Mentre rileggo gli appunti, i miei fratelli continuano a infilare una cassetta dopo l’altra. Le uniche voci che si rincorrono per la stanza sono le nostre, anche se ormai non ci appartengono più. Lui non compare mai nei filmati e pure nostra madre è una figura accessoria; quando entra in scena è solo perché la videocamera è già accesa su di noi. Non ho mai visto una partita di calcio con nostro padre, non siamo mai andati al cinema assieme e anche alle pagelle è sempre venuta solo mia madre o una delle varie governanti che si sono succedute nel corso degli anni. Era talmente sfuggente che da piccoli c’eravamo convinti che lavorasse per i servizi segreti. Si cerca sempre di giustificare i propri genitori.
A sua discolpa posso solo dire che la sua vita iniziò proprio con una fuga. Mia nonna era già incinta di lui quando salpò dall’Italia con una delle ultime imbarcazioni che ancora consentivano agli ebrei di lasciare il paese. Nacque nell’estate del 1941 a Ramat Gan, una piccola città vicino Tel Aviv. Israele ancora non esisteva. Una volta finita la guerra tornarono in Italia ma, per paura che potesse accadere qualcos’altro, i miei nonni vissero per anni in albergo e mandarono i figli a studiare in Svizzera. Dopo il collegio a Losanna proseguì gli studi in California, laureandosi in ingegneria nucleare alla Stanford University dove, visti gli ottimi risultati, aveva deciso di intraprendere la carriera accademica. Ma com’è il detto ebraico? “Se vuoi far ridere Dio raccontagli i tuoi piani”, e infatti quell’anno mio nonno morì e lui divenne un commerciante di pellicce. Ad ogni modo, fu durante quel periodo trascorso negli Stati Uniti che si appassionò alle gare di dibattito organizzate dall’Università, fino a farla diventare una vera e propria fissazione. Stabilito un argomento, due squadre si confrontavano dovendo sostenere le tesi Pro e Contro, indipendentemente dalle proprie opinioni personali. Poteva capitare così che la tua squadra dovesse schierarsi contro la legalizzazione dell’aborto, o a favore della guerra in Vietnam, e che tu fossi un hippy. Lo scopo di queste gare era accrescere la capacità degli studenti di parlare in pubblico e di ascoltare in modo critico, imparando a strutturare un discorso logico; oltre ovviamente a favorire il rispetto del punto di vista degli altri.
E così, come il famoso battito d’ali di una farfalla, mi ritrovai alcuni anni dopo seduto a tavola con mio padre che mi domandava quale fosse, a mio avviso, il principio più equo per dividere le porzioni: quantità diverse per ciascuno dei cinque figli in base all’età, oppure le stesse porzioni per tutti, indipendentemente dal fabbisogno fisiologico. Tutto questo sotto lo sguardo impaziente degli altri fratelli, che non vedevano l’ora di cominciare a mangiare. Crescendo ho ripensato spesso a queste cene a base di domande ricattatorie, stupito che nessuno di noi abbia sviluppato un qualche disturbo alimentare.
Il suo era un allenamento costante, in stile sorelle Williams, solo che al posto delle palle da tennis nostro padre ci sparava contro le sue domande. Le gare di dibattito vere e proprie, o almeno la nostra versione casalinga con lui nella doppia veste di giudice e squadra antagonista a quella dei cinque figli, non avevano cadenza regolare; ma quando mio padre decideva di farne una, l’impatto sulle nostre vite non era mai privo di conseguenze.
