Si tormenta l’orlo della maglietta. Sbuca sotto il giubbetto imbottito. È una maglietta larga, gliel’hanno comprata apposta così, per poterci crescere dentro. La felpa non se l’è voluta mettere, gli mette caldo e poi comincia a sudare, e se comincia a sudare poi vuole aprire le finestre, ma se lo chiede gli altri si arrabbiano, e se gli altri si arrabbiano lo fanno sempre in coro, così scoppia un casino e finisce che a essere sgridato è lui, visto che è lui quello che ha caldo, invece di avere freddo, come gli altri, a dicembre.
Di solito non è contento, ma oggi un pochino lo è. Oggi è il suo compleanno, l’undicesimo. Stasera dovrebbe festeggiare con tre amici, una pizza e un film, non ha ancora deciso quale. Dovrebbe, non ne è sicuro. La mamma non è sicura che se la sia meritata, una festa. Glielo dirà a pranzo, dopo averci riflettuto.
“Allacciati la cintura, sbrigati.”
La voce di sua madre gli arriva tagliente come una folata d’aria gelida. È giovane, giovanissima. Non come le madri dei suoi compagni di scuola, che hanno già i capelli grigi, le rughe sulla faccia e le mani ruvide. La sua è magra, magrissima. Annota in un’agenda quello che mangia a pranzo e a cena, conta le calorie. Insieme alle amiche, al telefono, parla di proteine e diete low-carb. Ha la testa piena di ricci castani che profumano di shampoo e messa in piega, perché lei non si trascura, lei si vuole bene. Compra solo cosmetici coreani o giapponesi e alle dita, sottili, le lunette delle unghie disciplinate dalla manicure, indossa quattro anelli luccicanti, due a destra e due a sinistra.
Matteo obbedisce all’ingiunzione materna e si allaccia la cintura. Gli attraversa il busto come la fascia del sindaco nel giorno della vittoria elettorale, un anno fa.
Il sindaco è suo zio, è il fratello di mamma. Alla cerimonia d’insediamento in comune c’era anche lui. Era così elegante, con giacca e papillon, che quasi non lo si riconosceva. Per compensare non si era lavato le mani, rimaste sporche di terra da quando aveva invasato il ficus della nonna. Le aveva tenute nascoste in tasca per tutto il tempo e al buffet non aveva toccato niente. Non aveva fame.
La sala consiliare era affollata, giravano pure un sacco di fotografi, amici dello zio, che conosceva, e altri che non aveva mai visto prima. Hanno scattato un trilione di foto anche a lui e una è finita sul giornale della provincia.
La foto l’ha ritagliata e l’ha incollata nel suo diario, come gli hanno insegnato a fare le maestre, passando il tubetto di colla sui lati del rettangolo di carta, che siccome quella di giornale è fragile, ha dovuto fare attenzione, ma è stato bravo e non ha rotto niente.
Se sono in ritardo la colpa è di Matteo. Si sveglia lentamente e impiega venti minuti solo per fare colazione. Non sa mai come vestirsi. Uguale a suo padre.
Lena è già nervosa, anche lei ha un ritardo, di qualche giorno, e sta pensando a come dirlo ad Alessio. Mastica svelta un chewing-gum. Matteo osserva incantato il moto rotatorio della sua mandibola mentre lei ha la testa voltata per fare retromarcia.
L’auto è nuova – un regalo di Alessio per la sua principessa, aveva detto baciando Lena sulla bocca; Matteo li aveva guardati disgustato – ed è dotata di una telecamera posteriore, ma lei non si è ancora abituata a usarla; guardare avanti per vedere indietro le dà il capogiro.
Non abitano lontano dalla scuola, arriverebbero in orario anche rispettando i limiti di velocità, tuttavia Lena passa velocemente dalla terza alla quarta, poi alla quinta. In meno di dieci minuti sono davanti al cancello. Si volta verso il figlio e si produce in un sorriso tutto tendini.
“Fai il bravo, oggi, ricorda quello che ti ho detto. Sta’ lontano da Luca e tieni le mani al loro posto.”
Matteo annuisce.
“E mamma, allora, per questa sera…”
“Te l’ho già detto Matteo, quante volte te lo devo ripetere”, sbuffa lei.
Toglie gli occhi dai suoi e Matteo abbassa lo sguardo.
