Finalmente Jane avvista l’ex marito nella fila di passeggeri scesi dall’aereo e ansiosi di gettarsi tra le braccia dei propri cari. Anche Bert è appena atterrato. Si sta dirigendo verso la sala d’aspetto dove Jane è seduta.
Bert ha sempre la stessa aria aristocratica che l’aveva conquistata quando erano ancora ventenni, solo che in questo momento sembra alto la metà di quanto fosse quando si sono conosciuti. Possibile si sia ristretto dall’ultima volta in cui l’ha incontrato? Forse era stata lei ad attribuirgli una statura regale che non gli è mai corrisposta.
Lui la nota, le fa un cenno con la mano e lei lo saluta di rimando; le spalle di Bert sembrano più strette, così come il suo viso, un tempo leonino. È un uomo minuto con una giacca di tweed a coste, il petto non più largo di quello di una ragazzina. Jane s’immagina che sia semplicemente colpa della vecchiaia: le donne si espandono, gli uomini si contraggono.
Jane tiene sulle ginocchia la borsa col vestito da madre della sposa che non ha voluto rischiare di imbarcare. Lei e Bert hanno fatto coincidere i loro voli la mattina presto, da Sacramento e Santa Monica, per arrivare all’aeroporto di Boston a distanza di mezzora l’uno dall’altro e andare insieme al matrimonio della figlia.
Anche le loro versioni erano state fatte coincidere, avevano concordato insieme le rispettive scuse per non andare alla cena la sera prima: mesi fa, al telefono, si erano confessati a vicenda di non potercela fare ad affrontare la cena di prova e tutto il resto della trafila.
Bert dice di non saper bene come reagire all’idea delle nozze di Betsy; Jane, invece, dopo il divorzio, si ritrovava in preda all’ansia durante ogni matrimonio, e in preda alla depressione subito dopo.
Lei e Bert faranno il check-in allo stesso albergo prima del matrimonio; vi alloggeranno dopo il ricevimento, e il giorno dopo torneranno insieme all’aeroporto, guidando l’auto che Bert ha preso in affitto.
Betsy aveva accettato l’assenza del padre alla cena senza protestare, ma era sembrata visibilmente infastidita da quella di Jane, che le aveva detto di essere stata trattenuta in California fino all’ultimo minuto da un paziente con manie d’abbandono e tendenze suicide. Storia che, peraltro, non era del tutto falsa.
Jane è partita così di fretta che non ha neanche avuto il tempo di lavare i piatti ancora sporchi in cucina. Li ha semplicemente presi – avanzi e tutto – e spostati dal tavolo per poi ficcarli nel congelatore, un trucco che ha imparato da uno dei suoi pazienti. Più di uno dei suoi clienti nevrotici le aveva dato consigli utili del genere in passato.
Jane sa che chiunque veda lei e Bert al terminal potrebbe scambiarli per una “coppia.” Bert mostra lo splendente sorriso bianco che si è comprato a Beverly Hills e, quando Jane si alza per salutarlo, addirittura la abbraccia. Potrebbe sembrare che si appartengano – ed effettivamente era sempre stato così.
“Stai benissimo”, le dice Bert, prendendola per un braccio per guidarla nell’onda di passeggeri che si dirigono verso i banconi del noleggio auto.
“Sai sempre cosa dire”, gli risponde Jane, arrossendo suo malgrado. Si domanda se il pizzetto da hipster di una certa età di Bert serva a nascondere mascella e mento cascanti.
Lui si assenta un secondo per andare in bagno, lasciando la sua valigia ai piedi di Jane. Lei si appoggia a una colonna e pensa alla prima volta in cui lo aveva visto.
La sua postura era stata la prima cosa che aveva notato. Al tempo, Bert indossava sempre cappotti maestosi. Era chiaro che non venisse dalla costa ovest – e forse neanche da questo mondo. Teneva sempre le mani in tasca; i suoi soprabiti di lana erano ruvidi e voluminosi e gli colpivano i polpacci a ogni passo. Quando Bert si faceva largo tra la folla, il sole danzava tra i suoi capelli d’oro come per miracolo, coi raggi di luce che gli saettavano tra le ciocche come un’aureola bizantina.
Jane non aveva mai visto un uomo camminare così dritto, con le spalle così squadrate. Si meritava proprio di indossare quel cappotto; era fiero, glorioso.
Bert torna dal bagno, sorprendendola di nuovo con la sua bassa statura, insieme si dirigono verso il noleggio auto. Mentre camminano l’uno accanto all’altra, Jane si sorprende a lanciargli occhiate di sottecchi, nel tentativo di accettare l’idea che quest’uomo dalla barba grigia sia lo stesso giovane principe ancora bene impresso nella sua memoria.
“Ti manca la tua attività di dog-sitter?”, chiede Bert.
Jane si chiede se Bert voglia semplicemente essere gentile, fare due chiacchiere di circostanza, o se la sia stia trattando con condiscendenza. Non riesce a capire se la domanda sia stata posta con leggerezza o con malizia, ma Jane sa benissimo ciò che Bert aveva pensato quando lei aveva deciso di lasciare il suo studio di psicologia clinica per quasi un anno per dedicarsi a fare la dog-sitter. Come si era aspettata, Bert l’aveva definita una perdente, anche quando aveva deciso di riprendere il suo posto di psicoterapeuta.
Questo accenno di critica da parte di Bert la fa sentire come si era sentita tante volte in presenza dei suoi genitori, col sangue che le ribolliva come quello di un’adolescente ribelle.
Camminano in silenzio; Jane è troppo nervosa per rispondere alla domanda di Bert riguardo la sua situazione finanziaria.
