“Siamo focolari, cari ditteri! E la nostra fiamma è troppo precaria per non gustarcela a fondo!”
Caba era una cullicidae affascinante, con ali brillanti come argento, e una vivacità atipica che attraeva l’accoppiamento come se non esistesse altra femmina nell’arco di chilometri.
Sopra le loro teste numerosi altri membri della colonia danzavano, creando armoniose circonferenze. Planavano a pochi centimetri da loro e subito ritrovavano quota in un ciclo instancabile.
Elaborate collane vestivano i suoi completi così come tappezzavano gli angoli e le finestre. Pure sulla pelle cospargeva creme e oli estratti da quel disgustoso albero. Non c’era nulla che lo infastidiva più della loro presenza, e sapeva dimostrarlo in modi fantasiosamente sadici. Per esempio, egli teneva ben nascosta, nel giardino sul retro, una buca nel terreno coperta da una botola di plastica, in cui albergava una rudimentale bombola di gas che veniva periodicamente riempita. Essa però venne collocata più in basso del solito e il vecchio dovette quindi costruire un leggero rialzamento interno in mattoni, che non manca ad ogni acquazzone di allagarsi, generando una pozza d’acqua stagnante. Zona più che favorevole alla deposizione delle uova per le orgogliose femmine della colonia. Una volta che il signor Vittorio ebbe scoperto il nido di larve non le uccise con qualche veleno scadente, decise piuttosto di coprire con estrema meticolosità il rialzamento di nīm, in modo da impedire ogni forma di crescita della prole, in una lenta agonia.
”Visto? VISTO!? È che sei un maschio Zitù, poverino, ti resta sì e no una settimana di vita. Sei un esserino inutile sotto il nostro controllo – continuò – E se ti dico versa… tu, versi”.
Dispiacque quasi a Tara per Zitù. Ma non disse niente. Il silenzio è rassicurante, e lei era sempre vissuta nel silenzio. Come in quella stretta crepa nel muro dove alloggiò per due lunghi giorni. Dove aveva avuto modo di conoscere il signor Vittorio. Di studiarlo. Analizzarlo. Dove la sorte l’aveva imprigionata. Non poteva certo aspettarsi che il signor Vittorio si sarebbe trattenuto due giorni chiuso nel suo piccolo studio senza mangiare né bere. Senza le sue passeggiate serali e la cura dei suoi amati ortaggi. Quasi nessuno era riuscito a stargli appresso per così tanto tempo. Ed era incredibile quanto sembrasse vecchio, con lunghe rughe gonfie a coprirgli il volto. C’era un’inquietudine nei suoi modi e nei suoi occhi che rasentavano la disperazione pura. Era fragile. Il mostro stava piangendo. Nell’infinità del suo cuore marcio si era aperto un ascesso di innocente dolore.
Per diverse ore scrisse sui tomi che ingombravano il piccolo rifugio. Una stasi incerta spesso percossa da attacchi di rabbia incontrollabile. Allora ribaltava la scrivania e si accasciava a terra, contorto in un angolo scuro, fuori dalla portata della luce. Quella stanza era di una bellezza preziosa, con cimeli provenienti da ogni parte del mondo ad adornarla. E lui ne era il custode. La meraviglia sorvegliata dalla paura. Tanto tempo lo trascorreva chino su fogli bianchi scritti in piccolo, di una grafia secca e precisa, tagliente. Li rileggeva più volte, vuoto di mente, nel suo intimo abisso. E c’erano ombreggiature strane in quell’istante, oblunghe braccia nel buio che lo stringevano e si addentravano al suo interno. Tara le vedeva bene, senza dargli un significato preciso. Se fossero concrete o semplice visione.
”Lasciatemi vivere…”, sospirò a fil di voce l’anziano uomo.
E senza aggiungere altro, si alzò, e uscì dalla stanza.
Ora il signor Vittorio è morto e la colonia è in festa. Caba tracannò altra melata e si ingarbugliò in un discorso complicato di filosofia femminista con Zitù.
Le stelle di polvere accarezzavano le ali dei danzatori. Lo spettacolo di quella gloriosa mattina divenne ovattato. Rallentava e si distorceva nell’incredulità di una gioia. Tutto pareva finzione; plastica e tempo. Tara decise di andarsene. Si alzò in volo e abbandonò la soffitta. Percorse uno stretto passaggio lungo il muro. Nel salone principale due finestre erano aperte e una brezza circolava libera soffocando l’odore di nīm delle foglie ancora appese. L’ampia sala conduceva a diverse stanze e lei si intrufolò nella seconda a destra, socchiusa da una robusta porta d’acero. Lui era lì, con uno stretto nodo di lenzuola al collo, legato alla maniglia della porta. Le sue pupille erano grandi e pallide. Una smorfia rigida agli angoli della bocca. Sembrava un pupazzo il signor Vittorio. Un insieme di cuciture alla meno peggio. Il giocattolo di un ventriloquo calato il sipario. Non doveva più preoccuparsi del buio ora, nella protezione delle sue foglie di nīm, come un variegato scialle. Come a salvare l’abitudine dove tutto era andato a pezzi.
Tara riusciva quasi a sentire i suoi antichi e brevi sussurri d’aiuto appena percettibili. Un eco lontano di semplici parole, ma incomprensibili ai più. Le lunghe strette d’ombra scioglievano il loro abbraccio, e qualcuno suonò il campanello.