È pomeriggio. Col sole finito da poco. Pieno Inverno.
Pieno lo studio di vecchie che urlano che han fretta, han male, han da fare. Hanno tutte ragione di avercela con me. Perdo tempo con le ricette e le pressioni arteriose – la destra, la sinistra – così raddoppio gli attimi passati senza parlare.
Sono stanco e ammaccato. La testa mi scoppia e lo stomaco bestemmia con rutti silenziosi le tre aspirine prese di fila insieme all’acqua Lete.
La porta è socchiusa e l’ultima bronchite è uscita da almeno un minuto. Non se ne sono accorte, oppure hanno altro da fare anche loro, piuttosto che venire a smaniare a comando da me.
Finita non è finita. Lo sento che scalpitano.
Entra infatti una borsa di tela marrone con dietro una vecchia appassita. Ha capelli grigi sotto un basco da uomo, scarpe nere sfinite e un cappotto vecchio di panno, enorme per le quattro ossa che è la signora. Sotto il cappotto, un vestito leggero, celeste.
Invece di urlare buongiorno o buonasera – come le altre – sorride soltanto, mentre raggiunge la sedia davanti alla scrivania. Ha gli occhi viola e due seni che cascano morti dentro il vestito. Le mani sono smunte di freddo e coperte da una leggera peluria. È seduta da alcuni secondi e nemmeno una parola, questa santa. Sorride coprendosi la faccia con le mani, come fosse in preghiera.
Come state, rischio, ed è un bene, quello che sento nel sussurro. Poi un’occhiata dolce allo sfigmomanometro, per farsi capire. Che non è malata. È soltanto sola. E col freddo vuol misurare la pressione del cuore. Mi alzo, felice che non serva il computer e nemmeno troppa pazienza. Solo una stretta di laccio intorno al braccio, due numeri detti chiari: la minima, la massima. Mentre mi avvicino la donna si fa in piedi e si toglie il cappotto. E intorno è tutto un odore di armadio antico e aceto di mele. È smanicato il vestito celeste e le braccia che porge sono blu di freddo e lividi. Le metto il bracciale e inizio a stringere, a pompare l’aria perché si blocchi il sangue. La lancetta del mio aggeggio oscilla su e giù e la signora sospira piccole folate di alito pesante.
Da vicino, la sua pelle odora forte di barbabietola lessa. Nell’insieme gli odori hanno un qualcosa di familiare, sgradevole e conosciuto. Mi ricordano la casa dei miei nonni materni: un seminterrato quasi senza finestre, odoroso di pantofole sfondate, lesso rifatto con le cipolle e aceto per lavastoviglie. Più forte di tutti era l’afrore della pelle dei vecchi, specie se umida di sudore sotto le cento maglie di lana. Lo stesso puzzo di oggi.
Allora era il prezzo da pagare per stare al sicuro dai nonni, a leggere e guardare la tv delle casalinghe senza sentirmi un infame. Il nonno se ne accorgeva che respiravo malvolentieri la sua aria e, per non perdermi, aveva trovato uno stratagemma: oltre ad aprire i piccoli lucernari e fare entrare l’ossigeno freddo di fuori, mi circondava di piccoli piattini con polvere di caffè appena macinato che, a suo dire, mangiava gli odori. Poi si metteva con me a leggere la nostra rivista preferita – “Cronaca Vera” – piena di omicidi, prostitute e delinquenti in canottiera. “L’Unità” invece, che arrivava in abbonamento tutti i giorni, non l’apriva nemmeno, l’usava per incartare le verdure dell’orto o per far riprendere la forma alle scarpe dentro le scatole. Mi raccontava le cose sconce che aveva fatto in passato e quelle che avrebbe continuato a fare se avesse incontrato delle maiale come quelle della rivista. Mi faceva paura e mi faceva ridere. Soprattutto non mi faceva domande. Spesso restavamo in silenzio per ore immersi nelle pagine di “Cronaca Vera”. Non si preoccupava di cosa sapessi delle cose del sesso e non mi chiamava per farmi sbrigare quando, con una di quelle riviste, sparivo in bagno per ore. Non si stupiva e non domandava delle macchie appiccicose alle pagine con la biancheria da uomo nel grosso Postalmarket di nonna, e se lei o la mamma lo facevano, inventava una scusa per me.
Adesso, mio nonno non c’è più e non c’è nessuno a proteggermi dalle domande delle donne e dai cattivi odori della vecchiaia. Sono rimasto solo, come questa anziana signora, siamo io e questa befana con i peli alle mani, e siamo, più o meno, il medico e il paziente che, a vicenda, ci meritiamo.