“Stai meglio, ora, economicamente?” chiede Bert, apparentemente inconsapevole della reazione di Jane.
Lei ha l’impulso infantile di replicare con una frase come, “cosa te ne importa di come sto economicamente?”
Non è riuscita a scordare che negli anni successivi al divorzio, Bert l’aveva praticamente costretta ogni mese, giorno dopo giorno, ad andare a chiedergli il sussidio per il mantenimento dei figli come stabilito dalla corte; Jane non aveva mai creduto a Bert quando diceva di essersi dimenticato di spedire l’assegno in tempo.
A lavoro, Jane nota spesso che determinati meccanismi sembrano provocare nei suoi pazienti una regressione; qualcosa scatta e, inevitabilmente, i suoi clienti cominciano a usare la lingua e il vocabolario delle loro vite passate. Quanti ne ha sentiti scivolare improvvisamente nelle peggiori espressioni possibili – “Io faccio quello che voglio,” o semplicemente “no!”, come se fossero tornati ottusi marmocchi.
Jane stessa si era sorpresa a regredire proprio la settimana precedente, quando era andata a San Francisco.
Un uomo alto e robusto in un bel completo su misura aveva spintonato tutti per arrivare in cima alla fila della metropolitana, facendola quasi franare a terra. Jane si era sentita sibilargli, nel tono sprezzante tipico di una radicale degli anni Sessanta: “ma che problemi ha?”
Ora, con Bert, le parole bastardo di un borghese cercano di arrampicarsi su per la gola per uscirle fuori.
La rabbia le ha appannato la vista; mentre camminano, il terminal sembra pulsarle davanti agli occhi come una lampada stroboscopica, e il suo campo visivo sembra scurirsi, quasi arrossarsi.
Sto impazzendo, pensa, scioccata dalla sua stessa mancanza di controllo, e, nel tentativo di trattenere qualsiasi accenno di ostilità nei confronti di Bert, cerca di fare un respiro profondo usando la sua solita tecnica addominale. Questo breve percorso fino al noleggio auto sembra esser durato un’ora e Jane sa di avere appena avuto un “episodio”. Si costringe a calmarsi, fa un altro respiro per tranquillizzarsi e il terminal sembra tornare a uno stato di normalità. Si volta a guardare Bert, che ha un’espressione distesa mentre aspetta la risposta di Jane con un mezzo sorriso dipinto in faccia. Il brutto momento è passato e Jane si sente di nuovo se stessa.
“Il mio lavoro procede bene – gli risponde finalmente – Anche se, in un certo senso, ero più felice con i cani”. Bert le mette un braccio intorno alla vita.
“Davvero? – domanda – Mi ricordo che un tempo preferivi i gentiluomini”.
Ridono insieme, e continuano a camminare, di nuovo di pari passo.
Jane si siede sulla panca nella prima fila del lato della sposa e aspetta di vedere Bert e Betsy avanzare fino all’altare della chiesa di Santo Stefano. Betsy sta per sposare Stu. Jane sapeva che il matrimonio sarebbe arrivato fin dal primo momento in cui Betsy le aveva parlato del suo nuovo fidanzato, tre anni prima – Jane aveva capito al volo che Betsy l’avrebbe sposato, e si era immaginata immediatamente come madre della sposa in un matrimonio vecchio stile a Boston.
Jane presume che Betsy e il suo futuro marito saranno una di quelle coppie in cui tutti amano lui ma odiano lei, proprio come era accaduto a lei e Bert. Sua figlia è intelligente, onesta e fondamentalmente buona, ma ha quest’aura di precisione, quasi tensione, che può risultare un po’ sgradevole a chi non la conosce bene. Al contrario, il futuro marito, per quanto incredibilmente insipido, ha un sorriso a trentadue denti e un talento per i convenevoli che attira la gente come vespe col pollo fritto.
Un accordo dall’organo sembra dare inizio alla cerimonia, e quasi nello stesso momento la congregazione si alza e comincia a emettere tanti ooh alla vista di Betsy.
Quando vede Betsy camminare lungo la navata, Jane capisce per la prima volta cosa significhi l’espressione “volteggiare”.
L’altare brilla d’oro e d’argento; i raggi del sole penetrano dalle vetrate colorate e Bert e Betsy sembrano immersi in un bagliore rosato mentre avanzano tra le panche.
Una scena ben diversa dal suo matrimonio con Bert, durante il quale Jane e Bert si erano diretti a grandi passi verso l’altare di una cappella unitariana volutamente semplice.
Avevano deciso di procedere insieme per evitare la scena in cui Jane veniva “data in sposa” dal padre al futuro marito; entrambi la consideravano una tradizione patriarcale.
In Betsy, che si è presentata con un’affascinante acconciatura alta e un trucco realizzato da un team volato a Boston da New York, non c’è nulla del passo esitante che si vede così spesso ai matrimoni, e certamente non c’è niente del passo affrettato di Jane quando aveva sposato Bert. (Jane non osa pensare al suo secondo matrimonio neanche per un momento – tutto questo non ha assolutamente niente a che vedere con la dozzinale cerimonia a Las Vegas che aveva inaugurato la sua sfortunata unione con Andrew).
Aveva sperato che Betsy potesse indossare il vestito da sposa di sua nonna, ma sapeva che era una fantasia irrealizzabile. Le giovani donne di oggi sono più imponenti di quelle di un tempo. Nonostante non abbia un filo di grasso, Betsy è più alta di suo padre, mentre le sue spalle e fianchi sono larghi il doppio di quelli di Jane.
Indossa un lungo vestito bianco, di nuovo di moda tra le spose. Jane, le sue amiche e la maggior parte delle spose della sua generazione avevano terrorizzato i propri genitori col loro rifiuto di indossare il bianco e un totale disprezzo per il velo.