Come per l’acquisto del motorino, richiesto dal primogenito per il suo quattordicesimo compleanno, e successivamente riproposto man a mano che tutti noi raggiungevamo la stessa età. Il nostro grande sogno di poter condividere un motorino in cinque. Un anno riuscimmo persino a procurarci delle statistiche sul numero dei ragazzi feriti gravemente o morti perché caricati dai loro amici, ma nonostante questo continuavamo a girare in autobus. Rivedendo oggi i filmati di quelle gare, mi rendo conto che l’unica volta in cui sfiorammo la vittoria fu quando ci venne in mente di spacciare il motorino come una sorta di rito di passaggio, uno spartiacque tra l’infanzia e l’età adulta, dal momento che, essendo lui ebreo e nostra madre cattolica, tecnicamente non appartenevamo ad alcuna comunità religiosa, e quindi ci era preclusa la possibilità di fare il Bar Mitzvah o la Cresima. Per la prima volta, dopo una nostra esposizione, rimase in silenzio. Non era mai successo. Dovendo a questo punto giudicare, si prese un po’ di tempo e andò nel suo studio, mentre noi discutevamo già sulla marca del motorino da comprare. Quando tornò ci fece i complimenti, poi aggiunse che, per quanto la nostra condizione ci negasse un vero rito di passaggio, l’acquisto del motorino non poteva essere considerato un surrogato, perché non rispettava i tre presupposti fondamentali, e cioè “la codificazione, ovvero seguire un preciso ordine di gesti e atti, la reiterazione, intesa come il continuo ripetersi all’interno di un tempo definito ciclico, ma soprattutto l’efficacia, visto che presuppone una modifica dell’individuo che vi prende parte”. Per chiarire il concetto fece poi l’esempio del rito di iniziazione della tribù Mandan, nativi americani del North Dakota, dove per quattro giorni agli iniziati veniva impedito di bere, mangiare e dormire e successivamente erano accompagnati in una capanna per essere trapassati con dei pali di legno, con i quali venivano poi appesi al soffitto fino allo svenimento. Il rituale si concludeva poi quando, dopo avergli mozzato le dita, venivano costretti a correre intorno al villaggio con i pali di legno ancora conficcati nel corpo. Una volta liberati erano pronti a entrare nell’età adulta E così, addio motorino.
Era come se si mantenesse sempre a una certa distanza di sicurezza; forse è proprio per questo che aveva spesso la videocamera in mano: per stabilire un contatto senza avvicinarsi troppo. Poteva capitare di alzare la testa da un libro, o di voltarti mentre guardavi un film, e di incrociare il suo sguardo, fisso su di te. Come se si fosse trovato dalla sera alla mattina con cinque figli in giro per la casa e nessuno gli avesse spiegato bene che cosa dovesse farci. Quando non era fuori città, trascorreva la maggior parte del tempo chiuso nel suo studio a lavorare, o almeno così ci rispondeva nostra madre quando chiedevamo di lui ma, considerato il numero di videocassette e di suoi scritti che abbiamo ritrovato in questi giorni, me lo immagino là dentro, al buio, mentre riguarda il materiale girato, come uno scienziato che scopre di essersi affezionato alle cavie del proprio esperimento.
Dopo aver inserito l’ennesima cassetta nel videoregistratore mi volto e, vedendoli tutti e quattro seduti sul divano, di nuovo insieme dopo così tanti anni, mi tornano in mente quei momenti dopo cena, quando noi cinque, con età e gusti completamente diversi, dovevamo metterci d’accordo su quale programma vedere. Quando discutevamo in questo stesso salotto, mentre lui rimaneva in poltrona senza dire una parola, facendo probabilmente finta di leggere il giornale che teneva sulle gambe. Secondo il suo regolamento potevamo comprare e vendere favori, facendo offerte e rilanciando, come navigati operatori di Wall Street, fino al momento del voto in cui, per alzata di mano, a maggioranza assoluta, veniva finalmente stabilito cosa avremmo visto.