“Ci penso e te lo dico quando vengo a prenderti. Intanto tu fai il tuo dovere e comportati bene.”
Gli porge una guancia che sa di crema idratante, Matteo storce il naso quando ne sente il sapore sulle labbra, mischiato a quello del fondotinta. Apre la portiera e corre verso l’ingresso.
Luca. È nella sua classe dalla prima elementare. Gli hanno chiesto perché ce l’abbia tanto con lui. Glielo chiedono che lui è seduto su uno sgabello e tiene le mani premute sui jeans. Quando le toglie vede le impronte umide sul tessuto, così ce le rimette sopra, precise precise. Non ha niente contro Luca.
“Non ho niente contro di lui”, dice.
Non mente. Luca è uno che non gli sta simpatico, ma non gli è nemmeno antipatico.
“E allora perché…”, continuano a interrogarlo.
“Così”, risponde con un gesto definitivo, da fine della discussione.
Certe cose sono o non sono. Ottiene l’effetto sperato, però quello che segue non l’ha previsto.
“Hai fratelli, sorelle?”
Cosa c’entra questo, adesso. Sì, ho un fratello. Più piccolo? Più piccolo, otto anni. Sì, litighiamo, adesso un po’ meno, prima di più. Ma è lui che mi tira i pugni, tira di quei pugnetti che ti s’infilano tra le costole e fanno proprio male. La colpa la prendo sempre io, ovvio; sono il più grande.
“E in casa? Stai bene, in casa?”
“In che senso?”
Matteo artiglia i jeans. Si muove a disagio. Le due donne dietro la scrivania lo osservano. Un bolo caldo di latte e biscotti gli fa su e giù per l’esofago, vorrebbe tanto vomitare, proprio lì, ai piedi della psicologa e di quell’altra che non sa chi sia, una mora dalle guance tonde e dalla bella voce, calda. Deglutisce saliva acida, passa una mano sullo stomaco per calmare gli spasmi.
“Vuoi un bicchiere d’acqua? Ti senti bene?”
Annuisce, Matteo, vuole bere e sì, va tutto benissimo. Beve.
Passa il dorso della mano sulla bocca umida, sua madre non vuole, dice che è un gesto da cafoni, ma pazienza, sua madre non c’è e chi potrebbe andarglielo a riferire, che ha sbagliato ancora una volta, di sicuro non quelle lì, sono troppo concentrate sulla sua risposta, che non viene.
A Luca non ha fatto male, comunque. Innanzitutto, non è stato lui a cominciare. Ha solo detto che Luca non è bravo per niente, che non faccia tanto il santarellino, perché le combina grosse pure lui. E Luca s’è arrabbiato proprio, quando l’ha sentito. È molto permaloso. Gli si è fatto sotto a muso duro e gli ha sbattuto i libri sul banco, bam, bam, bam. Tre volte. Matteo mima il gesto, alza e abbassa le braccia con i pugni chiusi.
“E allora tu cosa hai fatto?”
“E allora io mi sono alzato e poi non mi ricordo.”
“Gli hai messo le mani al collo.”
“No! Cioè forse sì, non mi ricordo bene, ho detto. Può essere, ho alzato le mani per cacciarlo via. Però non gli ho fatto male!”
“Per fortuna.”
“Eh sì, sì, per fortuna.”
La psicologa, che si chiama Enrica, gli chiede se vuole un altro bicchiere d’acqua. Matteo beve d’un fiato, gli viene il singhiozzo. L’altra, quella dalla voce gentile, gli suggerisce di trattenere il respiro per un po’. Funziona.
Luca è seduto al banco da due ore, ma non ha ascoltato neppure mezza frase. Ha lo sguardo affossato di uno che ha voglia di mordere. Per trattenersi si tiene aggrappato al calorifero. Preferirebbe non andare più a scuola. Ogni giorno sul banco riempie un piccolo pozzetto di lacrime, che asciuga con i fazzoletti di carta. Ne ha una piccola scorta, in cartella. Sa che sono indispensabili, come i fogli protocollo e le penne Bic, nere e blu. I compagni, meno previdenti, se li dimenticano e infatti glieli chiedono spesso, in prestito, assicurano convinti. Gli promettono che glieli restituiranno, ma non lo fanno mai.
