Io e la zia Giusy siamo sedute in veranda. Lei prende il sole in costume e io, all’ombra, ripulisco un nocciolo di avocado. La pellicina non vuole staccarsi e mi si infila sotto le unghie.
“Dimmi di nuovo perché lo stai facendo?”, fa mia zia dalla sua postazione.
È completamente immobile, con gli occhi chiusi e i lineamenti distesi, e per un attimo mi sembra che la sua voce sia uscita dal nulla.
“Per metterlo in acqua e far crescere una pianta”, rispondo, anche se non so bene cosa voglia sapere.
“Sì, ma chi te lo ha detto?”, insiste mia zia.
Alzo gli occhi e, questa volta, vedo chiaramente le sue labbra muoversi.
“Nessuno – mento – è una mia idea”.
Davide, il mio ragazzo, ha fatto crescere una pianta di avocado che è alta quasi quanto me. Ogni volta che vado da lui, se capita che ci baciamo davanti alla finestra, gli chiedo di abbassare le imposte, perché ho la sensazione che, dal balcone, la pianta ci osservi. Scontenta.
“Ah! – esclama mia zia – Un’idea tua come quella di venire a trovarmi? Lo so che mi credete rimbecillita”.
Starà anche perdendo la memoria, ma mia zia quando vuole non ti dà tregua.
Sto pensando a cosa dire quando il telefono in soggiorno si mette a squillare.
“Vado io.”
Mi alzo e pezzettini di scorza cadono a terra come coriandoli.
“Pronto”, rispondo, mettendomi il nocciolo in tasca.
“Allora è vero che sei tornata!”, dice allegra la mia amica Dani.
Ci conosciamo dai tempi dell’asilo, anche se nell’ultimo anno l’ho sentita poco.
“Ehi, ciao. Così pare”, faccio io.
“Quanto ti fermi?”
“Non so, domani mia zia fa la visita di controllo.”
“Ho saputo. Come sta?”
“Ha sempre i vuoti di memoria. Ma non sai mai quando può succederle.”
“Povera. Almeno è servito a farti tornare. È un sacco che non ci vediamo.”
“Già. Mi spiace.”
Appena lo dico, mi accorgo che è vero. Da quando sono andata a Londra per fare teatro, a casa ci torno poco. Credo sia per l’ansia di deludere le aspettative, anche se non so bene di chi. Mi sembra di dover tornare vantando chissà quali successi e, finora, non è successo granché.
“Ti perdono perché sei la mia migliore amica. Però devi passare a vedere il negozio nuovo”, fa la Dani.
“Ok…”
Ho dimenticato di che negozio si tratti, o forse non l’ho mai saputo, ma mi pare brutto chiederglielo.
“Come si chiama?”, butto lì, sperando che, a sentire il nome, mi torni in mente.
“Dani acconciature.”
“Non sembra un negozio di parrucchieri?”
Quando andavamo alle feste, ero sempre io a farle i capelli. Li ha bellissimi: folti e naturalmente ondulati, di quelli che prendono una sfumatura diversa a seconda della luce. Qualsiasi pettinatura le sta bene.
“Beh, dipende. Rientra nel genere”, fa la Dani.
“Mhm.”
“Come vanno le audizioni?”
“Calma piatta – rispondo – Sempre a dirmi stoffa ne hai, ma non ci hai convinto. Mi chiedo come posso convincerli se nessuno mi dà una parte.”
“Vedrai che prima o poi ingrani. E con Davide?”
“Mhm. Non so, non c’è quasi mai. Dovevamo partire insieme ma all’ultimo si è dimenticato di prenotare la vacanza, fai tu. Peggio di mia zia.”
“Insomma, sei a un punto morto.”
Mi viene voglia di riattaccare, ma non lo faccio. Non ha tutti i torti. Anzi, sono quasi contenta che lo abbia detto: adesso posso pensarlo anche io senza sentirmi in colpa.
“In un certo senso,” rispondo.
“Tu? Vedi qualcuno?”
“Io? Oh Dio, no. Non ho proprio il tempo.”
“Accidenti, che donna in carriera”, dico e faccio una risatina.
La Dani fa un sospiro: “Davvero. Senti, ora devo andare. Passa, ok? Porta anche tua zia, lo sai quanto mi sta simpatica”.
“Ok. Magari domani.”
“Grande. Nel pomeriggio, però, mattina non posso.”