Durante i suoi periodi più bohémien, Jane era andata parecchie volte ad ascoltare i discorsi motivazionali che un guru spirituale teneva ogni martedì sera all’innovativa Glide Memorial Church. Il guru, Baba-qualcosa, un hippie di mezza età con un discreto seguito, parlava molto di vivere nel Qui e Ora. Persino a quei tempi, Jane aveva problemi col Qui e Ora.
Il più delle volte, i suoi pensieri si incagliano nel passato; e spesso si trova ancora sopraffatta dall’ansia per il futuro.
Nella cattedrale si sente stordita, tormentata sia dai ricordi del suo euforico matrimonio con Bert e del loro estenuante divorzio, sia da visioni di Betsy e Stu che si scontrano a corte per un’eventuale separazione, magari tra un paio d’anni, con Stu che può contare sulla mafia legale irlandese di Boston e un formidabile accordo prematrimoniale – Stu potrebbe persino finire a chiedere gli alimenti, come qualche uomo ha cominciato a fare di questi tempi.
Magari ci sarà anche un figlio di mezzo, e Stu se lo porterà via in Svizzera; Betsy dovrà tirare fuori una fortuna per rintracciare il bimbo e riprenderselo.
Mentre Jane guarda Betsy attraversare la navata, tutto, in quel preciso istante in quella cattedrale di Boston, sembra scintillare e diventare quasi fiabesco.
A Jane capita spesso di pensare che i film sembrino più reali della vita vera e in questo momento la vita sembra essere più costruita di un film. Nella chiesa c’è un fulgore accecante che si fa sempre più pesante nella sua testa, e piccole linee sinuose, come in un miraggio, ondeggiano sul viso sorridente e bellissimo di Betsy.
Jane sente un improvviso calore inondarle il petto e bruciare su, su, verso il suo viso; le ronzano le orecchie.
Oh Dio, pensa, non ora – che reazione trita e ritrita. Dovrebbe proprio evitare di svenire al matrimonio di sua figlia.
“Vai a prendere un panno bagnato nell’ingresso”, Jane sente dire a un uomo con un forte accento di Boston.
Jane riprende conoscenza; è sdraiata, ma riesce quasi ad alzare la testa da quella che pensa sia una moquette e a dire, “sto bene”. Ma quando prova a parlare non esce niente. Nel suo campo visivo – per la verità, non visivo, dato che ha gli occhi chiusi – scorge improvvisamente l’immagine di un’anguilla che si contorce in acque color inchiostro. All’università, Jane aveva seguito un corso di zoologia e aveva studiato che le anguille, durante l’età dello sviluppo, sono completamente trasparenti. Potevi mettere un’anguilla su una pagina di un libro e leggervi attraverso; se volevi, potevi leggerti Anna Karenina, attraverso il corpo di un’anguilla.
Starsene sul pavimento è sempre strano, pensa. L’odore della moquette le ricorda momenti spiacevoli; si trova col naso nel tappeto solo quando le cose stanno andando a rotoli. Nessuno usa più i sali, per cui, quando sviene, si risveglia di solito con l’odore di tappeti ammuffiti e pelle di scarpe. Durante i suoi due divorzi, e anche dopo, quando Lars è morto, Jane ha passato parecchio tempo faccia a faccia con la moquette, a piangere sul pavimento.
“Eccola qua!” qualcuno dice allegramente quando Jane apre gli occhi; lei lo riconosce: è uno dei cugini di Stu.
“Stavamo giusto per chiamare l’ambulanza”, le dice, porgendole una mano dalle dita ossute, come se Jane si dovesse inchinare a un ballo delle debuttanti.
“Mi dispiace – gli dice – ho fatto una sceneggiata.”
“Niente affatto”, risponde il cugino di Stu, prevedibilmente gentile.
Jane si domanda come si chiami – forse un altro nome con la S, tipo Skip o Sandy o un altro di quei nomi da circolo nautico.
“Le prendo un po’ d’acqua”, le dice, e i suoi pantaloni scompaiono dal campo visivo di Jane, il retro dell’abito da sera che campeggia sul suo sedere aristocraticamente atletico. Scott, ecco il nome.
Spence, lo zio di Stu, la sorprende tirando fuori un piccolo fiaschetto d’argento dalla tasca dei pantaloni per piazzarglielo sotto il naso.
“Ne prenda un sorso – le dice – La rimetterà in sesto”.
O mi darà il colpo finale, pensa Jane, ma beve lo stesso, e Spence pure.
Jane potrebbe giurare di averlo visto esitare prima di toccare il fiaschetto con le labbra, tentato di pulire il bordo come un chierichetto quando deve passare il calice dell’eucarestia alla prossima persona in fila.
Una buona educazione si nota sempre, pensa lei, guardando Spence prendere un lungo sorso. Può quasi leggere i suoi pensieri suggerirgli che Jane viene da San Francisco, e di conseguenza potrebbe avere l’AIDS.
Jane dice a Spence di tornare alla cerimonia; lei aspetterà nella… come potrebbe chiamarsi? Sagrestia? A dire il vero, il suo didietro ha raramente riscaldato la panca di una chiesa dopo il suo matrimonio con Bert, fatta eccezione per qualche battesimo dei figli di amici e per un paio di domeniche pasquali.
Non vuole neppure prendere in considerazione la cappella del suo matrimonio a Las Vegas, dove un tizio cirrotico vestito da Elvis aveva celebrato il suo matrimonio con Andrew.
Quando Spence apre la porta per uscire, Bert appare improvvisamente sulla soglia, come se avesse appena ricevuto una battuta d’entrata.
“Jane! – dice – Stai bene?”
