Sara ha nuovamente cambiato posizione. Scalcia, si gira, si rigira, affonda la faccia nel cuscino e resta immobile, il suo respiro scalda il cotone della federa.
Si alza sui gomiti, torna a stendersi pancia in su, gli occhi spalancati a guardare il soffitto, le mani sulle orecchie.
Comincio ad accarezzarle il braccio. Fa di no con la testa, è stanca di protestare, di discutere. Infatti si alza e va a chiudersi a chiave in bagno.
Dalla finestra aperta il suono di una sirena penetra nella camera. È vicinissima, deve essere passata proprio sotto al palazzo.
Penso a Sara chiusa in bagno, e penso che la sirena è certamente quella di un’ambulanza. Gli infermieri, le barelle, i flaconi e gli aghi, le iniezioni calmanti, le corsie, i corridoi illuminati dai neon, i camici bianchi e verdi, e poi gli specialisti, i referti illeggibili, gli incartamenti, gli esami, le diagnosi… Mi alzo anche io.
Faccio aderire l’orecchio alla parete. Il televisore della signora Bucci è acceso. Mi domando se dorma, oppure se rimanga sveglia fino alle tre e oltre, quando, avvicinandomi al muro, posso sentire le rassegne stampa notturne, i dialoghi di un film, le carrellate di spot, le voci squillanti delle telepromozioni.
La porta del bagno si apre. Sara compare davanti al letto. Mi guarda.
“Ci ho pensato e forse hai ragione tu: andiamocene da Gabri e Marco. Un paio di giorni.”
“Va bene.”
“Partiamo venerdì?”
“Sì. Mi prendo un giorno libero.”
Il colore del cielo è cambiato ora che l’alba si sta avvicinando. Siamo ancora svegli, stesi sul letto come passeggeri di un treno senza meta né fermate.
Sara ha il braccio buttato all’indietro, il palmo si sposta lentamente sul muro in ogni direzione. Seguo il movimento per minuti e minuti, subendo l’effetto ipnotico. Nella mia testa si mescolano tante immagini. Sara che compare davanti al letto, un’ambulanza che sfreccia a velocità folle tra le strade notturne, la signora Bucci che guarda la tv, le pareti che cominciano a comprimere lo spazio della stanza, ad avvicinarsi ai nostri corpi inermi, mentre le palpebre finalmente si chiudono, mettendo fine alle visioni.
Dalla finestra si vede il mare piatto e azzurro, macchiato solamente dalle teste di Sara e di Gabri che nuotano al largo. Il mio destino è contemplare il mondo da una cornice, come dalla finestra della camera da letto e come ora da questa finestra, che sento già familiare.
Mi spoglio, indosso il costume e una canottiera, provando invano a ignorare la tentazione di avvicinarmi alle pareti. Giusto per avere una conferma, per essere certo che i sorrisi di Sara, visti da quando siamo qui, siano genuini. Nulla. Nemmeno una signora Bucci marittima, che si abbronza con i raggi catodici comodamente seduta sul divano. Stacco la testa dalla parete e mi accorgo che Marco è sulla porta. Non so cosa dire, mi sento scoperto.
“Pure tu?”
“No, no. È solo che devo controllare.”
“Li sente ancora?”
“A casa, qui non so.”
“È più di un anno.”
“Lo so, ma non cambia nulla.”
“Capisco che non è facile. Era il padre.”
“Stavo con lei quando hanno tolto i primi mattoni, già si vedeva il corpo pieno di…”
“Basta, per favore. Se crolli pure tu è finita. Che storiaccia.”
Il discorso cade. Nel silenzio interrotto a sprazzi dal rumore delle onde ci incamminiamo sul viale che porta alla spiaggia.
Non so se il mare abbia un reale effetto rilassante, se le brevi nuotate al largo possano avermi stancato a tal punto, ma per due notti mi sono addormentato subito.
Ora che siamo di ritorno in macchina ho il rimorso di non avere potuto controllare Sara. Le ho chiesto una sola volta se fosse riuscita a dormire. Ha risposto annuendo.
Mentre guido, sbircio il suo viso arrossato, coperto dagli ampi occhiali da sole, e rimango senza risposte. Non c’è niente di peggio che sentirsi colpevoli per aver dormito.
Stamattina è stato il rumore della porta di ingresso a svegliarmi. Solitamente Sara esce prima di me quando c’è da fare la spesa. Le ho scritto un messaggio al quale ha risposto subito, deludendo fortunatamente le mie paure.
Non vorrei essere ingenuo, ma è tutto il giorno che mi piace pensare di avercela fatta. Sara ce l’ha fatta, e io con lei. Non è stato giusto rinchiudere la nostra serenità in problemi complessi e irrisolvibili solo perché ritenuti tali. Spesso le cose si mettono a posto da sole e un paio di giorni al mare potrebbero aver lavato via le scorie di mesi e mesi.
Cammino verso casa e respiro l’aria a grandi boccate, faccio passi svelti e lunghi. Potrei cominciare a correre, se non fosse che squilla il cellulare. È la signora Bucci, ha sentito dei colpi venire dalla nostra parete. Interrompo la telefonata e comincio a correre per davvero.
In casa c’è silenzio. Dovrei precipitarmi in ogni stanza, dovrei chiamare Sara, ma non c’è fretta quando si ha paura. Arrivo alla porta della camera da letto. Sara è in ginocchio sul materasso, guarda davanti a sé la parete infranta in più punti. Vorrei abbracciarla, chiedere cosa è successo, considerare in silenzio quanto sia stupido chiedere cosa è successo; ma resto a guardare.
Dalla posizione in cui mi trovo, la testa di Sara copre un buco aperto nella parete, dal quale cominciano a fuoriuscire scarafaggi lucidi e neri. Due, tre, sei, dieci… sono sempre di più, presi dalla frenesia eruttano dalla testa di Sara, corrono e si dimenano in traiettorie oblique, invadono la stanza, si impadroniscono della nostra vita.
Testo Marco Parlato
Illustrazioni Monicatrequarti
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