“Indovina chi era?”, dico affacciandomi sulla veranda, ma la sedia della zia è vuota.
Non l’ho sentita alzarsi e per un attimo mi viene il panico. Il problema con le persone che dimenticano le cose, è che temi di perderle da un momento all’altro.
Salgo nella sua stanza e la trovo seduta sul bordo del letto, di fronte all’armadio aperto. È ancora in costume, ma sulle spalle si è drappeggiata una tovaglia delle feste, con l’agrifoglio e le bacche rosse. La tiene chiusa sul collo con una mano, tipo mantella. Sembra pronta a festeggiare il Natale in Australia, o una cosa del genere.
Non so bene cosa fare, così mi siedo accanto a lei, aspettando che dica qualcosa.
“Erano quelli di internet?”, fa mia zia voltandosi verso di me.
“Chi? No.”
“Se chiamano, devi dirgli che ce l’abbiamo già.”
“Ok – rispondo – Era la Dani. Te la ricordi? Quella che veniva a scuola con me. Dice se andiamo a vedere il suo negozio”.
La zia annuisce, poi si gira e mi guarda allarmata: “Adesso?”
“No, non adesso. Pensavo domani, dopo la tua visita.”
“Ah già che c’è anche quella – la zia sospira – che ore sono?”
Guardo il mio orologio, poi mi ricordo che fa un’ora sbagliata. È automatico e, siccome lo tolgo spesso, ogni tanto si ferma. Mi piace sentirmi spiazzata.
“Le quattro – invento, e suona abbastanza plausibile – ti sei stufata di prendere il sole?”
La zia scuote la testa: “Sono venuta su a cercare una cosa. Poi mi è venuto freddo e mi sono seduta un attimo, ma non trovavo la coperta”.
Forse è l’effetto tovaglia, ma all’improvviso mi sembra fragile e indifesa.
“Questa col costume rosso ci sta bene – le dico – Vuoi metterti sotto le coperte?”.
“Ma non ho su il pigiama.”
“Non importa – faccio io – è solo un riposino.”
L’aiuto.
“Domani entri anche tu?”, mi chiede mentre le tiro su la trapunta.
“Mi sa che il medico vuole vederti da sola. Ti aspetto fuori.”
La zia chiude gli occhi.
Appena mi allontano, dice: “Secondo me non lo devi pelare. Se deve sbocciare lo fa lo stesso”.
“Cosa?”
“Lo fa lo stesso”, ripete la zia.
“Ah, grazie”, rispondo, e spengo la luce.
Mentre scendo le scale, il telefono squilla di nuovo. Per un attimo spero che sia Davide, poi mi ricordo che non gli ho dato il numero fisso.
Infatti, è mia madre, da uno degli alberghi della sua tournée.
“Come va con la zia? – mi chiede – Ti dà già filo da torcere?”
“Non più di tanto – rispondo – E i tuoi concerti?”
“Oh it’so so great, darling, just marvelous!”, fa mia madre, e capisco che non è più con me che sta parlando, ma con una giovane, abbronzata, fan americana.
Mi fa un resoconto dettagliato delle sue performances, che ascolto. Non mi chiede delle mie audizioni, e io faccio apposta a non dirle nulla.
“Vuoi qualcosa dalla California?”, fa mia madre alla fine.
“No. Ma grazie di aver chiamato”, la saluto.
È la frase che ho preparato per quelli di internet.
Dopo aver messo giù, controllo il cellulare. Nessun messaggio e nessuna chiamata persa.
Mi viene voglia di spegnerlo, ma ho una specie di timore scaramantico che il mio gesto mi si possa ritorcere contro, facendo sì che Davide non mi chiami mai più. Lo metto sul tavolino a faccia in giù e vado in cucina. Prendo il nocciolo di avocado mezzo pelato, ci infilo tre stuzzicadenti e lo adagio in un bicchiere pieno d’acqua, come mi ha spiegato Davide. Il nocciolo ondeggia un attimo e poi si ferma, sorretto dagli stuzzicadenti. La California, mi viene in mente, ha il clima ideale per le piante di avocado, caldo e soleggiato. Metto il bicchiere sul davanzale vicino agli altri due che ho preparato questa settimana.
“Per favore – dico piano – Che vi costa? Alla fine, è questo il vostro scopo nella vita, no? No?”