È pallido, ma Jane non crede che il suo colorito sia da attribuire a una particolare preoccupazione nei suoi confronti – semmai è dovuto al fatto di aver appena dato in sposa la figlia a Stu Williams.
“È ufficiale?” domanda lei, senza alzare la testa dal tessuto ruvido del divano dove è sdraiata.
“Stanno uscendo ora – risponde Bert – Volevo semplicemente assicurarmi che tu stessi bene.”
Povero Bert, che prova sempre a fare la cosa giusta – o almeno, a dare l’impressione di star facendo la cosa giusta.
“Sto bene – gli risponde Jane. – Ma Betsy?”
Bert prova a rassicurarla dicendole che non ha rovinato in alcun modo il matrimonio, ma Jane lo interrompe.
“Andiamo a lanciare il riso.”
Finalmente si alza e si dirigono insieme verso gli scalini della cattedrale, dove lanceranno chicchi di riso alla figlia che hanno concepito quando erano ancora pazzamente innamorati l’uno dell’altro.
“Penso che Betz e Stuart dureranno – sussurra Bert, guidando Jane fuori dalla chiesa per unirsi alla folla – Williams ha la testa sulle spalle”.
Il solito Bert, pensa Jane, sempre a cercare il lieto fine.
“Betsy ha pianto durante il giuramento?” gli chiede.
“No – risponde lui – sembrava davvero felice”.
Jane non dice cosa pensa – se Betsy fosse stata davvero felice, probabilmente avrebbe pianto. Gli occhi asciutti sull’altare sono un segno di ripensamento, molto più che le lacrime; almeno, questa è stata l’esperienza di Jane. Ma forse Bert si è scordato di quanto avevano pianto insieme durante il giuramento, coi cuori che davvero bruciavano di passione?
D’altra parte, Bert sta probabilmente pensando che unioni così passionali durano poco, e sicuramente la loro non ha fatto eccezione. Jane presume che Bert sia contento che Betsy abbia scelto di avere un tiepido matrimonio col suo compagno di jogging e comproprietario della loro casetta in affitto a Beacon Hill, invece che con un uomo di cui sia selvaggiamente innamorata. Il matrimonio durerà di più, probabilmente, e se anche ci fosse un divorzio in vista, sarebbe meno doloroso.
I testimoni dello sposo stanno passando pacchetti di riso; lei e Bert ne prendono un paio.
“Trattala come si deve!”, Bert grida a Stu, mentre gli lancia i chicchi di riso sulle gambe.
Jane lancia una manata o due dal basso verso l’altro delicatamente, cosicché i chicchi bianchi possano atterrare un passo o due dietro il vestito bianco di Betsy. Jane saluta Betsy e Stu con la mano, come stanno facendo tutti, mentre la coppia entra nella limousine; Cristo, c’è ancora tutto il ricevimento da affrontare.
“Mi sembra di aver capito che lei venga da San Francisco”, le dice l’ennesima esponente dell’alta società di Boston.
Jane ha appena preso un bicchiere di champagne da un vassoio offertole da un cameriere, e ora sta scrutando la pista da ballo in cerca di Bert. Riconosce la donna che le sta parlando come una delle molte a cui ha stretto la mano bardata di diamanti, qualche ora prima, in fila al ricevimento. Come tutti stasera, la donna sbaglia a pronunciare il nome della città natale di Jane, enfatizzando la sillaba Fran invece che sfiorarla, e rimarcando il cis.
Circa un’ora fa, Jane ha smesso di dire “Sì, vengo da San FruhnSISco”, e ha cominciato ad annuire e a sforzarsi di sorridere.
“E cosa fa lì?” chiede la donna.
Jane è perfettamente consapevole di cosa la donna le stia effettivamente chiedendo: siamo sicuri che Stuart Williams si sia associato a una buona famiglia? Davvero i genitori della sposa – divorziati! – possono permettersi questo matrimonio così sontuoso?
“In realtà vivo a Cheever, al momento – le dice Jane. – Una cittadina nel Nord della California. Ho uno studio di psicologia clinica”.
“Davvero?” incalza la tizia.
La fibrosità delle vene sulle mani della donna – probabilmente abbronzate in un centro estetico – sembrano suggerire che sia parecchio più anziana di Jane, ma il suo viso è stato sapientemente lisciato da un buon chirurgo plastico, e i suoi capelli grigi sono tinti e striati di biondo.
“Ho corso la Maratona di Boston con alcune donne dalla Bay Area che lavorano come psicologhe alla Langley-Porter”, continua – Lei fa parte della Langley-Porter a San Francisco?”
Jane non sa bene perché non riesca ad assecondare la donna con qualche commento educato su associazioni ospedaliere di prestigio, per poi lasciare che le cose vadano come devono andare. Ma no: deve necessariamente attaccarsi all’idea perversa di dire la verità.
“In realtà, l’ultima volta che ho vissuto in città – comincia – Mi sono presa un anno sabbatico per occuparmi di animali”.
Jane studia con soddisfazione l’ammirabile sforzo della donna nel mantenersi il sorriso in faccia.
“Avevo un’attività di dog-sitter.”
“Sul serio?”
L’espressione sul viso della donna diviene leggermente crudele quando il suo sorriso di convenienza si restringe.
Betsy e Stu, leggermente sudati dai balli in pista, appaiono all’improvviso, come se avessero percepito quello che Betsy chiamerebbe un “problema”. Stu abbraccia la donna.
“Paige! Ci sei mancata all’evento di Amnesty”, le dice, e i due cominciano a chiacchierare. Betsy si rivolge a Jane, a voce bassa.
“Sei sicura che ti faccia bene bere champagne dopo essere svenuta?”
