Dado è in piedi già da diverse ore. Ha piegato la coperta dentro alla busta grande del supermercato, e l’ha ficcata dietro ai cespugli. Sopra ci ha piazzato i cartoni, accanto il vino. Si è lavato la faccia con l’acqua della fontanella, strofinandosi bene le guance e gli occhi. Ha fatto una passeggiata per il quartiere, alle dieci e mezza finisce la messa ai Cappuccini, è una buona occasione. Poi è tornato e si è seduto ad aspettare.

Oramai ci siamo. I ragazzini con lo skate sono andati a casa, e lui è rimasto solo. È ora di pranzo anche per loro. Vengono spesso la domenica, anche se con lui non parlano mai. Si mettono a chiacchierare sotto al cavalcavia, dalla parte dei murales. Fumano qualche sigaretta, fanno un paio di salti fra le panchine e poi vanno via.

È una bella giornata oggi, Dado è contento. Anche se ama il freddo dell’inverno, per uno come lui il sole è indispensabile. Quando piove è tutto più complicato. Come il giorno in cui è arrivato.

Era rimasto sotto al camion fino a sera tarda, poi con il buio era sgusciato fuori. Aveva superato i cancelli, e aveva camminato dal molo fino al lungomare. La vista della grande piazza a scacchi, illuminata dal rumore caldo dei lampioni a olio aveva sciacquato via la sua stanchezza, che si era sciolta insieme all’angoscia del viaggio. Aveva scelto una panchina un po’ defilata. Tutto quello di cui ho bisogno è un bagno al mare, si era detto prima di chiudere gli occhi. E di un paio di scarpe da ginnastica bianche. La mattina era entrato in un bar, e aveva ordinato una sfoglia morbida di mela e un caffè. Lo aveva voluto nel bicchierino di vetro, proprio come il signore accanto a lui. A casa mia in quei bicchieri si beve solo la grappa, aveva pensato, ma non sapeva dire grappa in quella nuova lingua.
“Cafè e pezo, grazie”, aveva ripetuto alla signorina alla cassa, indicando anche il giornale che aveva preso dall’espositore, poi era tornato alla panchina sulla piazza sul mare, deciso a studiare questa sua nuova lingua. Ma pioveva ancora, e le pagine si erano bagnate tutte. Dado aveva guardato l’inchiostro sciogliersi, colare nero a formare lettere deformi, grandi e complicate, parole nuove mute e distanti. Ma a Dado non importava.
Verso l’ora di pranzo era sceso di sotto, verso il mare. Spogliato di tutto tranne delle mutande, saltando da uno scoglio all’altro come un granchio goffo, aveva incrociato lo sguardo beffardo di due anziani pescatori. I due, immobili come statue di sale, lo osservavano cupi, lanciandosi ogni tanto vocali ed elle lunghe da una parte all’altra del molo.

È proprio il mare per me, si era detto Dado quel pomeriggio, mentre l’isola di fronte si faceva ogni attimo più grande, tanto da sembrare che corresse verso di lui. Un mare poco profondo e sempre calmo, con l’isola che se allunghi il braccio quasi la tocchi. Un mare verde di campagna.

