“…e poi prendi questo dal cassetto e filtri la spremuta. Alberto beve l’aranciata solo se non ci sono i pezzi dentro”.
La Signora Renga mimò il gesto di versare una spremuta immaginaria dentro un imbuto sopra cui era poggiato il colino dei Puffi.
A Caterina vennero in mente quei film di fantascienza dove scienziati spettinati versano strane pozioni dentro ampolle e alambicchi, e per un attimo si immaginò che dal bicchiere uscisse un fumo denso e rosato.
“Ti dirà sicuramente che a lui la frutta non piace e che noi gli permettiamo di non mangiarla, ma tu non dargli retta. Se fa storie lo puoi minacciare: o beve l’aranciata, oppure niente dolce. Versa al massimo un cucchiaio di zucchero, non di più. Adesso ti faccio vedere dove teniamo il dolce…”
Caterina continuava a fare sissi meccanicamente, sforzandosi di dare un’aria espressiva ai suoi grandi occhi smeraldo. In realtà non era sicura di avere grandi occhi, e certamente non erano smeraldo. Qualche giorno prima era stata al cinema con le sue amiche, per vedere un film d’amore dove due adolescenti americani passavano gran parte del loro tempo a guardarsi e a descriversi vicendevolmente.
Nella scena clou – quella in cui il ragazzo e la ragazza si ritrovavano di notte nella palestra della scuola e, per la prima e ultima volta in tutto il film, si baciavano –  il protagonista maschile aveva detto: “Ti amo Gwen. Non faccio altro che pensare a te,  istante dopo istante. E so che per te è lo stesso. Me lo sussurrano questi grandi occhi smeraldo, ogni volta che mi guardano.”

Così, appena Caterina era tornata a casa, era corsa in bagno e si era piantata di fronte allo specchio per mezz’ora buona, in cerca dei suoi grandi occhi smeraldo. Servendosi delle dita aveva allargato le palpebre. Aveva stabilito che, se proprio non si poteva parlare di grandi occhi, poco ci mancava.
Era indubbiamente più problematico definire smeraldo le sue iridi castane, ma Caterina aveva liquidato la questione autocertificandole come “marroni-verdi-quasi-smeraldo”.