Il giorno dopo, quando scendo per colazione, la zia è in soggiorno. È già vestita per uscire, e sta stirando con la televisione accesa. Non riesce proprio a stare senza far niente.
“Pensavo fossi morta. Il sole è già alto”, mi fa senza girarsi.
Secondo mia madre, la zia Giusi ha un registro empatico poco armonioso. Sostanzialmente, le capita di dire cose molto irritanti. Lo fa a fin di bene. Per spronarti.
“Non ancora”, dico, e mi lascio cadere sulla poltrona, aspettando di essere completamente sveglia.
Da quando sono arrivata, ho sempre voglia di dormire. Faccio solo finta di voler stare in piedi.
Le immagini sullo schermo sono quelle di una recita. Non c’è l’audio e ogni tanto l’immagine si interrompe. Un ensemble di bambini si muove a scatti, attraversato da una linea grigia tremolante. Quella in giallo in prima fila sono sicuramente io.
“Questa da dove arriva?”, faccio alla zia.
“È uno dei film che ha fatto tuo zio. Lo sai com’era fissato.”
Da quando ho cominciato a fare teatro, lo zio e la zia non si sono mai persi uno spettacolo. Lo zio li riprendeva tutti con la videocamera, di modo che mia madre, di ritorno dai suoi concerti, potesse guardarli. Che io sappia, non lo ha mai fatto.
“Quella lì non è la tua amica?”, fa la zia puntando il ferro da stiro in direzione della televisione.
“Chi, la Dani?”
Cerco di concentrarmi sulle immagini. È la recita in cui siamo vestite da fiori. Io ho un paio di fuseaux verde smeraldo e dei petali di carta crespa gialla attorno al collo. La Dani, nella fila dietro, deve essere una campanula, perché i petali le stanno diritti dietro la testa stile imbuto. Del teatro non le è mai importato niente, lo faceva per stare con me.
Col telecomando cerco di alzare il volume ma non succede niente.
“La voce c’è solo all’inizio, deve essersi rovinata”, fa la zia.
“Cosa si sente?”
“Tuo zio vi chiede cosa volete fare da grandi. Tu dici la parrucchiera e, se non ti riesce, l’attrice a Hollywood. O il contrario.”
“Oddio, che sparata.”
“Non vedo cosa ci sia da vergognarsi. Avevi dieci anni ed eri una bellissima margherita.”
“Si direbbe che non ho fatto né uno né l’altro.”
“Non capisco perché ti butti giù così.”
“Mhm. Come sei elegante stamattina”, butto lì.
Si è messa un tailleur lilla con le maniche corte e un paio di sandali col tacco basso. La zia si guarda la camicetta e toglie un pelucco dalla manica, stringendolo tra il pollice e l’indice. “Non voglio che pensino che non capisco più niente.”
Sto per dire che l’abbigliamento non mi sembra un criterio decisivo, poi mi viene in mente la tovaglia con l’agrifoglio e mi trattengo.
“Tu cosa ti metti?”, fa mia zia.
“Questi?”, rispondo titubante, indicando i jeans e la maglietta con scritto Correre per il teatro.
L’ho messa per la staffetta di fine anno alla scuola di recitazione. Avremmo vinto se la ragazza prima di me, una tizia con il fisico da rugbista, non mi avesse buttato a terra passandomi il testimone.
La zia mi guarda alzando un sopracciglio. Mi affretto ad aggiungere: “Non sono mica io la paziente.”
“Ah beh, allora”, fa la zia.
Poi si gira e punta il ferro da stiro in direzione della cucina.
“Quei tre – comincia – devono proprio stare lì? Sembrano teste decapitate”.
I vasetti di avocado sono al loro posto sul davanzale.
“Hanno solo bisogno di sole”, rispondo, e per un attimo ci credo sul serio.
Mentre aspetto la zia, seduta in sala d’attesa, chiamo la Dani, ma c’è la segreteria. Poi, visto che comunque non ho niente da fare, provo Davide. Conto una decina di squilli e poi mi arrendo. Stamattina gli ho mandato una foto del nocciolo di avocado, per fargli vedere che, se non altro, ci stavo provando. Non ha risposto. L’ha lasciato lì, come sospeso nel vuoto, senza niente a cui aggrapparsi.
Dopo un po’, la zia esce dallo studio.
“Come è andata?”, le chiedo andandole incontro.
“Questa umidità mi schiaccia tutti i capelli”, fa la zia portandosi una mano alla nuca.