Lei arriva sempre un po’ prima, Dado lo sa. Gli piace questa cosa di lei, gli fa pensare che ci tiene a lui, anche se non gliel’ha mai detto. Adesso la vede camminare nel viale, fra gli alberi monchi. Si alza dalla panchina, scuote le gambe come prima di una corsa e va verso di lei. Fa sempre così, la va a prendere all’ingresso del sottopassaggio. In fondo dopo il sottopassaggio è solo casa sua. Anche Elena lo ha visto, lo dice la sua mano, che sventola alta sulla testa.
“Sei già qui.”
“Sei bella con questa cosa”, risponde lui indicandole la testa.
Elena si tocca il cerchietto nei capelli.
“Questo? Ma è di plastica”, si schernisce lei con un sorriso tondo.
Ha i denti grandi e squadrati, con un largo spazio fra i due incisivi davanti. Carezza la coda di capelli castani e grossi con un gesto lento e regolare, quasi ipnotico. Anche il volto è tondo, con la pelle elastica e chiara, arrossata solo sulle guance. È un po’ tutta tonda pensa Dado, anche se a lei non lo direbbe mai.
“Hai freddo?”
“Un po’.”
“Solo le divinità possono trasformare la plastica in luce.”
Lei lo guarda senza capire, poi si tocca di nuovo il cerchietto in testa.
“Ma cosa dici, stupido”, replica avvicinandosi alla panchina dove prima era seduto lui.
“Ci mettiamo qui?”, dice mentre si guarda attorno.
“Come vuoi.”
“No, dai, andiamo al sole.”
Si spostano pochi metri più in là, con nelle orecchie il rumore delle foglie schiacciate. Elena cammina piano, sta attenta a dove poggia i piedi. Piove da diversi giorni, tutto il prato è ricoperto di foglie grandi con le dita larghe, tenute insieme da una fanghiglia scivolosa e infida. Dado ha molta paura adesso. Paura che lei scivoli, e si sporchi il suo bel cappotto giallo. Paura di non riuscire ad afferrarla, e di cadere anche lui, come uno scemo. Paura che Elena abbia intenzione di attraversare il prato e andare più in là, sulle panchine dietro ai cespugli, dove ogni mattina stiva la sua vita notturna. Ma lei si ferma prima.
Una città di mare: all’inizio Dado l’aveva scelta solo per questo. Nel suo paese di mare non ce n’è per niente, neanche un pezzetto piccolo come un francobollo. Nel suo paese c’è solo la campagna, tantissima campagna verde e piena di mucche. Durante la guerra erano state le prime a saltare, non distinguevano una margherita da una mina, e adesso Dado della sua campagna ricorda solo l’odore marcio del sangue di mucca.
“Ecco, qui va meglio”, dice soddisfatta Elena voltandosi verso di lui e indicandogli la panchina di marmo proprio al centro del prato.
Si siede a cavalcioni, mettendo davanti a se la borsa frigo a fiori che portava a tracolla, poi si volta a guardarlo con un occhio chiuso e uno aperto, arricciando il naso per il sole.

Sta in piedi davanti a lei. Con il sole dietro sembra un fascio di grano, uno spaventapasseri in un campo. A lui non piace quella panchina, è troppo al centro, e lui troppo al centro non si siede mai. È alto, molto alto, e quando si decide a sedersi sembra che si srotoli. Le sue mani sulla panchina, con le dita aperte e lunghe, sembrano pale da fornaio.

Dopo quel primo bagno al mare le cose non sono andate poi così bene. Giorno dopo giorno la sua vita si è come impigliata. Sono stanco del viaggio, si è detto all’inizio. È colpa della puzza dello scarico, delle vibrazioni, del dolore alle mani. Anche adesso, certe mattine si sveglia con le mani anchilosate, le dita rattrappite in una presa immaginaria, l’asse del camion ancora là, a sfiorare il naso.
Dopo tante ore le nocche gli erano apparse prima bianche, poi grigie, infine nere. E il rumore, sordo, costante, minaccioso, proprio vicino al piede, tanto intenso da fargli temere di perdere tutto, lo aveva reso arrendevole. Per questo si era aggrappato alla paura, alla fatica di stare così tante ore a braccia e gambe aperte, crocifisso all’asse di un camion troppo lento.

Il ricordo del suo arrivo lo immalinconiva sempre. Ma non era la fatica, o la paura. Erano le scarpe, che gli erano apparse davanti agli occhi di colpo, come una campanella avevano segnalato il suo arrivo. Scarpe da ginnastica bianche e candide, che si mescolavano con parole piene di vocali, tutte aperte e arrotolate. Così diverse da quelle che portava lui, così diverse dalla lingua della sua gente. Scarpe, non un tramonto sul mare, o una piazza piena di gente. Anche una stazione di servizio, o un sottopassaggio come quello del parco gli sarebbe andato bene, ma non scarpe. Quelle scarpe gli avevano guastato la gioia dell’arrivo.