“Terzo ripiano, dietro le verdure. Mi raccomando, quando hai finito rimettilo dove lo hai trovato, altrimenti Alberto si arrampica e lo finisce”.
Caterina annuì.
“Ecco. Ti faccio un segno. La fetta deve essere di questa grandezza. Mi raccomando, altrimenti Alberto si ingozza e si sente male”.
La Signora Renga uscì dalla stanza senza dire niente. Caterina esitò un istante e poi la seguì nel corridoio. Sulle pareti erano appesi quadri molto grandi – perlopiù paesaggi di campagna – e delle pagine incorniciate, scritte troppo fitte per capirci qualcosa.
“Sono riproduzioni di stampe del ‘500 – disse la Signora Renga, una volta accortasi dell’attenzione della ragazzina – le ho prese…”
S’interruppe, come se si fosse resa conto di parlare da sola.
Salirono le scale in silenzio. La Signora Renga spalancò la porta del bagno di sopra e fece affacciare Caterina per illustrarle dov’erano spazzolini, asciugamani e carta igienica di riserva. Dedicò molto tempo alla spiegazione di come pulire Alberto, nell’eventualità che gli fosse scappata la cacca. Caterina annuì stancamente, poi le due proseguirono oltre.
La stanza di Alberto era grande pressappoco il doppio della stanza dove dormivano Caterina e sua sorella.
Non si era mai immaginata che un bambino di sette anni potesse dormire in un letto matrimoniale. Mentre la Signora Renga estraeva dai cassetti il pigiama e tutto l’occorrente per la notte, Caterina ispezionò le cataste di giocattoli sparpagliate per la stanza: un elicottero, un camion dei pompieri, la caserma dei pompieri, soldatini privi di arti, robot, una casa dei fantasmi, due fucili ad aria compressa.
“Alberto deve essere a letto entro le dieci. Mi raccomando, altrimenti domani mattina non si sveglia e fa le bizze tutto il giorno.”
“Ha-ha, non si preoccupi”, rispose Caterina.
La Signora Renga scrutò accigliata il quadrante dell’orologio.
“Santo cielo, è tardissimo. Il mio compagno starà già aspettando fuori”.
Caterina aveva sentito utilizzare quella parola per la prima volta circa un anno prima, quando sua mamma si era messa con Fausto, che poi era lo stesso che le aveva procurato quel lavoretto come baby sitter.
Sulle prime non aveva inteso la differenza fra compagno e fidanzato. Poi aveva realizzato che un compagno è colui che sta con tua mamma, ma a Natale non è tenuto a farti i regali.
Caterina accompagnò la Signora Renga per il corridoio, assecondandone il passo svelto.
“Il mio numero ce l’hai, per qualsiasi cosa…”, disse la Signora Renga da dietro le spalle.
“Si, signora.”
“Se hai fame puoi farti un panino.”
La Signora aprì la porta d’ingresso. Oltre il cancello un’auto sportiva attendeva con i fari accesi.
“Mi raccomando”, ripetè la Signora Renga con tono vagamente esasperato.
“Non si preoccupi signora. L’ho fatto un milione di volte con mia sorella.”
Caterina rimase sulla soglia a osservare la Signora Renga che zompettava sui tacchi fino al cancello, poi richiuse la porta. Si voltò e fece un piccolo sobbalzo alla vista di Alberto, ritto dietro di lei con le braccia stese lungo i fianchi.
Lo aveva intravisto di sfuggita appena entrata in casa. Il bambino teneva per mano la mamma e studiava la sua nuova babysitter dal sotto in su. Aveva continuato a squadrarla per qualche minuto, poi aveva fatto una strana smorfia e si era dileguato.
Caterina si spostò in salotto e accese il televisore trentadue pollici. L’apparecchio emetteva un sibilo acuto, senza decidersi a far altro. Premette alcuni tasti a caso.
“Ma che faiii! Non si fa così!”, commentò Alberto.
“Ah si? Spiegamelo tu, allora, che sei tanto bravo.”
Alberto le si avvicinò, prese il telecomando e premendo un tasto restituì audio e immagini al televisore.
“Mh. Grazie.”
Caterina si stese sul divano, stando ben attenta a occuparne tutta la lunghezza. Appoggiò i piedi sulla poltrona alla sua destra. Non tolse le scarpe.
In tivvù davano una serie comica, di quelle con le risate finte in sottofondo. Caterina aveva già visto quell’episodio.
“Che facciamo?”, chiese da dietro Alberto.
“Guardiamo la tivvù.”
“Mmm…non mi va”, rispose distratto il bambino, percorrendo col dito la superficie della parete.
“Allora gioca”, sbadigliò Caterina
“Sei la mia babysitter. Devi giocare con me. Sei pagata.”
Caterina sbuffò forte. Si tirò su a sedere, lanciando il telecomando da una parte. Voltò la testa e fissò il ragazzino con lo sguardo più truce che riuscì a sfoderare.
“Ok Sapientino. A cosa vorresti giocare?”
“Non so. Mica mi pagano”, rispose lui, guardando da un’altra parte. Adesso sembrava quasi seccato dalla prospettiva di avere a che fare con la babysitter.
Caterina si avvicinò al bambino. Era uno di quei mocciosi paffutelli dall’aria graziosa e infida, che da adolescenti buttano giù la ciccia (divenuta a quel punto non più tanto carina) per rimpiazzarla con un fisico ben strutturato, probabilmente dovuto alla scoperta di qualche sport minore (scherma, hockey su prato, canottaggio) nel quale si scoprono eccellenti.
“Magari…ti andrebbe di giocare…a nascondino…”