Mi concentro per non vomitare: su i numeri e i rumori della circolazione.
Centoventi su settanta, sentenzio, volgendo lo sguardo altrove per prendere aria. Perfetta aggiungo, come se i numeri da soli non bastassero a convincere entrambi. Ne è contenta, dice, e sorrido di rimando.
Avete bisogno d’altro? mi affretto a domandare, come fossi il salumiere e questo camice non fosse solo un rimedio all’umido e alla polvere della poltrona. Fa cenno di sì col capo, si alza di nuovo, prendendo la borsa, ma lasciando sulla sedia il cappotto.
Mi indica con un dito la porta dell’altra stanza, quella per le visite vere, col lettino e il resto. Mi dice vieni, dandomi del tu, come a un bambino. Apre la porta che non ho mai aperto, scivola dentro il piccolo varco che si è guadagnata e sparisce oltre la parete, accostando veloce la porta dietro di sé.
Sarà la quinta volta che vengo in questo studio e non ho visitato nessuno, nessuno per intero.
Al massimo la gola di Tizio e le spalle di Caio, senza bisogno di farla tanto lunga, e senza mai lavarmi le mani. In fondo, non faccio che ricette. Quasi non mi alzo dalla sedia, preso come sono dall’essere indietro con lo stampare e il firmare. Richieste di esami, domande di ricoveri e certificati. Soprattutto certificati: di malattia per gli adulti che hanno un lavoro; di salute per i ragazzini che hanno una scuola; e di morte per chi non ha nulla da perdere e ha smesso di mentire.
So che nella stanza dove è entrata la vecchia c’è il lettino perché Irene me lo ha detto, forse me l’ha anche mostrato quando ci siamo conosciuti. Le aveva dato il mio numero un collega, dicendole che cercavo qualche lavoro extra, che ero bravo e che si poteva fidare. A me disse soltanto che lui non poteva più sostituirla, che era la mamma di Pasquale, un suo amico d’infanzia e che non la poteva lasciare nei guai. Aggiunse che era un po’ tirchia ma che me la sarei cavata.
È stato più o meno così, per una manciata di euro in tasca, che sono finito a giocare sul serio al dottore, per la prima volta in vita mia. E non potevo che iniziare da un posto di merda, un malandato studio di medicina generale a Barra, al piano ammezzato del civico 284 di corso Sirena: un posto dove non avrebbe dato troppo nell’occhio il mio non saper fare (o non volere fare).
In fondo Barra mi piace, sembra un paesino, sembra San Giorgio a Colonica, dove sono nato. È un antico comune che è stato mangiato dalla città, come molti paesi o comuni d’Italia. Se poi la città in questione è Napoli, è solo un po’ peggio.
A volte mi convinco di essere nato qui, di non essermi mai mosso.Bastano larghe strade di collegamento, una decina di capannoni e qualche brutto condominio gigante per trasformare un borgo in un quartiere
e la campagna in periferia. Per trasformare la gente invece ci vuole un po’ più di pazienza. Devi dare il tempo di morire a un po’ di vecchi, prima di parlare di metropoli. Non basta una colata di cemento a togliere del tutto l’odore di terra e di galline, come non è bastato un pezzo di carta con scritto su centodieci e lode a fare di me un figlio decente o un medico di paese, fosse anche un paese all’inferno.
Ancora non la seguo nello stanzino, se non con lo sguardo. Voglio prendere tempo. Non voglio trovarmi in una stanza da solo con lei. No, meglio se resto seduto e la chiamo. Meglio se torna indietro, a forza di sentirsi chiamare, e meglio se torna vestita, si infila il suo cappotto e buonasera. Invece niente, pare non sentirmi nemmeno. Dalla porta socchiusa comincia a venire un leggero olezzo di piscio, mischiato all’odore dei bachi da pesca. Mi tocca andare. Devo vedere che fa, anche a costo di vomitare.
Sono pronto a tutto, purché si faccia alla svelta.
Nella sala d’attesa le donne – e i vecchi e i bambini che devono averle raggiunte – hanno ripreso a brontolare intercalando il loro regolare berciare con sonori lamenti a me incomprensibili. Il dialetto mi consola perché non lo capisco. Per lavorare qua non serve parlare, mi basta intuire, che è anche troppo. I pazienti entrano, si lamentano a comando e poi decidono come vogliono essere curati. Nessuno pretende di essere compreso. Non vogliono un medico, vogliono un pubblico che ascolti e una o due buste piene di farmaci, in base a quanto sono stati convincenti.