“Non ho sbattuto la testa, Betz – risponde Jane, un po’ offesa dalle parole della figlia, per quanto sia decisa a ignorare il commento – Ti prometto che non comincerò a sbavare”.
Betsy si volta per dire qualcosa a Stu e alla fibrosa Paige. Jane immagina che più tardi, in camera con Stu, Betsy farà qualche commento tagliente – non riesco a credere che mia madre abbia fatto una tale scenata durante la cerimonia: svenire! Jane stessa non riesce a ignorare gli elementi psicogeni del perdere i sensi: si è letteralmente chiamata fuori dalla cerimonia. Si augura di poter svenire di nuovo adesso, ma la sua psiche non gliela darà vinta.
Paige O’-qualcosa ha cambiato obiettivo, e Stu, adesso, torna a rivolgerle l’attenzione.
“Jane – le dice, con un’espressione cordiale sul viso arrossato – ora che io e Betsy ci siamo sposati, posso chiamarti Mamma?”
L’unica risposta che le viene in mente è una battuta probabilmente abusata: semmai puoi chiamarmi un taxi. Jane sa benissimo che la risposta che sta cercando di reprimere non è del tutto campata per aria: un taxi è proprio ciò che vorrebbe in questo momento. Abbraccia Stuart, dice la cosa giusta e – quasi – la pensa davvero.
“Certo che puoi chiamarmi Mamma, caro.”
La band decide che questo è il momento giusto per attaccare un’inevitabile cover di “I Left My Heart in San Francisco” dedicata alla sposa. I neosposini sorridono raggianti e tornano sulla pista da ballo, accompagnati da un applauso – sembrano più fratello e sorella che una coppia di innamorati. Probabilmente Bert ha ragione, pensa Jane: Betsy e Stu dureranno.
Da sposati, un aspetto che Jane aveva sempre apprezzato di Bert – nonostante, adesso, la cosa non manchi certo di una discreta dose di ironia – era la sua abilità nell’intuire il momento di andare. Non appena arrivava il momento di contare le perdite e levarsi dalle scatole, Bert usciva di scena.
A Jane bastava fare un semplice cenno e lei e Bert se ne andavano immediatamente.
Potevano essere a un ricevimento come a un cocktail party, non aveva importanza: Jane andava in bagno, e poi si avviava piano piano verso l’uscita mentre Bert la aspettava già in macchina, col motore acceso.
Quando erano sposati, erano usciti dal cinema dopo i primi quindici minuti di Jurassic Park – anche troppi per i loro gusti – nonostante avessero affrontato due ore di fila per entrare.
Avevano pagato una fortuna per i biglietti della Turandot, ma durante il primo atto Bert aveva cominciato ad appisolarsi e a Jane era venuto mal di testa, per cui erano usciti in silenzio dalla Opera House, e, prima dell’intervallo, loro due erano già a letto, a sorseggiare due bicchieri di crema di sherry.
Per fortuna questo aspetto di Bert non è cambiato: mentre gli sposini s’impossessano della pista da ballo, Jane vede Bert ballare con una signora di una certa età. Gli lancia un’occhiata, poi si dirige verso il camerino dei cappotti. Lo sente immediatamente dire qualcosa alla sua partner di ballo, in un tono di finta preoccupazione – “la mia ex moglie sembra non sentirsi bene”.
Jane si passa una mano sulla fronte, come se davvero le facesse male la testa. Sa di poter usare il suo svenimento come carta per andarsene presto. Dopo che Bert ha accompagnato l’anziana signora fino alla sua sedia, lui e Jane si guardano.
A quanto le sembra, Jane riesce a defilarsi senza essere vista, e aspetta con discrezione di fronte al Club Metropolitan. Sa che a momenti Bert accosterà la sua auto affittata e saranno in fuga verso l’albergo. Jane prova un’ondata di euforia quando Bert parcheggia l’auto e si protende per aprirle lo sportello – gli anni tra il divorzio e questo momento scompaiono, e Jane si sente come se lei e Bert fossero di nuovo sposati, ancora ventenni. Dovrebbe davvero evitare di lasciare il ricevimento prima dello sposo e la sposa; non è semplicemente di cattivo gusto, è davvero un gesto terribile nei confronti di sua figlia. Forse ha ragione a sospettare che la famiglia di Stu non veda di buon occhio quella della sposa; forse lei e Bert sono – alla meglio – privi di alcuna classe, alla peggio, dei completi disadattati, incapaci di partecipare a un evento così importante.
“Mi sembra di essere Bonnie e Clyde”, dice a Bert.
“Come se fossimo in fuga.”
“Ce la siamo appena svignata dal matrimonio di nostra figlia – replica Bert – Questa la pagheremo all’inferno.”
Bert le sembra eccitato, e Jane presume che sia contento almeno quanto lei di aver chiuso con tutte le formalità del matrimonio.
Bert continua, ridendo:“Ti ricordi la volta in cui ce la svignammo da Lord Jim’s?”
“Lord Jim’s?” Jane si ricorda che, tempo fa, “Lord Jim” aveva per lei un altro collegamento, oltre che a quello col romanzo di Joseph Conrad.
“No, ricordamelo – cos’era Lord Jim’s?”
“Quel locale esclusivo in città”, risponde Bert.
Jane se lo ricorda, ora – il locale era una sorta di campo di battaglia per single, ma alcune sere a settimana, giovani coppie sposate ci andavano a cena prima che la band attaccasse a suonare e la caccia avesse inizio.
“Ce la svignammo?”, domanda lei, ridendo.
Si era quasi dimenticata del termine svignarsela, ma sa bene cosa significa.