A quell’età, però, non sapevamo ancora cosa fosse la nostalgia e così, all’ennesima sconfitta, ci rivoltammo. Forti dei primi esami in giurisprudenza del fratello maggiore, che forse inconsciamente aveva scelto quella facoltà perché non gli era ancora andata giù la storia del motorino, presentammo una sorta di ricorso, motivandolo con la mancanza di parzialità che aveva caratterizzato tutti i nostri dibattiti, dal momento che lui aveva sempre ricoperto contemporaneamente il ruolo di avvocato e giudice. Si offese, anche se non volle darlo a vedere, garantì anzi sulla sua integrità di arbitro e, quando gli facemmo notare che non avevamo mai vinto un dibattito, rispose che era vero ma solo perché l’altra squadra, cioè lui, si era sempre dimostrata più convincente.
La discussione divenne sempre più surreale e, a quanto ricordo, andò avanti più o meno nel seguente modo:
“E quindi cosa proponete?”
“Di non fare più alcun dibattito e di cominciare a comportarci come una famiglia normale.”
“Questo non è accettabile. Le regole non cambieranno. Almeno fino a quando vivrete in questa casa, o non vincerete.”
“Allora da una parte ci sarai tu e dall’altra noi cinque, come sempre, ma questa volta non potrai essere tu a giudicare.”
“E allora chi lo farà?”
“La mamma?”
“Figuriamoci, vi farebbe vincere anche senza presentarvi. Deve essere qualcuno di veramente imparziale, come lo sarei io, ma visto che siete di diverso avviso… anzi, sapete cosa possiamo fare? Per non avere un doppio ruolo io sarò solo il giudice. Prometto di essere imparziale e di ascoltare la vostra esposizione, senza la possibilità questa volta di essere influenzato dalla squadra avversaria. Giudicherò quindi solo la validità o meno della vostra tesi. L’argomento però lo scelgo io.”
Dopo averne discusso con gli altri fratelli, decidemmo che un’occasione migliore di quella non ci sarebbe mai più capitata. Così accettammo, senza sapere che avremmo dovuto difendere Hitler. Probabilmente si aspettava che rinunciassimo (d’altronde che cosa avrebbe potuto giustificare, anche in minima parte, un Olocausto, una guerra mondiale e la distruzione del proprio popolo?). Invece noi prendemmo la sfida molto seriamente. Per prepararci ci dividemmo tutti i libri e i VHS recuperati in biblioteca e, dopo qualche settimana, cominciammo a mettere giù delle possibili strategie difensive. Non proprio inattaccabili, da quanto leggo nella prima pagina dei nostri appunti che abbiamo ritrovato mentre mettevamo a posto il suo studio:
• INFERMITÀ MENTALE -> Follia. Posseduto dal demonio. Incapacità di intendere e di volere.
• ANEDDOTICA FAMILIARE -> Se Hitler non fosse esistito i nonni paterni non sarebbero dovuti scappare dall’Italia e probabilmente la vita di nostro padre sarebbe stata completamente diversa, non avrebbe conosciuto nostra madre e noi non saremmo mai nati.
• PASSATO DI SOFFERENZA -> Aveva un testicolo solo, orfano di padre, pittore fallito, soffriva di alitosi a causa della sua passione per i dolci, probabile malattia venerea contratta da una prostituta ebrea, omosessualità latente in lotta contro eterosessualità deviata con conseguente sdoppiamento della personalità…
In quel periodo cominciai a sognarlo tutte le notti. Seduto in un seggiolone con i baffetti sporchi di cioccolata mentre mi fissava e sorrideva, mostrando una bocca piena di denti guasti. In un altro giocavamo a sasso-carta-forbice, lui in uniforme e io coperto di stracci, e visto che perdevo sempre, e mi arrabbiavo, nel sogno lui mi appoggiava una mano sulla spalla come se cercasse di rincuorarmi. Oppure in cucina, con una parrucca biondo platino, mentre sbatteva violentemente un frustino dentro a una ciotola e, ammiccando verso la telecamera, diceva una frase del tipo “D’altronde amiche mie, non si può fare una frittata senza rompere qualche uovo”, seguita da una risata scomposta. Succedeva così di frequente che avevo iniziato a trascrivere quei sogni appena sveglio, sperando che contenessero un qualche indizio, un’illuminazione, per permetterci di vincere. Eravamo disperati.