Nei casi più gravi di incomprensione mi affido all’istinto e alle prime impressioni. Io devo averne fatta una pessima da subito. Al mio arrivo, in ritardo e tutto trafelato per la corsa a piedi dalla circumvesuviana, le pazienti mi hanno guardato come si guardano le foreste di bietole o scarole, che dopo essere state lavate, pulite e bollite si riducono a una scodella scarsa – tutto qui??? – dicevano gli occhi gonfi delle comari, deluse dal dottorino che sapeva ancora di latte.
Erano arrivate da almeno un’ora prima di me e ancora, dopo un’ora buona di ambulatorio, non si erano stufate di maledire la mia lentezza, l’assenza della dottoressa titolare, e poi di nuovo me: la mia presenza, il mio ritardo e soprattutto i miei antenati e miei morti.
Devo muovermi con la vecchia, se voglio uscire da questo ambulatorio prima di notte.
La stanza non è che un rettangolo vuoto con un lettino nero, senza nemmeno un lenzuolo o un tovagliolo di carta. Accanto alla testata del letto c’è una lampada da dentista, vecchia di cent’anni, e alla parete due quadri orrendi col mare, i Vesuvi e tutto il resto. L’altra parete, quella bucata dalla porta, è vuota del tutto. Di fronte alla porta che dà sullo studio c’è un portone di ferro che sbuca su un cortile interno, o chissà dove, comunque è chiuso a catena. E la vecchia? Sparita.
È il naso che mi indirizza verso la preda, come anche in altre occasioni. In questo siamo simili, io e i napoletani, non sentiamo che puzzo dappertutto. L’odore di lettiera marcita veniva dalla parete nascosta a metà dall’anta dalla porta aperta e coperta da una tenda pesante di stoffa beige. Dietro la tenda un tramestio strano e incomprensibile, come di caramelle che si scartano e scope che spazzano a terra, con l’aggiunta ogni tanto di cinguetii simili a quelli di un topo.
Scosto la tenda col groppo in gola, gli occhi socchiusi e le palle rinsecchite nelle mutande. Deglutisco e guardo. La vecchia stava di schiena e rimestava contenta, con entrambe le mani, nella borsa posata sul pavimento dello stanzino appena scoperto. Ai lati della nonna, due gabbie striminzite con dentro un coniglio ciascuna. Nero quello a sinistra e bianco macchiato di grigio quello a destra. E come mangiavano quei carcerati. La borsa di tela della vecchia era tutta piena di roba per loro: grano, foraggio, erbacce e, a sentire dagli odori, anche un misto perfetto per fare il soffritto, con sedani, carote e prezzemolo.
Di nuovo i richiami della memoria. Il ricordo di una vita più vicino alle bestie che agli uomini. Le gore piene di girini e poi i girini nei barattoli coi buchi sul coperchio per farli respirare. Il retino del nonno e il suo ripostiglio invaso dagli animali che il babbo non mi faceva tenere in casa. I cani che pisciavano, si ammalavano e figliavano. E poi le gatte che non volevano farsi pigliare, e i morsi ai polpacci del nonno quando decideva di pigliarle per forza, e per forza farle allattare i gattini che io volevo tenere, non volevo vedere morire e che invece morivano subito, morivano sempre. Morivano tutti, nonostante gli sforzi del nonno, a ricordarmi – un morto alla volta – quanto le mie voglie fossero sbagliate.
“Dagli da mangiare anche tu”, mi dice la vecchia di spalle appena si accorge che l’ho seguita, svegliandomi dal film a occhi aperti che sto vivendo. Mi scruta un poco, poi toglie le mani dalla borsa e si mette di lato per farmi spazio.
Non so resistere. Sono con le mani immerse nel mangime, il culo all’aria e la faccia all’altezza dei conigli, quando questo vecchio travestito da befana mi palpa il sedere.
Me ne accorgo dal giallo dei denti che è un uomo. Nel momento in cui mi volto verso di lui e lo guardo da vicino, adesso che le sue mani stanno sul mio culo invece che davanti alla sua bocca, non c’è nessuno a coprire il nero delle gengive e i canini da lupo.
Adesso non è che un uomo. Un vecchio con l’alito di pesce e un vestito da donna. Non è che il fantasma smagrito di qualcuno, un tempo probabilmente, meno spettrale e sgonfio di oggi.
“Sono di Pachi”, mi dice a bassa voce, in confidenza, indicando i conigli.