Alberto non reagì. Almeno apparentemente, si limitò a scuotere leggermente le spalle. Ma Caterina riuscì lo stesso a registrare un minuscolo fremito nel corpo del bambino. Conosceva quella reazione: l’aveva testata più e più volte su sua sorella.
“Nessuno mi ha mai battuta a nascondino…”
“Seeee”, sbottò Alberto.
“Ok, scommettiamo? Inizio io a contare.”
Udite quelle parole, il bambino si precipitò scomposto verso il corridoio, lasciandosi scappare un gridolino di terrore divertito.
“Uno…due…”, Caterina si risistemò sul divano.
Seguì per un po’ la sitcom. Le risate erano sparpagliate a casaccio. Cambiò ossessivamente canale, fino a quando non si trovò a ricominciare il giro da capo.
Si tirò su, tolse le scarpe e fece qualche passo sul folto tappeto del salotto. I piedi affondavano lentamente e scavavano un’impronta sulla superficie morbida.
Quando uscì dal perimetro del tappeto, pareva un orto fangoso calpestato da un branco di cinghiali.
Caterina si avvicinò alla credenza e prese una foto di Alberto, ma la rimise subito a posto senza nemmeno dedicarle uno sguardo. Per diversi minuti continuò a compiere dei giri concentrici per la stanza, ora sbirciando fuori dalla finestra, ora tornando sopra al tappeto.
Decise di uscire dalla stanza. In corridoio si potevano ancora udire le risate finte della sitcom che proseguivano impassibili, come se qualcuno fosse obbligato a farlo.
In corridoio accennò due passi di danza che ricordava di aver visto nel film, ma non uscirono fuori molto bene.
Entrò in bagno e vi si chiuse a chiave. Le piacevano molto le piastrelle rosa salmone, davano alla stanza un aspetto accogliente. Aprì lo sportello dell’armadietto dei medicinali e si mise a razzolare come aveva visto fare in certi polizieschi. Le scatolette e le boccette avevano tutte nomi difficili da pronunciare e forme e dimensioni parecchio differenti fra loro. Estrasse un blister da una scatola e si ficcò una compressa in bocca. Cercò di intuire con la lingua la funzione di quel medicinale, ma la compressa non sapeva di nulla. A un certo punto ebbe il timore di aver ingoiato qualcosa di letale e la sputò nel gabinetto. Si sciacquò la bocca con l’acqua del lavandino e meditò perfino di provare a vomitare, ma poi rinunciò.
Nel mobiletto accanto allo specchio trovò i trucchi della Signora Renga. Prese una confezione di terra e iniziò a stenderla sul viso con il pennello, cercando di scolpire gli zigomi come le aveva insegnato una compagna di classe più smaliziata.
Poi adoperò l’ombretto, passò la matita sugli occhi, eyeliner e mascara. Indietreggiò e si guardò allo specchio. Si rese immediatamente conto di essere stata troppo grossolana con la matita. Quella ragazzina volgare che la fissava oltre lo specchio facendo una smorfia non assomigliava nemmeno lontanamente alle sue compagne di classe.
Caterina tolse la maglietta e si specchiò. Il seno non accennava a fare progressi. Controllava la situazione quasi tutti i giorni, ma nulla sembrava essere cambiato dal giorno della sua nascita.
“Calma piatta”, come diceva sempre sua madre quando la sorprendeva  davanti allo specchio a studiarsi.
Sfilò anche i jeans e si spostò di fronte a uno specchio che arrivava a toccare terra.

Di recente aveva registrato con orrore la presenza di alcune smagliature sui fianchi. Nel corso della primavera era dimagrita diversi chili in un sol colpo e quella era la ricompensa dei tanti sforzi. Tentò di tirare la pelle con le dita, ma le striature bianche rimanevano al loro posto, solo più tese. Girò su se stessa un paio di volte, per esaminarsi da diverse angolazioni. Potrei essere grassa come Licia, considerò.
Ogni volta che si specchiava pensava Potrei essere grassa come Licia – la sua compagna di classe obesa – ma quel dato di fatto non la faceva mai sentire meglio.
Per Caterina sentirsi brutta era una sensazione simile a quando ti svegli la mattina di cattivo umore perché sai che dovrai fare qualcosa di spiacevole, ma non ricordi cosa. Allo stesso modo, lei trascorreva gran parte della sua esistenza sopraffatta da un’ineffabile sentore di sgradevolezza che riusciva a comprendere soltanto nel momento in cui guardava la propria immagine riflessa. Allora sì che lo stomaco schiudeva il suo bolo d’angoscia in una dimensione di realtà e autocommiserazione.
Alcuni colpi contro la porta la misero in allarme. Raccolse in fretta i vestiti e aprì.
“Non stai giocando”, disse Alberto con disprezzo.
“Ti ho cercato ovunque. Hai vinto.”
“Cosa ti sei messa in faccia?”, le sue parole avevano una vibrazione feroce
“Nulla. È solo del trucco. Lo avevo anche prima.”
“Non è vero! Sei una bugiarda!”, il bambino stava per mettersi a piangere.
È ora di cena. Non hai fame?”
“Sei una bugiarda”, ripetè, stavolta più piano.
“Tua madre si arrabbierebbe molto se scoprisse che hai fatto storie, non è vero? Che cosa farebbe secondo te? Ti toglierebbe i giocattoli?”
Alberto non rispose, si limitò ad abbassare il capo e a stringere i pugni, infine seguì Caterina lungo le scale.