Poi un giorno, frugando nella sua libreria, saltò fuori un testo che non ci saremmo mai aspettati di trovare in casa nostra. Un’edizione Garzanti, del 1941, di un certo Benoist Mechin dal titolo Chiarimenti su Mein Kampf di Adolf Hitler. E in mezzo a un delirio di onnipotenza, ad aneddoti autobiografici e paragrafi densi di propaganda trovammo finalmente lo spunto da cui partire:
• “Allora la mia ambizione era diventare capo d’una comunità di fedeli.”
• “Perciò credo di agire nel senso voluto dal Creatore onnipotente. Lottando contro l’ebreo difendo l’opera del Signore.”
• “Il Cristianesimo divenne grande perché non si accordò mai con altre concezioni filosofiche dell’antichità più o meno simili, ma continuò con fanatica perseveranza a predicare e diffondere unicamente la propria dottrina.”
• “l’opinione pubblica certo insorgerà, protesterà in nome dei “sacri diritti dell’individuo. Ma un sol diritto può dirsi veramente sacro, un diritto ch’è anche dovere altrettanto sacro: quello di permettere all’umanità di elevarsi a condizioni più nobili. E ciò non sarà possibile se si lascia il sangue migliore mischiarsi con sangue impuro…”
• “Nella storia, non poche persone furono, in occasioni simili, lapidati per un gesto di cui i posteri li ringraziarono in ginocchio. Ma un movimento deve pensare ai posteri, non al successo presente.”
• “Ogni popolo ha i suoi profeti. Fortunato il popolo che ha per profeta un uomo politico.”
• …
E così arrivò il grande giorno. Abbiamo provato a cercarlo da ogni parte, ma il VHS di quella gara deve essere andato perduto o forse c’era una tensione tale che nostro padre si dimenticò di accendere la telecamera. L’unica traccia che rimane è la bozza del nostro discorso, presa dal blocco degli appunti, piena di frecce, note a margine e cancellature:
Hitler non fondò un partito ma una nuova religione. La distinzione è fondamentale. Un dogma non è un programma politico. Una congrega di apostoli non è la classe dirigente di un partito. La religione non si occupa del Qui e Ora ma del Là e del Domani; il bene futuro dell’umanità viene prima del bene presente dei singoli individui, mentre un partito politico non può ragionare così, perché gli elettori del futuro non votano. Il concetto di purezza ariana era assurdo? Può darsi, però dal punto di vista di un “gentile” anche le regole ebraiche relative al cibo Kosher lo sono (“non mangerete il porco, perché ha l’unghia bipartita da una fessura ma non rumina, lo considererete immondo.” Deuteronomio). “Non lo mangio perché è immondo”, dice qualcuno. “Vi uccidiamo perché siete immondi”, risponde qualcun altro. Hitler si comportava come un pazzo ai nostri occhi? Può darsi, ma agli occhi dei mercanti come sarà sembrato Gesù? (“Ed entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano e comperavano; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe e non permetteva che si portassero cose attraverso il tempio” – Marco 11,15-19). Ernst Franz Sedgwick Hanfstaengl, che fu addetto stampa di Hitler, racconta che in almeno una circostanza Hitler cercò di conquistare una donna e di sfogare le sue fantasie sessuali inscenando un improvvisato comizio con il frustino in mano, arrivando a paragonarsi a Gesù Cristo che caccia a colpi di frusta i mercanti dal Tempio. Hitler malato? Può darsi, ma non offriva forse, come un nuovo Mosè, a un popolo sconfitto da potenze straniere, umiliato dal trattato di Versailles, senza più una guida, la possibilità di un riscatto? “Beati i miti che erediteranno la terra”. Là e Domani. “Grazie al nazional-socialismo un giorno sarà più onorevole essere spazzino in Germania, con il titolo di cittadino