“Sono l’unica di cui si fida, sua mamma a casa non li vuole, e qua non ci pensa, li lascerebbe morire. Io no, vengo ogni due giorni, che piova o che grandini.”
Lo dice lento e in italiano, come fosse un testamento. Annuisco in silenzio, colpito dalla sacralità della scena. Rimango immobile e domando chi sia questo Pachi. La vecchia (o il vecchio) mi dice, stavolta balbettando tra il dialetto e l’italiano – e continuando intanto a parlarmi piano, come ad un innamorato nel letto appena dopo l’amore – che Pachi è Pasquale, il figlio della dottoressa Irene, e che adesso è a Parigi a studiare. Mi guarda affamata di un commento. Più che poco convinto o poco interessato, sono stordito e oltre a restare immobile adesso ho smesso anche di annuire. Allora il vecchio continua da sé. Mi dice che Pachi è un suo amico, lui è diverso, dice. È un angelo biondo, non è fatto per stare con a sfaccim ra gent di qua.
Scosto finalmente le chiappe dalle sue mani. Gli dico che i conigli starebbero meglio nelle nostre pance piuttosto che così pigiati in quelle gabbie e che il tale Pasquale mi è antipatico, perché è un ragazzino viziato, egoista e crudele con gli animali.
L’ho sparata grossa. Si fa serio, il travestito, ai miei rimproveri. Mi dice che non posso capire, che sono uno scemo di dottore, che penso di sapere tutto e invece non so nulla delle cose importanti e che non capisco nulla di conigli, figuriamoci di Pachi e Parigi. Dice che i conigli Pachi li amava come figli, se li sarebbe portati con sé se avesse potuto, e che prima o poi lo farà. È buffo mentre si agita a difendere il suo amico. Quando si ama qualcuno si diventa violenti e parziali. In amore non c’è posto per la compassione o la giustizia. Se i conigli quasi esplodono nelle gabbie appena più grandi di loro, pazienza. Finché campano e mangiano Pachi è contento e il vecchio con lui. In fondo anche a me interessa poco, ho smesso da tempo di prendere a cuore le bestie o le cose. La mia era solo una battuta cattiva, come mi capita di fare quando incontro qualcosa che mi assomiglia. Una cattiva battuta per farmi detestare un po’ più alla svelta, scegliesse lui se in quanto medico o meno.
Nonno è morto prima che diventassi dottore e potessi dargli la soddisfazione di pavoneggiarsi con i vicini o magari farsi visitare da me. Probabilmente non me l’avrebbe chiesto: si sarebbe lasciato morire senza costringermi a fingere anche con lui.
“La laurea ti serve”, mi disse una volta che mi lamentavo di quegli studi che non mi interessavano e che avevo intrapreso per punizione, per mettermi alla prova da solo.
“Da’ retta coglione, la laurea ti servirà, è un po’ come per me la tessera del partito comunista a guerra finita: per quanto tua nonna piangesse o si lamentasse andava presa e basta, se si voleva lavorare e andare d’accordo nel quartiere. Poi una volta presa, una volta leccati i culi giusti, a casa si poteva continuare a pregare il Duce e la Madonna quanto ci pareva.”
Se fosse stato un figlio di puttana furbo come raccontava avrebbe fatto fortuna, invece era soltanto un fesso, onesto e bischero come pochi. Servo di tutti i padroni possibili, generi compresi, si accontentava di fare felici gli altri per essere felice. Senza rinfacciare, senza smettere di sorridere, sincero come la sua faccia larga da pugile in bianco e nero sopra un corpo da asino.
Che direbbe vedendomi qui, a migliaia di chilometri da casa a sprecare i miei studi per becchettarmi con un pervertito in pensione. Probabilmente mi darebbe del coglione. Poi uno scappellotto. E poi si scuserebbe sinceramente con il travestito per l’intrusione, dandogli del lei, e orgoglioso le stringerebbe la mano e si presenterebbe come il nonno del dottore.
D’un tratto il vecchio con la sottana richiude le tende e mi spinge fuori. La dolcezza dell’inizio è totalmente scomparsa in questo scheletro irritato. Deve essersi offeso, come se seguendolo nello stanzino mi fossi impegnato in qualcosa che non ho saputo mantenere. Mi chiede se tornerò altre volte allo studio. Se mi chiamano, rispondo. Borbotta qualcosa e mi prende il volto fra le sue mani leggere, come di gesso, e poi sussurra: “Se ti chiamano dici che mi hai vista, e che i conigli sono felici, hai capito?”
