato un successo e che le sue implicazioni avrebbero cambiato il corso della storia umana al di là di ogni previsione. Dicevi loro che sareste stati ricordati nei secoli come i nuovi dei. Fu in quei giorni che mi accorsi di riuscire a pensare molto più in fretta di prima e che ogni ferita, frattura, puntura che mi era stata inflitta guariva all’istante. Il dolore, invece, non passava. Era come se il mio corpo stesse reagendo in maniera esponenziale a ogni sensazione: la paura diventava terrore e la nostalgia per quelle poche ore di libertà che avevo vissuto, in angoscia disperata. Il mio corpo diventava invincibile, mentre la mente andava in pezzi.
Nessuno dei tuoi colleghi si preoccupava di quello che diceva davanti a me: credevano che non capissi le loro parole, oppure non importava loro affatto. Dopotutto ero solo una delle centinaia di cavie con le quali avevano avuto a che fare. Dicevano che la sperimentazione sugli altri soggetti non dava alcun risultato. Io ero stato solo un caso fortuito: nulla più di un tiro di dadi nel casinò degli dei. Dicevano tante cose su di te e ridevano mentre lo facevano, fino a quando non arrivavi tu. Allora smettevano, chinavano la testa e riprendevano a fingere di ascoltare i tuoi ordini. In quei momenti l’odore della loro paura era così forte che dovevo obbligarmi a respirare con la bocca per non vomitare, eppure non te ne accorgevi. Continuavi a ripetere che andava tutto bene, che avresti trovato la chiave per decifrare ciò che rendeva speciale il mio sangue e replicarne gli effetti anche sugli altri. I tuoi colleghi sorridevano quando parlavi, ma lo facevano solo con la bocca. I loro occhi sfuggivano sempre il tuo sguardo. Capivo cosa significava e mi sembrava impossibile che tu, così intelligente, non riuscissi a vedere l’ovvietà di quell’atteggiamento. Avevi perso il loro rispetto e per loro eri soltanto una fonte di imbarazzo e una minaccia alle loro carriere. Sembravi cieca a ogni cosa tranne che a te stessa, ma dall’esitazione dei tuoi gesti avevo capito che non ne eri più tanto sicura.
Ricordo il giorno in cui entrasti in laboratorio e dicesti che l’esperimento era concluso e che, nonostante i risultati, i fondi erano stati dirottati verso un’altra ricerca. Con un sorriso imbarazzato, dicesti che il lavoro di tutti sarebbe stato ricompensato. Nessuno disse nulla, e io vi osservai mentre cominciavate a riordinare provette e materiali, per sbarazzarvi alla svelta di quel fallimento.
Quando decidesti di sopprimermi, la morte mi venne somministrata nelle stesse vene che ti erano servite per togliermi l’anima. Non fosti tu a uccidermi, anche questa volta lo facesti fare a un altro, a uno qualsiasi.
Sentii l’ago entrare per l’ultima volta nel mio corpo e il veleno fermarmi prima i polmoni, poi il cuore. Fu così che morii, solo che dopo che l’ultimo brandello di luce artificiale mi si spense negli occhi, accadde qualcosa che né tu e nemmeno io avevamo previsto. Il dolore arrivò in un unico colpo. A quel tempo non sapevo cosa erano gli atomi, ma se ne fossi stato consapevole, avrei saputo identificare la sofferenza che era esplosa in ognuno di essi. Fu così che accadde: ero la più grande scoperta nell’intera storia della vita sul pianeta, ma mi svegliai dentro a un sacco, pronto per essere bruciato insieme agli altri fallimenti. Sballottato verso la fornace da un nastro trasportatore. Fu facile rosicchiarmi la libertà attraverso quella fossa di plastica nera e uscire dal laboratorio ormai pieno solo di gabbie deserte. La parte difficile fu accettare la solitudine che venne dopo, anno dopo anno, decennio dopo decennio, secolo dopo secolo, fino a quando anche il trascorrere del tempo cessò di avere importanza, perché ero rimasto l’unico essere vivente a testimoniarne l’esistenza.
Una volta uno di voi disse che solo i topi sarebbero sopravvissuti all’estinzione del genere umano e ora, che mi trovo a raccontare la mia vita all’ultima delle stelle morenti, a essere la memoria del mondo, non riesco a pensare a nient’altro che a quel momento in cui ogni traccia di umanità scomparve dai tuoi occhi e io, per te, tornai a essere solo cinque lettere e quattro numeri: ratto 2563.
Testo Filippo Tapparelli
Illustrazioni Bbraio