Mangiarono del pollo scaldato, in silenzio. Uno dei due accese il televisore accanto al micro onde, i clangori di un cartone animato si confusero con la voce strozzata e scandita di un annunciatore del notiziario, che proveniva dalla televisione del salotto.

Il ragazzino mangiò lentamente, interrompendosi di continuo per giocare con una mollica di pane o un ossicino di pollo.
Quando ebbero terminato Caterina spremette un’arancia e mise il bicchiere sotto il naso di Alberto.
“Non mi va”, con un gesto della mano allontanò il bicchiere.
“Avanti, non fare storie.”
“La mamma non mi da mai la frutta.”
“Non è vero. Bevi forza.”
“No!”
“Ho detto bevi. Non fare storie.”
“Ha i pezzi! Io non la voglio coi pezzi.”
Caterina alzò la voce, stando ben attenta a non tradire esasperazione.
“Che devo fare? Devo chiamare la mamma? Eh?”
Si alzò e fece per dirigersi verso il telefono.
“No!”, protestò Alberto
“O bevi o chiamo”, disse Caterina, mettendo una mano sulla cornetta.
Il bambino afferrò il bicchiere e lo mandò giù tutto d’un colpo, strizzando gli occhi. Grosse lacrime scendevano taciturne lungo le guance.
Caterina iniziò a bruciare di un fuoco strano, dentro di sé.
Se avesse avuto altre cento arance, avrebbe continuato a fargliele trangugiare fino a che il suo piccolo stomaco non fosse scoppiato. Si immaginò l’espressione di Fausto, una volta giunto a conoscenza della notizia: un bambino di sette anni ucciso dalla figlia della sua compagna. Era stato lui a proporle di trovarsi un lavoretto per l’estate, a darsi da fare per mettere via qualche risparmio.
“Chissà che faccia”, sussurrò.