Quando si gira per andarsene mi saluta di spalle, mentre si infila il cappotto, con un ciao ciao da checca qualsiasi. Io rispondo con uno sbrigativo arrivederci mentre torno alla poltrona e alla mia stufa sotto la scrivania. Sta per uscire, poi improvvisamente si ferma, si gira di nuovo verso di me e mi domanda: “E tu come sei finito qui?”
Non posso sapere a che cosa si riferisse. Se al mio accento, che denunciava il mio essere in qualche modo straniero, o ad altro. La sua domanda probabilmente valeva di più delle poche sillabe sprecate per farla.
Non bastava dire che mi ero nascosto in questa città senza averla mai vista prima e senza averla più lasciata, nemmeno per un giorno. Che se voleva poteva chiamarla una fuga, e che sì, di solito si ha l’accortezza di scappare verso qualche cosa di meglio, ma qualche volta il peggio è più comodo. Qualche volta basta una mattina di treno per cambiare vita e sentirsi a casa. Molte volte un viaggio, breve o lungo che sia, serve solo a lasciare tutto com’è.
Avrei dovuto dire che sono a Napoli perché non mi piace curare la gente. La gente non mi piace. Sono a Napoli perché qua nessuno mi aspettava e non posso aspettarmi niente da nessuno. Sono a Napoli per non cambiare, per sentirmi dire che è vero che niente cambierà, potermi lamentare e imparare a morire poco alla volta. Sono a Napoli perché voglio stare da solo e non ho trovato di meglio di questa fogna sovraffollata per sentirmi al sicuro dalle persone. Sono a Napoli perché ho troppa paura delle bugie e solo dove sono infinite non fanno più male, nemmeno si sentono più.
“Ci sono finito per sbaglio – mi limito a dire, è una cosa temporanea – in attesa di un concorso vero e di un lavoro serio”.
Lo dico senza guardarlo, mentre mi lascio cadere sulla poltrona con la smania di rialzarmi che subito mi prende nelle gambe e nelle mani. Voglio che se ne vada e basta.
“Ho capito”, risponde senza aggiungere altro, nemmeno un risolino sotto i baffi o una strizzata d’occhi. Due parole dette senza intenzione e gli occhi ancora puntati dritti su di me. E basta.
Sarà perché non sopporto le donne, o magari perché sono geloso; o forse perché, ora che so dei conigli, mi sento mancare lo spazio per muovermi, e scappare mi sembra ancora più urgente e impossibile. Sarà perché il coraggio di andare a Parigi a correre il rischio di stare bene, io non ce l’ho avuto; e come mio nonno mi sono nascosto a metà; e sono scappato in questa città senza natura a confondere le mie colpe con quelle più grandi degli altri. Oppure sarà semplicemente perché sono uno stronzo, un bambino con già i primi capelli bianchi intorno alle tempie se, tornato a sedere al sicuro dietro il mio computer e ripresa in mano la penna, gli chiedo: “E a te perché non ti ci porta a Parigi? Non sei abbastanza diverso?”
Poi apre la porta ed esce dallo studio: scompare per prima la borsa appesa al braccio destro, poi finalmente anche la nuca e la schiena del vecchio non si vedono più. È finita.
Resto solo e in silenzio, come volevo. Prima che entri qualcun’altro mi alzo, cammino verso la finestra in fondo alla stanza e la apro. Mi godo il freddo. Il vapore e il rumore dell’inverno di periferia. Respiro a bocca aperta. Cambio aria in attesa del prossimo paziente. In pochi istanti i profumi del vecchio e dei conigli scompaiono. Lo studio si bagna di guazza, come le aiuole delle rotonde di fuori, e prende il sapore umido delle sere di gennaio.
Solo alle mie narici rimane appiccicato qualcosa di secco e fastidioso, come polvere di me. Avrei voglia di una doccia, per cancellare il sopore di ragù che ha la mia pelle quando mi agito. Entrare per intero in una lavatrice e farmi un giro. O magari di asfaltare anche le ultime aiuole di questa città, coprirle d’immondizia e poi dare fuoco a tutto. Oppure potrei tornare alle gabbie, aprirle e scappare insieme ai conigli sotto la prima auto in corsa sulla residenziale verso Gianturco. Invece resto immobile. Per sentirmi meno sporco, mentre rivoli di bagnata paura mi colano sotto le ascelle e lungo la schiena, non mi rimane altro che dire avanti e confidare che il prossimo paziente non mi deluda e sia almeno un po’ peggio di me.
Testo: Stefano Mussari