Sta seduto davanti a lei, a cavalcioni della panchina, senza dire niente. Per lei si potrebbe sedere anche al centro di un campo da calcio, dentro allo stadio il giorno del derby. Con un piede scosta delle foglie un po’ più in là, copre una siringa con una lattina mezza vuota. Chissà se lei l’ha vista.
Elena gli sorride. Forse lo sa. “Allora” dice mentre fruga nella borsa “vediamo cosa abbiamo portato.” Comincia a tirare fuori i contenitori, impilandoli davanti a se, fino a quando la borsa termica non si affloscia su se stessa, vuota. Solo allora la appoggia a terra.
Le sue gambe sono così lunghe che sono dappertutto. Toccano la borsa frigo a terra, sbattono contro la panchina. Con le ginocchia potrebbe toccare il mare e tornare indietro. Potrebbe toccare quelle di lei, e permettere ai suoi pensieri di salire, da sotto le calze fino alla bocca, al naso, agli occhi.

Scarpe. Dopo il bagno al mare corse subito a comprarne un paio, buttando via le zappe di cartone marrone con ancora la terra appiccicata sotto. Bianche, con le strisce colorate, perfette. Ma non servì a niente. Il movimento di quelle scarpe, di quei piedi agili e sicuri, mentre lui restava attaccato all’asse del camion, lo perseguitava, giorno dopo giorno, notte dopo notte.

“Indovina cosa ti ho portato oggi?”, dice Elena, mentre stende uno strofinaccio sulla panchina, fra di loro. È a quadretti rossi e bianchi, e lei lo liscia con le mani, passando le dita su e giù per le pieghe del ferro da stiro.
“È carino, vero? Sembra proprio una tovaglia”, chiacchiera mentre toglie il coperchio ai contenitori. “Tocca, è ancora caldo”, gli dice porgendogliene uno. Lui lo prende, il tepore della plastica sulle mani. Sono lasagne, stipate così tanto che fanno delle pieghe morbide di sugo e besciamella. Gli piacciono le lasagne, specie quelle che cucina la mamma di Elena.
“Cosa le hai detto?”
“La verità, che venivo a mangiare qui da te.”
“E lei?”
“Lei è contenta. È come te: le piace stare sola la domenica.”
Mangiano le lasagne in silenzio, ostaggio dell’equilibrio precario dei piattini di carta. Dopo un po’ alcuni uccellini gli si fanno intorno; si avvicinano, prima incerti, poi sempre più coraggiosi. Elena sbriciola un po’ di pane verso di loro, che mangiano e volano via. Solo uno resta fermo davanti a loro.
“Lei è Regina.”
“Vi conoscete?” chiede Elena con un tono cantilenante.
“Sì stiamo spesso insieme” aveva replicato Dado rabbuiandosi. Lo prendeva in giro, era chiaro. “Le piace stare in compagnia.”

“Ciao Regina” si rivolge subito la ragazza al passerotto, per farsi perdonare. Lui la guarda, con la testa inclinata di lato, come piccato. Gambe così lunghe che sopra potrebbe starci una fila intera di passerotti, come su un cavo dell’alta tensione.

Le scarpe erano diventate la sua ossessione. Le osservava passare per ore intere, come se i corpi che ci stavano sopra non avessero molto di più da dirgli. Piano piano aveva smesso di frequentare la piazza sul mare, e anche di fare il bagno sugli scogli sotto. Adesso andava di rado sul lungomare. Non è che non gli piacesse, questo non poteva dirlo. Solo non si sentiva a suo agio, come se ventidue anni di colline verdi e mucche sopra gli avessero lasciato un segno indelebile addosso. Da prima dell’estate si era trasferito definitivamente qui. Un parco secondario e trascurato, senza giochi per bambini né alberi alti, i prati incolti e silenziosi. Un po’ come a casa sua.