Lei e Bert avevano vissuto nello stesso condominio di una coppia con tendenze cleptomani con cui giocavano a tennis durante il weekend. I due erano piacevoli e pure divertenti, ma si vantavano senza vergogna delle loro avventure coi furti e di tutte le occasioni in cui se l’erano “svignata” da qualche ristorante. Quando i due farabutti volevano mangiare fuori, prenotavano con un nome falso, e a volte, prima o durante il dessert, sgattaiolavano fuori da un’uscita sul retro. Il loro modo preferito di svignarsela era mangiare in un ristorante che avesse anche la pista da ballo, e semplicemente ballarsela finché non erano fuori dalla porta.
“Perché ce la svignammo? – domanda Jane. – Non siamo mai stati dei ladri”.
Bert le ricorda che non erano riusciti ad attirare l’attenzione del cameriera, che non aveva mai portato il conto; alla fine, frustrati, se n’erano andati.
“Sono buffe le cose che ci dimentichiamo”, osserva Jane.
Cosa sta realmente pensando, in realtà, è che sono buffe, le cose che ci ricordiamo. A Bert piaceva infilare le mani su per le maniche di lei non appena le si avvicinava – la amava così tanto che non sopportava l’idea di non poterle vedere le braccia.
Diceva a tutti quanto amasse gli occhi verdi di lei, i suoi capelli neri, anche se lei aveva gli occhi azzurri e i capelli castani. Una volta, prima di sposarsi, lei aveva preso il treno per andare a trovare un’amica, e Bert aveva corso dietro al convoglio, come in un vecchio film.
La prima volta che erano andati a un concerto alla Grace Cathedral, si erano commossi a tal punto da scoppiare entrambi in lacrime, poi, presi da un’improvvisa ondata di risatine, erano dovuti andarsene.
Durante la prima notte di nozze, lui l’aveva portata in braccio oltre la soglia. Se, appena prima di addormentarsi, Jane diceva che aveva una disperata voglia di hamburger, Bert si offriva sempre di andarne a prendere uno.
Bert accende lo stereo della macchina mentre s’inserisce nel traffico. Jane si sente sollevata quando Bert sceglie una stazione di rock ‘n’ roll; fortunatamente, anche ora che sembra un tipo da country club, non è ancora passato alla musica classica.
“Ehi!”, esclamano all’unisono, sorpresi di sentire la voce del loro cantante preferito di un tempo provenire dalle casse dello stereo.
Il cantante, un musicista canadese, era stato il loro preferito all’epoca del matrimonio, anche se non era mai diventato abbastanza popolare da essere trasmesso dalla radio americana.
Bert alza il volume, lui e Jane si lanciano uno sguardo; ovviamente sono entrambi tentati di sentirsi nostalgici. Lei giura a se stessa di non lasciare che il matrimonio della figlia le provochi uno sconquasso emotivo – ricorda benissimo di aver avuto bisogno di anni per riprendersi dal divorzio, e non sarà certo questo il momento per ricascarci, soprattutto ora che Bert è repubblicano e porta uno stupido pizzetto.
“I testi delle sue canzoni sono i migliori” dice Jane, tanto per riempire il silenzio di un’atmosfera che è cambiata improvvisamente. Bert si mostra subito d’accordo, così Jane continua a parlare.
“Il mio verso preferito è, ‘If I lose my grip, will I take flight?’”
Si pente immediatamente di averlo detto, e teme che Bert possa mettersi a ridere e dire qualcosa tipo, eh, proprio tu dovresti saperlo.
“Il mio verso preferito – rimanda invece Bert, – è, ‘I never knew what you wanted, so I gave you everything’.”
Il suo tono è disinvolto, inespressivo, come se invece avesse detto che le patatine sono buone. Jane è così spiazzata che non sa come rispondere.
Bert parcheggia di fronte al Ritz Carlton e lascia l’auto all’usciere.
“Ecco qua”, dice, e gli allunga una mancia generosa.
Lei e Bert a questo punto sono stati divorziati tanto a lungo quanto sono stati sposati, ma lui continua a dare la mancia con gesti teatrali dicendo ecco qua invece di grazie, e lei continua a reagire serrando i denti.
Certo, altre cose sono rimaste le stesse, come quando Bert le mette la mano nell’incavo della schiena dopo averle preso la mano e averla aiutata a uscire dalla macchina; si è sempre sentita piena di attenzioni in sua presenza.
Stamattina, quando sono arrivati in albergo e hanno dovuto discutere per un errore sulle loro prenotazioni, Bert le ha immediatamente offerto la sua grande camera per non fumatori e si è preso la minuscola stanzetta che puzzava di fumo, senza vista, pagando entrambe le camere con la sua carta American Express d’oro. Tra l’altro, non ha mai neanche accennato al fatto che sta coprendo quasi interamente il costo del matrimonio.
Bert, pensa Jane, è l’uomo più superficiale, ma con le migliori maniere che abbia mai incontrato; non c’è da meravigliarsi che abbia avuto così tanto successo in affari.
Una volta in ascensore, la sensazione di aver fatto un salto indietro nel tempo comincia a svanire. Anche se lei e Bert condividono lo stesso cognome e molti degli stessi ricordi, e anche se la mano di lui è calda contro la sua schiena mentre la guida dentro l’ascensore dicendo, “Occhio, Janie”, l’interno della cabina è foderata di specchi.
Jane si domanda, non per la prima volta, chi sia il genio ad aver avuto la terribile idea di costringere la gente a guardarsi allo specchio dentro gli ascensori.