A un certo punto si vergognò di ciò che stava facendo. Inoltre temette che il ragazzino potesse spifferare tutto alla mamma, così tagliò una fetta di dolce ben oltre il limite concesso dalla Signora Renga.
Alberto mangiava remissivo, la faccia triste e sporca di cioccolato affondata nel piatto.
“Potremmo giocare a nascondino”, propose Caterina con un sorriso.
Alberto non rispose.
“Dico davvero. Stavolta faccio sul serio.”
“Non vorrai mica andare a letto alle nove? I bambini piccoli vanno a letto alle nove. Tu sei un bambino piccolo?”
“No!”, si affrettò a ribattere Alberto
“E allora giochiamo.”
“E va bene. Però stavolta conto io, così se fai finta me ne accorgo.”
“Andata.”
Caterina non attese nemmeno che Alberto si fosse alzato dalla sedia e si precipitò fuori dalla stanza. Fece le scale di corsa a due a due. Intanto sentiva Alberto contare a voce alta dal piano di sotto.
“Uno, due, tre…”
Aprì la porta del bagno, ma decise di non entrare.
“…quattro, cinque…”
Continuò per il corridoio, avanzando a tastoni. Adesso era diventato tutto buio. Caterina iniziava a sentirsi a disagio in quella casa gigantesca e spigolosa.
Si infilò in camera di Alberto. Dopo essersi guardata un po’ attorno, considerò che lo spazio fra il muro e l’armadio si sarebbe potuto rivelare un buon nascondiglio, se fosse riuscita a trascinare di qualche passo lo scatolone con i giochi di Alberto.
“…sei, sette, otto…”
Effettivamente poteva andare. Caterina non era molto alta, ed era dotata di una certa flessibilità. Si accucciò e infilò la testa fra le ginocchia, fin quasi a toccare il pavimento.
“…nov.. DIECI!”
Caterina realizzò di aver preso troppo seriamente la sua missione. Se ne vergognò. Dopotutto non aveva più sette anni. Eppure non riuscì a staccarsi dalla sua posizione ridicola. Le mani che abbracciavano le ginocchia, la testa ficcata fra le cosce, come uno stupido struzzo.
“Arrivo!”
Avrebbe trascorso volentieri un bel po’ di tempo laggiù. Era come se il buio nel quale era sprofondata l’avesse accolta per sottrarla al resto del mondo.
In una placida liquidità di spazio e ricordi, Caterina sentiva defluire tutto ciò che non andava della sua vita: il divorzio dei genitori, le smagliature, Fausto, le compagne di classe, una stanza troppo piccola da dividere con una sorella non abbastanza grande, la calma piatta che troneggiava sul suo petto.
Si trovava adesso in un film di fantascienza, criogenizzata dentro una capsula di salvataggio in fuga da una civiltà in disfacimento e diretta verso la forma di vita più vicina.
Non le sarebbe dispiaciuto risvegliarsi fra qualche anno, adulta e indifferente ai turbamenti della sua età. Iniziò a cullarsi leggera, come smossa da un vento inoffensivo.
Stava quasi per assopirsi. I passettini di Alberto che frugava nelle altre stanze erano un sottofondo rassicurante.
“Una volta tornata a casa, chiederò scusa alla mamma”, meditò mezza intontita. Per cosa, non lo sapeva neppure lei.

Rinvenne tutta d’un colpo, non appena avvertito il tonfo secco. Stunff.
Si alzò in piedi, indecisa sul da farsi. Non se la sentiva di darla vinta ad Alberto. Alla fine decise di andare a controllare cosa diavolo avesse combinato quel moccioso.
Percorse a ritroso il corridoio, procedendo con cautela nella semi oscurità. Qualcuno aveva acceso la luce del bagno. Una schiera di ritratti la fissava severa mentre lei sfilava davanti. Chiamò un paio di volte il ragazzino, senza ottenere risposta. Si mise a correre. Una volta giunta in prossimità della stanza sbandò, effettuando una frenata da cartone animato per non cascare.
La prima cosa che vide fu la striscia di sangue che percorreva lo spigolo della vasca e disegnava una linea sottile e piuttosto precisa  fino al pavimento. Era più densa e scura di come si sarebbe potuta immaginare il colore del sangue. Per qualche secondo rimase imbambolata a valutare come, al riscontro pratico, quel colore risultasse terribilmente fasullo, da film horror di serie B.
Solo in seguito decise di accettare la presenza di Alberto, sdraiato per terra, circondato attorno al capo da un’aureola tinta di sangue.
“Il mio angioletto, oh il mio angioletto!”, era la Signora Renga a chiocciare nella sua testa, riparata dentro il riquadro di un telegiornale.
“Bambino ucciso dalla babysitter”, diceva la striscia sotto la Signora Renga, che continuava a lamentarsi. “Il mio angioletto, il mio angioletto!”
Mentre l’annunciatore dalla voce impostata tentava di tranquillizzare la Signora, Caterina si avvicinò al corpo del bambino.
Già non somigliava più tanto a una cosa viva ma, con un piccolo sforzo di immaginazione, si poteva interpretare la sua espressione come leggermente assorta, o contrariata.
Lo sguardo no. Lo sguardo ero stolto, tipo quello delle bambole di porcellana con cui giocava Caterina da piccola. Uno sguardo di nulla e buio, che non pretende e non s’illude. Due occhi inchiodati, immobili. Due occhi verdi. Quasi smeraldo.
Testo: Martin Hofer
Immagini: Bernardo Anichini

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