“Sì, ma la visita?”
“Oh, ha detto che non ho niente.”
“E basta?”
“Ha detto che gli avocado che crescono sono quelli verde chiaro. Quelli che hai preso tu fanno fatica.”
“Come fa a saperlo?”
“Gli piacciono le piante.”
“No, perché glielo hai detto?”
“Per fare conversazione. È stato gentile.”
“Ossignore. Ma di te cosa ha detto?”
“Che è ansia.”
“Ansia”, ripeto, per essere sicura di aver capito bene.
“Sì. Mi sa che ho incrociato la tua amica, quella di ieri. A momenti non la riconoscevo. Non mi hai mica detto che si era fatta bionda.”
Sto per spiegarle che non vedo la Dani da almeno un anno, ma la zia mi chiede di tenerle la borsa e si dilegua in bagno.
Mentre l’aspetto, la porta della sala visite si apre ed esce il medico.
“Borghetti. Lei deve essere la nipote”, dice venendomi incontro.
Annuisco.
“Sua zia ha dimenticato la ricetta – fa allungandomi un foglietto bianco piegato in due – Anzi, mi sa che l’ha fatto apposta”.
“Oh. Mi ha detto che va tutto bene,” faccio prendendo il foglietto.
“Niente di preoccupante. Un po’ di ansia. Che può spiegare i vuoti di memoria. Vive da sola, no?”
“Da quando è morto mio zio, sì. Adesso per un po’ ci sono io.”
“Me lo ha detto, che è venuta con sua nipote che fa l’attrice a Londra.”
“Sì beh, non esattamente.”
“No? Nessun problema di salute, spero?”
“No, diciamo che non è il mio momento.”
“Sa che le dico, ogni tanto, non è neanche il mio. Ma resto pur sempre un medico. Intanto, se riesce a farle prendere qualche goccia di queste…”
“Ok. Non garantisco.”
“Sì, immagino. Un osso duro. Le apparenze ingannano.”
L’insegna del negozio dice sul serio DANI ACCONCIATURE. Io e la zia rimaniamo ferme a guardare la vetrina, in silenzio.
“Direi che la tua amica vende parrucche”, fa la zia, stringendosi la borsa al petto con un gesto definitivo.
Annuisco, ipnotizzata dalle teste di plastica bianca in fila sull’espositore, ciascuna con una capigliatura diversa. Hanno tutte lo sguardo obliquo, le ciglia lunghe sfumate di nero, e le labbra rosso sangue. Sembrano malate, o strabiche, e vagamente inquietanti. Siamo ancora lì ferme, quando la porta del negozio si apre e la Dani mette la testa fuori.
“Finalmente – ci saluta squillante – venite dentro!”
Ha un caschetto giallo limone scalato all’altezza del mento e sembra pallida. Qualcosa, in lei, è diverso, ma non riesco a capire cosa. Si avvicina con un gran sorriso, allargando le braccia.
“Marti! Che bello vederti. Che ne dici?”
Le vado incontro e la abbraccio. Sarà per via dei capelli, ma per un attimo mi sembra di stringere un canarino.
Prima che possa dirle qualcosa, la Dani scivola via in direzione di mia zia: “Signora Giusi, quanto tempo, come le sta bene questo colore… è nuovo?”, cinguetta.
Mia zia allenta un po’ la presa sulla borsetta e si aggiusta la gonna: “Oh, saranno vent’ anni che ce l’ho”, borbotta.
Una volta entrate, la Dani mi chiede di nuovo cosa ne penso del negozio.
“Non saprei”, comincio.
Mi fa venire in mente la vetrina della principessa Mombi, quella che in Ritorno a Oz voleva la testa di Dorothy per la sua collezione.
“Come ti è venuta l’idea?”, le chiedo.
“Oh, sai. I soldi bisogna farli girare”, mi fa la Dani alzando le spalle.
La Dani è come uno di quegli orfani dei libri per bambini. I suoi genitori non li ha mai conosciuti ma le hanno lasciato una eredità pazzesca. Potrebbe farci qualunque cosa, ma non ha mai grande interesse per niente, e in ogni caso non dura a lungo.
“Il mercato è pieno di parrucchieri – continua – ma, se ci pensi, per chi vuole proprio ripartire da zero, dare un taglio netto, niente, non c’è offerta”.
“No, suppongo di no”, butto lì.