“E adesso?”, Elena non smette di sorridergli.
Quanti modi di sorridere esistono? Di certo lei li conosce tutti. Adesso per esempio è interrogativa. Quando gli fa una domanda, ma solo quando la domanda è retorica, inclina la testa di lato, anche se in maniera quasi impercettibile. Non potrebbe mai giocare a poker, di certo non con quel ciccione di Nando e i suoi baffi cattivi.
“E adesso?”, ripete, e intanto allunga la mano verso il basso, fino dentro alla zip della borsa. Tira fuori un altro contenitore, piccolo e con il coperchio rosso.
“Tadà! Sorpresa!”, gli dice mentre lo apre.
Dalla superficie increspata del piccolo dolce il miele cola dorato, mentre i pistacchi sminuzzati si tengono ben saldi sopra.
“Tua… tua madre?”, balbetta Dado.
“No! – replica Elena battendosi la mano sul petto – Io!”
“E come… e come hai fatto?”
“Mi sono fatta dare la ricetta da Fatma… – Dado la guarda – Fatma! La signora che fa compagnia alla nonna di Lucia!”
Quando si spazientisce il mento spunta aguzzo e triangolare, dall’ovale tondo e perfetto.
“Certo, lei è turca, ma insomma, sempre di baklava si tratta!”, conclude mentre cerca di tagliare una porzione.
La lama del coltello affonda negli strati di pasta fillo con difficoltà. Il piccolo pezzo, pesante come deve essere, appiccica di ricordi la mano di Dado, fino a farla tremare. Lo morde, mentre il mescolio dell’arancia e della cannella gli invade i pensieri, e il piccolo diadema di Elena sembra luccicare ancora di più, tanto da fargli chiudere gli occhi.
Questo mare non lo lascerò mai, aveva pensato la prima mattina in questa città nuova, mentre la pioggia continuava a scendere e lui si sentiva forte, fiducioso. Ma poi le cose cambiano. Le scarpe bianche, una volta ai tuoi piedi, sono un po’ meno candide, il mare un po’ meno limpido, e l’isola di fronte è solo un carcere.
Le prima gocce lo raggiungono che ha ancora gli occhi chiusi. Alza la testa e li riapre. Il cielo è tutto coperto adesso. Si è alzato un vento forte, e le raffiche fanno turbinare le foglie via dagli alberi.
“Il tempo in questa città è molto pazzo”, le dice guardandola negli occhi.
Il passerotto è volato via. Dove vanno gli uccelli quando piove?
“Dice piove, poi non piove. Dice non piove, poi piove”, ripete arrabbiato.
Stare sdraiato sul prato con lei, togliendosi finalmente quelle scarpe sbagliate, ecco quello che voleva fare dopo mangiato, e non gesti scomposti, infilando contenitori vuoti nella borsa frigo, con le posate ancora unte di sugo.
“Fermo”, gli dice Elena mettendogli un braccio sulla mano, e lui allora la guarda.
Con i capelli che puzzano di pioggia è ancora più bella.
“Non buttare le briciole a terra”, sorride lei sfilandogli lo strofinaccio dalle mani: la raccoglie per le quattro punte, come un piccolo cestino.
“Le lasciamo per Regina. Quando smette di piovere avrà fame.”

Era arrivato un mercoledì di marzo, e pioveva, ma non come oggi. Anche se adesso il cielo è diventato nero, e le nuvole si inseguono e si sovrappongono fra i tuoni, Dado prende Elena per mano e la porta verso la siepe. Corrono insieme e poi si riparano, accucciandosi vicini alla borsa con dentro la sua vita della notte, ma Dado non ha più paura che lei veda, no. Il fango dipinge storie sul candore delle loro scarpe. Adesso che il fango traccia la loro storia sulla tela delle sue scarpe, non c’è più distanza fra la terra e il sole.

Testo: Veronica Galletta
Immagini: Camilla Garofano

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