Adesso, ciò che vede riflesso è questa scena: una donna matura, con gambe sottili ma senza vita stretta, accanto a un uomo elegante che sta invecchiando. La coppia sembra ricca e realizzata, l’uomo glorioso nel suo completo, la donna splendida nel suo bel vestito di seta verde. La bocca della donna è un po’ imbronciata, però, e i suoi occhiali scuri sembrano portarla altrove; l’aria distaccata dell’uomo potrebbe facilmente suggerire noia.
Bert la accompagna fino alla sua stanza, le prende la carta di mano e le apre la porta, poi fa un passo indietro e le fa cenno di entrare.
“Bicchiere della staffa? – domanda Jane. – Possiamo prendere d’assalto il minibar”.
Si chiede se sia brilla, malinconica, o se si senta semplicemente sola in una città che non conosce. Non ha idea del perché abbia invitato Bert nella sua stanza.
“Chiamo il servizio in camera”, risponde Bert.
La cosa non la sorprende affatto: Bert non sceglierebbe mai di prepararsi un drink da solo, versando gli ingredienti in un bicchiere pieno di ghiaccio, quando può essere servito con un certo stile da qualcun altro, con i cocktail portati su un vassoio d’argento, mescolati e decorati come si deve. Del resto non era forse stato il savoir faire di Bert uno dei motivi per cui lei l’aveva sposato; il suo stile aveva prevalso su ogni accenno di profondità intellettuale o di fedeltà?
Bert ordina due gin tonic, mettendoli sul suo conto.
“Vado un attimo nella mia stanza” le dice all’improvviso.
“Devo prendere una cosa, firma pure il conto dei drink se arrivano prima che sia tornato.”
Per quanto Jane sia discretamente curiosa di sapere cosa Bert sia andato a prendere, la sua prima sensazione è quella di fatica, insieme al malessere fisico provocato dalle scarpe nuove e dagli slip contenitivi che la stringono sotto il vestito aderente. Decide di togliersi il vestito, le scarpe e il corsetto per indossare l’accappatoio di spugna che ha trovato nell’armadio della camera d’albergo; è lungo abbastanza da coprirle le caviglie e sufficientemente ordinario da non rappresentare un invito.
Per una volta, il suo tempismo è perfetto; non appena ha finito di riporre i vestiti e si è stretta la cintura dell’accappatoio intorno alla vita, Jane sente parlare fuori dalla porta.
Bert e il cameriere sono arrivati nello stesso momento e quando Jane apre la porta, si trova davanti due sorrisi smaglianti.
Il cameriere sistema il tavolino vicino alla finestra, e Bert cammina per la stanza con un libro in mano prima di dire il suo solito “Ecco qua” al cameriere e allungargli la mancia.
“Hai deciso di metterti qualcosa di più comodo?”, le chiede Bert, e ridono entrambi.
Jane lo vede lanciare un’occhiata ai suoi piedi nudi, con gli occhi che si soffermano per un istante. Lei si domanda cos’abbia esattamente attirato la sua attenzione, se lo smalto color canna di fucile, o i due anelli alle dita dei piedi – tutto questo lo avrebbe contrariato un tempo e di sicuro continuerà a sembrargli del tutto appropriato, per una donna della sua età.
Ma pare che Bert abbia anche delle sorprese. Per prima cosa, Jane deve chiedergli di sedersi; Bert è ancora troppo educato per mettersi comodo su una poltrona nella stanza della sua ex moglie senza aver ricevuto il suo invito a farlo.
Peccato che tu non mi abbia chiesto il permesso prima di cominciare ad andare a letto con altre donne, pensa Jane, ma cerca di non soffermarsi troppo su questi pensieri; a essere onesti, la rovina del matrimonio è avvenuta per mano di entrambi. Jane si siede sulla sedia di fronte a lui, e i due fanno tintinnare i bicchieri in un brindisi silenzioso.
“Hai mai sentito nominare Jack Galbraith?”, domanda Bert.
Prende un sorso del suo gin tonic e sfoglia il libro. Le lancia un’occhiata che tradisce un’espressione imbarazzata, da bambino innocente, che la mette a disagio.
“Jack Galbraith – dice, indecisa se tirare a indovinare o bluffare – Un esperto di economia?”
Bert scuote la testa: “Immagino di non aver mai letto poesie quando eravamo sposati”.
Jane non riesce a fare a meno di pensare, non hai mai letto niente quando eravamo sposati, Bert, a parte forse qualche numero di “Money”.
Ma Bert continua, “Comunque, qualcuno mi ha fatto conoscere questo poeta, Galbraith, che mi ha colpito tantissimo.”
Jane interpreta il qualcuno come l’ultima donna che Bert ha frequentato. Le sue donne hanno sempre un qualche ascendente su Bert, anche se effimero; Jane l’ha visto interessarsi in modo più o meno duraturo al vegetarianismo, al calcio, a Scientology, al pilates. Bert apre il libro, e Jane prova a prenderglielo di mano, ma lui la sorprende ancora dicendo,
“Mi piacerebbe leggertene qualche passo”.
Jane è stupita dall’iniziativa di Bert di leggere per lei, e per un secondo si chiede se Bert sia cambiato più di quanto le apparenze possano suggerire. A farglielo pensare è anche il fatto che gli occhi del suo ex si inumidiscono per un istante; Jane arrossisce, leggermente imbarazzata, ma soprattutto sorpresa. Bert comincia a leggere, con una voce che comincia sicura ma che inizia presto a tremare.
“Vivo nella foresta degli sciacalli – legge – Mi saccheggiano il corpo, i pensieri, le parole”.
Si ferma, fa un respiro profondo, socchiude gli occhi un paio di volte.
Jane non vuole interrompere Bert durante la lettura, ma è inspiegabilmente sopraffatta da un moto d’affetto. Non si è mai sentita così materna in tutta la giornata, nemmeno in qualità di madre della sposa.