La parrucca rossa nell’angolo sembra guardarmi storto, così mi sposto.
“Dicono che poi ti viene da grattare”, fa la zia Giusi dubbiosa.
Sta ispezionando le parrucche con lo sguardo, tenendo le mani ben salde sulla borsetta.
“Ma no, non con quelle di buona qualità. Signora Giusi ne provi una, vedrà come le sta bene”, la incoraggia la Dani.
“Oh per carità.”
“Ma sì, giusto per vedere che effetto fa.”
“Niente colori strani, eh.”
“No no, un bel riccio corvino. Classico.”
La Dani solleva una parrucca dal manichino e la testa bianca diventa improvvisamente calva.
“Mhm. Com’è? – fa la zia – C’è uno specchio?”
“Certo, venga.”
“Non sarà troppo?”
“Ma no, che dice – esclama la Dani entusiasta – sembra Cher, voglio dire Loretta, in Stregata dalla luna, vero Marti?”
Suppongo intenda Loretta dopo che è stata dal parrucchiere, ma mi limito ad annuire. Immagino la zia nella scena in cui Ronny dice a Loretta di essere innamorato e lei gli risponde di farsela passare, e devo dire che la battuta le starebbe a pennello.
“Certo che ce ne sono proprio tante”, fa la zia.
“Oh, e ancora non ha visto niente, ce n’è una scatola piena sul retro, ma non ho avuto tempo di tirarle fuori. Vada pure a curiosare se vuole.”
La zia si aggiusta i capelli.
“Allora vedo cosa posso fare, così vi lascio un po’ tranquille”, fa la zia, lanciandomi un’occhiata sospettosa.
“È quella porta lì. E se ce n’è una che le piace, la prenda!”
La zia mi passa davanti e mi mette una mano sul braccio: “La tua amica non è a posto. Fidati”, mi dice a bassa voce.
Io rimango immobile e faccio finta di non aver sentito.
Prima di scomparire nel retro, Cher si volta e, sollevando la mano, accenna un saluto, come un’attrice che sa di aver dato un’interpretazione da Oscar.
“Tua zia è un fenomeno – fa la Dani – sempre sul pezzo. Mi ricordo quando veniva a prenderti a scuola. Pioggia o grandine, lei non mancava mai.”
“Già.”
Prendo in mano la testa calva che ospitava i capelli di Cher e mi siedo al suo posto in vetrina. Mi viene in mente l’avocado e immagino la testa galleggiare a filo dell’acqua, tutta bianca e infilzata dagli stuzzicadenti. Mi sembra che potrei mettermi a piangere, ma non voglio farlo prima di sapere esattamente qual è il motivo. Trattengo il respiro, e mi viene il singhiozzo.
La Dani si avvicina e si inginocchia di fronte a me. Mi prende la testa bianca dalle mani e la appoggia, con precauzione, sul pavimento.
“Marti. Devo dirti una cosa.”
La guardo. Mi esce un singhiozzo.
“Cosa?”
“Vuoi un bicchiere d’acqua?”
“No. Adesso mi passa.”
“Non sto bene.”
Lo dice come se dovesse scusarsi, e io fossi la persona a cui deve delle scuse.
“Ok”, dico.
Si porta le mani alla fronte e si toglie il caschetto giallo, liberando ciuffi di capelli corti e spettinati. Sembra una a cui hanno sbagliato il taglio, e che ci ha dormito sopra, peggiorando la situazione.
“Dovrei rasarmi, vero? – dice la Dani passandoci le dita – Solo che non sono pronta. È stupido, ma ho paura che, se lo faccio, non mi ricrescono più. Perché vuol dire che non credo più nei miei capelli”.
“Dove è?”, faccio. So che è la domanda sbagliata, ma tutte le domande sono sbagliate quando nessuna risposta può farti sentire meglio.
“Qui – fa la Dani, picchiettandosi la tempia con un dito – E anche in giro.”
Si china per sistemare la parrucca sul manichino e vedo la sua nuca piegarsi in avanti, intatta, come se non ci fosse proprio niente, dentro, che potrebbe farle del male.
“Volevo dirtelo adesso, prima che diventi complicato.”
“Oh Dio.”
Rimaniamo in silenzio per un po’, poi le chiedo se c’è qualcosa che posso fare.
“Sai cosa? – dice dopo averci pensato un attimo – vorrei lavarmi i capelli. Da quando questa storia è cominciata, ho sempre paura che abbiano un cattivo odore.”