Secondo suo padre non ci si deve aspettare niente dal prossimo – gli piace questa parola, il prossimo – bisogna solo cercare di agire bene.
Luca vorrebbe essere buono come lui, ma non crede di esserlo, anche se va a messa di domenica e si confessa una volta al mese. Alla bontà ha cominciato a preferire la verità, gli riesce facile dirla. L’insegnante gli passa vicino e Luca si sforza di aprire il quaderno di matematica. Scrive la data, trascrive l’operazione e intanto guarda la sedia vuota di Matteo, che è fuori da mezz’ora. Stringe i denti. Con lui hanno già parlato.
Si è accorto di come fossero attente nel formulare le domande e commentare le sue risposte, poiché di solito gli adulti sono distratti, lo nota dal loro sguardo, rivolto verso l’interno. Enrica e l’assistente sociale, invece, lo stavano proprio fissando. Ha raccontato loro quello che è successo senza esitare, ripetendo il discorso che si era preparato a casa. Non è tipo da essere colto alla sprovvista.
Quando lo hanno lasciato andare, gli hanno detto che è un bambino molto maturo. Ha pensato alla banana rifilatagli da sua madre, la buccia gialla segnata da macchie marroncine. Matura è più dolce, lo ha rassicurato lei, con una carezza sulla testa.
Rosa, l’assistente sociale, ascolta Matteo. A guardarlo, non raggiunge i trenta chili, è tutto occhi e orecchie. Rigira tra il pollice e l’indice della mano destra un ciondolo di plastica a forma di dente di squalo.
Si chiede come possa non avere freddo, con addosso solo una maglietta di cotone. Il metabolismo dei bambini è prodigioso, si risponde pensando ai suoi, di figli, che ormai sono all’università e vivono lontano da lei, sopravvivendo con scatolette di tonno e pasta in bianco. Scuote la testa per concentrarsi di nuovo sul bambino. Le hanno riferito che vive una situazione familiare complicata.
“Chi è Alessio?”, gli chiede Enrica.
Matteo arriccia il labbro superiore: “Il compagno di mamma”.
“E ci vai d’accordo?”
Lo sgabello scricchiola sotto il sedere di Matteo.
“No, non tanto.”
“Ah, e per quale motivo?”
Il compagno di sua madre odora di fumo e dopobarba. Fa battute stupide e si aspetta che gli altri ridano. In effetti sua madre ride, e quando accade lui la odia.
Matteo rimane in silenzio, mentre Alessio lo guarda, attende che anche lui plauda con ammirazione alla sua ironia. Matteo ricambia alzando un poco il mento, è un gesto che innervosisce, lo sa per esperienza. Alessio molla la vita di Lena e gli si avvicina. È controllo prossimale.
“Hai fatto i compiti?”, Matteo dice di sì.
“Fammi controllare.”
Matteo si stringe le mani in grembo.
Alessio sfoglia le pagine del diario, poi quelle del quaderno. Lena esce, va a fare la spesa, pure se la dispensa è piena. In casa manca sempre qualcosa di fondamentale, qualcosa per cui si deve uscire per forza.
Il fruscìo della carta tra le dita grosse del patrigno sembra un lamento. Quando s’interrompe, Matteo si prepara, sta per passare i guai.
“Dove sono gli esercizi di inglese?”
Raschio di cucchiaio su fondo di tegame. Matteo fissa la fronte corta dell’uomo. Sente il suo calore invaderlo come un corpo estraneo. Incomincia a sudare, piccole perle gli incoronano l’attaccatura dei capelli e, una dopo l’altra, cominciano a scorrergli giù, lungo le guance.
“Che fai, piangi? Eh, stai piangendo ora?”
Viene preso per un braccio, scrollato coma una tovaglia piena di briciole. È trascinato fino al tavolo e obbligato a sedersi. A dirgli cosa fare sono le mani dell’altro. La sinistra cala pesante sulla sua nuca, gli abbassa la testa finché il naso si schiaccia contro il piano di legno. Una macchia di sugo si materializza sotto la pupilla destra di Matteo, probabilmente risale a qualche giorno fa. Da una settimana è costretto a mangiare solo riso bollito, perché soffre di frequenti mal di pancia. Lena lo ha portato dal dottore, il quale gli ha prescritto degli accertamenti – esami per la celiachia, ha chiarito la madre. Stanno ancora aspettando gli esiti, malgrado sappia, Matteo, che il suo problema non è il glutine.