Bert esita, poi dice: “Questa parte è dura, dammi un secondo”, e va avanti.
“In volo nella nera oscurità della mezzanotte, vengo afferrato e spinto verso altro, e l’oscurità bluastra è ormai il centro, completamente aperto, dove il vuoto è in declino.”
A quel punto smette di leggere, gli occhi sulla pagina, stringendo le labbra in un’espressione afflitta.
“Caro – Jane si sorprende a dire – Che succede? C’è qualcosa che non va?”
Fa per toccarlo, ma resiste all’impulso e stringe i pugni sui braccioli della poltrona, convinta di doverlo lasciare stare.
Bert scuote la testa, in silenzio, come a dire non lo so, non lo so.
“È successo qualcosa? – incalza lei – Che succede, caro?”
Bert ha tutto: è ricco, ha una buona vita professionale, uno stuolo di fidanzate giovani, una casa sulla spiaggia a Malibu – dov’è esattamente il dolore, nella sua vita? Forse sta piangendo perché la sua ultima donna l’ha lasciato? Jane non ricorda di aver notato in Bert nessun momento di debolezza come questo dopo il divorzio; al contrario, ricorda che si fosse ripreso piuttosto bene.
Bert ha posato il cocktail su un tavolino e ora appoggia la testa sullo schienale della poltrona dove è quasi stravaccato. Chiude gli occhi e comincia a parlare con una voce quasi inudibile. Se da una parte Jane ha appena assistito alla prima lettura di poesie da parte del suo ex, adesso le sembra di ascoltare una sorta di soliloquio in stile Amleto. Una specie di lamento si riversa dalle labbra di Bert. Dice che aver visto Betsy sposata ha scatenato qualcosa; che, stranamente, poco prima che Jane svenisse, lui stesso si è sentito poco bene e ha temuto di cadere a terra prima che lui e Betsy raggiungessero l’altare.
Dice: “L’intera faccenda è veramente una cazzo di tragedia”.
“Stu non è così male – dice Jane – Penso che staranno bene insieme”.
“Intendevo dire noi – risponde Bert, e finalmente apre gli occhi – Il divorzio dove ci ha portati?”
Jane rimane in silenzio.
“Ti ricordi quanto eravamo felici?”
Jane annuisce.
“Abbiamo divorziato proprio quando avremmo dovuto sistemarci e goderci il resto del nostro matrimonio, con Betsy che stava crescendo mentre noi, finalmente, avevamo abbastanza soldi per viaggiare e comprare una casa migliore. Ma ci siamo lasciati tutto alle spalle.”
Tutto questo non è certo una novità, perciò Jane aspetta di sentire ciò che Bert sta provando a dire.
Un rumore duro sale dalla gola del suo ex. Sembra quasi un ringhio, ma Jane si rende conto di come il suono sia più che altro una risata sarcastica di cui non pensava Bert fosse capace.
“E dove ci ha portati? Da nessuna parte. Nessuno di noi due è sposato, nostra figlia è cresciuta sballottata come una nomade da casa tua a casa mia, esco con una stupida dopo l’altra, tu ti risposi e divorzi con un altro tizio e poi ti metti con uno stronzo che si va ad ammazzare in una macchina sportiva e ti lascia sola come una vedova illegittima. E poi ci trasformiamo nel tipo di persone orribili che se la svignano dal ricevimento di matrimonio della figlia.”
Sul muro dietro la sedia dove Bert è seduto c’è il dipinto incorniciato di una foresta; gli alberi sembrano tridimensionali, come se lo spettatore potesse davvero entrare nel quadro. Jane vorrebbe camminare tra le fronde della foresta e sentirsi “distesa, e davvero a suo agio”, come le direbbe la sua audiocassetta che di solito la aiuta a rilassarsi. Allo stesso tempo, la sua deformazione professionale di terapeuta non può fare a meno che venir fuori, e Jane deve trattenersi prima di domandare a Bert, “e questo come ti fa sentire?” Come se non lo sapesse, che diavolo.
Il telefono di Jane comincia a squillare nella sua borsa lasciata sul letto, e lei decide di accettare la chiamata. È perfettamente consapevole di rispondere con una voce piuttosto debole, ma può giocare la carta del suo malessere come scusa per aver abbandonato il ricevimento. Ovviamente a chiamare è Betsy, che non la rimprovera nemmeno – vuole semplicemente sapere se sua madre sta bene.
“Cara, sto bene – le dice Jane, sollevata di sentire sia il tono di perdono che di felicità da neosposina nella voce della figlia. – Tuo padre è qui con me, e sono sdraiata sul letto con un panno umido sulla fonte”.
In un certo senso, l’affermazione di Jane non è totalmente falsa, perché, non appena avrà finito la telefonata, vuole davvero prendere un po’ di ghiaccio dal secchiello dei drink, impacchettarlo in uno straccio e metterselo sulla fronte, sdraiata sui cuscini del letto.
Bert sente cosa Jane ha appena detto e si alza per andare in bagno; probabilmente per sciacquarsi il viso con un po’ di acqua fresca.
Quando Jane chiama Bert per salutare Betsy al telefono, lui torna con due asciugamani, uno per lui e uno per Jane. Dopo aver parlato con la figlia, lui e Jane si sdraiano sul letto enorme.
Non dicono niente, condividendo il silenzio che li lega. Jane capisce subito che Bert non si alzerà dal letto e non tornerà nella sua stanza che puzza di fumo. Restaranno sdraiati l’uno accanto all’altra tutta la notte, spezzati e saldati insieme, il loro amore annientato, e intatto.
Testo Toni Graham
Illustrazioni Anna Ippolito
Traduzione Rachele Salvini