Quando vado nel retro a prendere una bacinella, la zia Giusy è seduta su uno scatolone, con gli occhi chiusi e la borsetta sulle ginocchia. Ha ancora su la parrucca.
Sentendomi entrare, apre gli occhi.
“Vi serve una mano?”
“No. Facciamo uno shampoo – rispondo – Tu? Va tutto bene?”
La zia scuote la testa: “Mi serve solo un momento.”
Trovo un catino, poi ne vedo uno più grande e faccio a cambio. Apro il rubinetto e faccio scorrere l’acqua finché non diventa tiepida, poi lo riempio fino all’orlo. È troppo pieno. A ogni passo che faccio, sobbalza e un po’ d’acqua si versa per terra.
“Dimmi qualcosa tu”, fa la Dani mentre le bagno la testa con le mani.
“Qualcosa tipo?”, le chiedo.
“Non lo so. Stamattina, quando hai chiamato, cosa volevi?”
“Oh. La zia ha trovato la cassetta di una recita. Quella dei fiori hai presente?”
“Vagamente.”
“L’audio si è rovinato, e non mi ricordo più che musica ballavamo. Magari tu lo sapevi.”
“Ti pare? È già tanto se mi ricordavo i passi.”
Si mette a sedere diritta e comincio a insaponarla. I capelli sono soffici e non hanno niente che non va. Niente che potrebbe impedir loro di crescere.
La Dani chiude gli occhi: “Sei sempre stata un’attrice, tu.”
“Forse a dieci anni, a ventitré mica tanto.”
“Questo non può essere vero.”
“Beh, se fossi brava mi farebbero recitare.”
“Ci dai troppa importanza. È solo un momento.”
Faccio una pausa, sperando che il tempo, se non ne parliamo, smetta di esistere.
“Potrei restare qui”, dico alla fine.
“E a fare che? Con te, staremmo sempre a piangere.”
“E quindi? – faccio io – Come pensi di fare?”
“Potrei chiedere a tua zia di venire, ogni tanto. Per aiutarmi col negozio. Che ne dici?”
“Penso che ci starebbe.”
“Adesso sciacquami che facciamo notte.”
A Londra sembra che l’estate voglia già andarsene. Ho freddo durante tutto il tragitto dall’aeroporto a casa, ma la giacca è in valigia e non voglio fermarmi a tirarla fuori, perché ho in mano il nocciolo di avocado. A Milano, al momento dell’imbarco, me lo sono messo in tasca, poi, sull’aereo, quando la hostess è passata col carrello delle bevande, ho chiesto un bicchiere d’acqua e ce l’ho sistemato. Ho delle speranze per questo nocciolo e non voglio che gli succeda niente. Circa una settimana fa, alla base si è aperta una piccola crepa. Adesso, se guardo con attenzione, riesco a vedere una puntina bianca, come un dito indice puntato verso l’acqua. Le radici spuntano sempre per prime. Sulla metro, con il bicchiere in mano, penso che magari è tutta fatica sprecata, ma magari no.
A casa, lo sistemo sul davanzale della finestra e il cellulare si mette a squillare.
“Ciao”, rispondo.
“Sei arrivata? Pensavo venissi direttamente qui”, fa Davide.
“No.”
“Cosa? No?”, mi chiede, come se proprio non avesse sentito.
“Non posso venire. Non funziona.”
“Martina, non capisco. Sei a Londra o no?”
“Io e te, non funziona.”
“Cosa stai dicendo?”
“Dovrei essere nella tua testa, ma non ci sono. Capisci? Dovrei essere lì, da qualche parte, non so esattamente dove, ma da qualche parte. Magari non sempre, ma la maggior parte del tempo. Dovrei essere nella tua testa e sapere che ci sono, e non avere paura di scivolare fuori da un momento all’altro.”
“Marti, stai bene? Non ha senso quello che dici.”
“Ce l’ha. Te lo sto dicendo.”
“Vuoi rompere con me? Mi stai lasciando per telefono?”
“No. Ti sto lasciando per davvero.”
Chiudo la chiamata, spengo il telefono e lo metto sotto al cuscino del divano, perché ho paura che Davide provi a richiamarmi. E anche che non ci provi affatto. In entrambi i casi, mi metterei a piangere.