Alessio ha il fiato che puzza di tabacco. Lo sente bene, visto che ha attaccato la bocca al suo orecchio. Matteo vorrebbe contorcersi per non avvertire il contatto, tuttavia rimane immobile. È diventato una cosa inerte. Alessio sibila qualcosa che Matteo non registra e gli stringe deciso i tendini della gamba destra. Un dolore acuto percorre all’istante la distanza che separa il bicipite femorale dalla tempia. Si morde la lingua. Non dice parola.
Dopo che l’uomo si è allontanato, imprecando in cerca di una birra, Matteo allunga un braccio per aprire la zip dell’astuccio e tirare fuori la penna. La consegna dell’esercizio 2, pagina 123, dice: Rispondi alle domande, sono dieci. La prima chiede: How are you?. Preme la punta della biro sulla carta riciclata del quaderno e verga in bella grafia: I am fine, thank you. Lena rientra proprio in quel momento, regge tra le braccia un sacchetto da cui estrae qualche arancia. Una le sfugge di mano e rotola fino ai piedi di Matteo.
Enrica e Rosa guardano il bambino inumidirsi le labbra, prendere fiato e poi restare in silenzio. Senza consultarsi, decidono che per il momento può bastare. Enrica lo accompagna davanti alla porta della sua classe, ma si dilegua rapidamente prima che i compagni la scorgano. Non vuole accrescere il disagio del ragazzino, ne ha già abbastanza. Nel frattempo, Rosa inserisce un nuovo appuntamento nel calendario del tablet.
È presto, sono appena le dieci. Il pranzo è già pronto: riso e merluzzo al forno per Matteo, spinaci al vapore e petto di pollo grigliato per lei. Dovrà solo riscaldare i piatti nel microonde.
Si è messa ai fornelli dopo avere lasciato i figli a scuola, così da avere abbastanza tempo per preparare la torta di compleanno. Lena si toglie le ciabatte scalciandole indietro, afferra una sedia e ci sale sopra. Allungandosi sulle punte dei piedi, raggiunge la mensola più alta della cucina, su cui ha sistemato le stoviglie che usa raramente, vecchi regali di nozze o cimeli di famiglia. Prende due bacinelle di ceramica, una più grande per gli ingredienti secchi e una più piccola per quelli liquidi. Pesa la farina con precisione, consultando la ricetta che la cugina Concetta le ha inviato con un messaggio.
Vuole ottenere un impasto morbido e spugnoso, simile a un pan di spagna, perciò monta gli albumi a parte, nella ciotola azzurra in cui sua madre le metteva il passato di verdura. Mescola con lentezza, da sotto in su e sempre nella stessa direzione. Tenersi impegnata le fa bene. È divertente e le impedisce di pensare al ciclo che non arriva.
Matteo sarà contento, di poter avere la sua festa. È un bambino con cui bisogna essere molto pazienti, non assomiglia a suo fratello, e Alessio fatica a controllarsi, certe volte.
Unge la teglia con una noce di burro, poi ci sparge sopra una manciata di farina. Versa l’impasto e dà piccoli colpetti ai lati della tortiera, per livellarlo meglio; inforna e imposta il timer. Il trucco, le ha spiegato Concetta, è congelare i mirtilli prima di amalgamarli al resto: “Congelarli è l’unica soluzione, Lena. Altrimenti quelli affondano”.
“È l’unica soluzione”, mormora, appoggiandosi al tavolo come se le gambe non la reggessero più.
Si riprende subito. Lava in fretta le mani e, senza nemmeno asciugarle, preda di una frenesia improvvisa, vaga di stanza in stanza per spalancare le finestre: inizia dalla cucina, passa al salotto e alle camere, finisce con il bagno. Si ricorda di abbassare il termostato al minimo per non far scattare il riscaldamento. Quando gli altri torneranno a casa, riflette, troveranno la temperatura giusta.
Lena si sdraia sul divano, coprendosi con un plaid. È soddisfatta. Nessuno di loro precipiterà sul fondo.
Testo Aurora Dell’Oro
Illustrazioni Alice Rossi