tedesco, che sovrano in un paese straniero”. Ancora una volta, Là e Domani. Gesù ha messo in gioco la propria vita per un ideale ed è morto per quello. E Hitler? Per quanto abominevole fosse, non ha messo in gioco la propria vita sempre per un ideale? Lo stesso George Orwell, nonostante fosse contrario al nazismo, capiva il suo potere di attrazione: “Il fatto è che in lui c’è qualcosa che affascina profondamente. […] Hitler… sa che gli esseri umani non vogliono solo comfort, sicurezza, orari di lavoro comodi, igiene, controllo delle nascite e, in generale, senso comune; vogliono anche, almeno in maniera intermittente, la lotta e il sacrificio di sé stessi, per non parlare dei tamburi, delle bandiere e delle sfilate. Fascismo e Nazismo sono psicologicamente molto più profondi di qualsiasi concezione edonistica della vita.”. Nello stesso Mein Kampf è sempre Hitler a rimarcare la differenza tra i simpatizzanti, che devono essere sempre di più e aderire ai principi, e i discepoli, che devono essere un nucleo ristretto e fedele, ai quali spetta costruire una nuova chiesa. Himmler, Göring, Hess e pochi altri, come apostoli di una nuova religione. Qualcuno potrebbe obiettare che Dio non può essere così malvagio. Può darsi, però cos’è la richiesta di Dio ad Abramo di scarificare il suo primogenito solo per fare la sua volontà. Che differenza c’è tra Abramo che si appresta a compiere la volontà di Dio ed Eichman che risponde: “Ho solo eseguito gli ordini”. I campi di concentramento non sono altro che la conseguenza della cieca obbedienza a un credo, come lo sono state le crociate per la chiesa, o i gulag per Stalin. È sempre stato così, fin dall’antichità, quando per propiziare gli Dei venivano offerti in sacrificio degli animali, e a volte anche degli esseri umani. Se pensi che gli altri siano degli infedeli quello che desideri, per te, per la tua famiglia e per l’umanità intera, è che ce ne siano di meno sulla faccia della terra. In fondo Hitler non faceva altro che gridare parole che tutti volevano sentire. È come se nel corso dei secoli non fossimo mai riusciti a vedere il nostro volto riflesso in quello di chi non appartiene al nostro gruppo, ma solo un’immagine distorta. Come bambini al circo, dentro a una galleria di specchi deformanti, che mentre avanzano si imbattono in esseri mostruosi: troppo bassi, troppo alti, con la testa schiacciata, con un occhio solo. Così simili a loro, eppure così diversi. I bambini ridono ma la vista li inquieta e, se non potessero più uscire dalla galleria, se fossero costretti a convivere con questi esseri immondi, l’unica cosa che sarebbero in grado di fare sarebbe, ancora una volta, quella di distruggerli…
Sarà stata l’educazione formale ricevuta in collegio, unita forse alla passione degli ebrei per le domande, oppure il suo lavoro, che lo portava spesso lontano da casa, ma le gare di dibattito dovevano essere l’unico modo che aveva trovato per relazionarsi con noi, di giocare con i suoi figli. Solo adesso capisco perché scelse Hitler: aveva paura che potessimo vincere.
Quando terminammo, rimase per un po’ a fissare un punto alle nostre spalle poi, come se si fosse ridestato, si alzò dalla poltrona. Le uniche parole che disse furono “Ben fatto”, mentre già si avviava nel suo studio. Aspettammo per un po’ che tornasse, come tutte le altre volte, a comunicarci il suo verdetto, ancora ignari che quella sera non sarebbe successo. E quello fu il giorno in cui diventammo grandi, senza che qualcuno infilzasse la nostra carne con dei pali, senza però nemmeno capire perché facesse comunque così male.
Testo Daniele Israelachvili
Illustrazioni Michele Pieretti