Mi siedo e mi accorgo che le mie mani stanno tremando. Le guardo, come se guardarle bastasse a farle smettere, ma non è così. Sono vuote e tremano. Dovrebbe esserci qualcosa che le persone che si sono appena lasciate a cui tremano le mani possono fare, tipo lanciare dei piatti, o abbracciare un koala, o bere acqua e zucchero, ma non mi viene in mente niente. Vado alla finestra, prendo il bicchiere con l’avocado e mi siedo sul davanzale. Stringo le mani attorno al bicchiere e aspetto, sperando che non si versi niente.
Stiamo provando all’aperto, nel parco dove ci saranno le rappresentazioni. Avevo appena riacceso il telefono ieri sera, quando il regista mi ha chiamato. Ho risposto, con la sensazione colpevole di averlo fatto aspettare per ore. È andato dritto al punto.
“Martina? Hai fatto l’audizione questa primavera. Per il ruolo di Kate. Puoi iniziare domani?”
“Pensavo di non essere stata presa,” ho risposto, un po’ sulla difensiva. All’audizione mi sembrava di essergli piaciuta, ma poi avevano preso la ragazza con le fossette e l’accento British, e lo avevo odiato immediatamente.
“Infatti – ha risposto – ma l’attrice si è ammalata. Quindi, se vuoi, la parte è tua.”
“E la sostituta?”
“Sei sempre così entusiasta quando ti offrono un lavoro?”
“Oddio. Mi scusi. Grazie. Cioè, la voglio. Voglio che mi dia la parte.”
“Allora ci vediamo domani. Ti faccio mandare una e-mail con i dettagli”, ha risposto, e ha messo giù prima che potessi aggiungere altro.
Sono stata in piedi tutta la notte cercando di imparare a memoria le battute, ma ho ancora paura che all’ultimo momento, proprio quando ne ho più bisogno, mi sfuggiranno.
Alla pausa, mi siedo sotto un albero all’ombra. Non ho mai recitato all’aperto. Mi dà una sensazione strana, come di vertigine, come se fossi libera di alzarmi e andarmene quando ne ho voglia. Solo perché è tutto così verde intorno. Per distrarmi, chiamo la zia Giusy.
“Come sta andando?”, mi chiede.
“Ok – le rispondo – spero di non dimenticarmi niente”.
“Fidati, non è così grave. Ho una certa esperienza.”
“Mhm.”
“Chi sei?”
“Una signora che dà una cena in giardino e tutti gli ospiti alla fine danno fuori di testa.”
“Interessante. Hai un bel vestito?”
“Credo di sì. Se fossimo negli anni Settanta.”
“E in testa? Ti fanno mettere una parrucca?”
Da quando ha cominciato a occuparsi del negozio della Dani, le parrucche sono diventate il suo chiodo fisso.
“No, ma ho un cappello.”
“Spero non uno di quei cosini ridicoli che vi mettete in Inghilterra.”
“Uno grande, di paglia. Non è male.”
Mentre parlo, slaccio il nastro del cappello che ho annodato sotto il mento.
“Bene – fa la zia – andrà tutto bene. Lo sai, vero?”
“Sì”, mento.
“Abbi fiducia in te stessa”, fa mia zia.
“Sì.”
All’improvviso, mentre la saluto, si alza una raffica di vento. Il cappello vola via, ondeggia un attimo e atterra sull’erba, accanto ai miei piedi. Allungo una mano per afferrarlo, ma il cappello fa un altro balzo in avanti. Anche se non riuscissi a prenderlo, si tratterebbe solo di un cappello.
La Dani se ne è andata una mattina di settembre, mentre ero a Londra.
Qualche giorno dopo, mentre ero a casa a ripassare le battute, mi è arrivata una sua lettera, insieme a una chiavetta usb: Mi avevi chiesto qual era la canzone della recita, scriveva.
La metto nel computer e apro il file audio. La voce di Belinda Carlisle si diffonde nella stanza.
“Ooh, baby, do you know what that’s worth? Ooh, heaven is a place on earth. They say in heaven love comes first. We’ll make heaven a place on earth.”
Mi siedo sul pavimento, stringo le ginocchia al petto e chiudo gli occhi. Penso alla Dani, penso alla zia Giusi, non penso a niente. Penso alla musica. Penso che sono una margherita e che sto per sbocciare.
Testo Anita Renchifiori
Illustrazione Lavinia Fagiuoli