Dado è in piedi già da diverse ore. Ha piegato la coperta dentro alla busta grande del supermercato, e l’ha ficcata dietro ai cespugli. Sopra ci ha piazzato i cartoni, accanto il vino. Si è lavato la faccia con l’acqua della fontanella, strofinandosi bene le guance e gli occhi. Ha fatto una passeggiata per il quartiere, alle dieci e mezza finisce la messa ai Cappuccini, è una buona occasione. Poi è tornato e si è seduto ad aspettare.
È una bella giornata oggi, Dado è contento. Anche se ama il freddo dell’inverno, per uno come lui il sole è indispensabile. Quando piove è tutto più complicato. Come il giorno in cui è arrivato.
“Cafè e pezo, grazie”, aveva ripetuto alla signorina alla cassa, indicando anche il giornale che aveva preso dall’espositore, poi era tornato alla panchina sulla piazza sul mare, deciso a studiare questa sua nuova lingua. Ma pioveva ancora, e le pagine si erano bagnate tutte. Dado aveva guardato l’inchiostro sciogliersi, colare nero a formare lettere deformi, grandi e complicate, parole nuove mute e distanti. Ma a Dado non importava.
È proprio il mare per me, si era detto Dado quel pomeriggio, mentre l’isola di fronte si faceva ogni attimo più grande, tanto da sembrare che corresse verso di lui. Un mare poco profondo e sempre calmo, con l’isola che se allunghi il braccio quasi la tocchi. Un mare verde di campagna.
Elena si tocca il cerchietto nei capelli.
Ha i denti grandi e squadrati, con un largo spazio fra i due incisivi davanti. Carezza la coda di capelli castani e grossi con un gesto lento e regolare, quasi ipnotico. Anche il volto è tondo, con la pelle elastica e chiara, arrossata solo sulle guance. È un po’ tutta tonda pensa Dado, anche se a lei non lo direbbe mai.
“Ma cosa dici, stupido”, replica avvicinandosi alla panchina dove prima era seduto lui.
Si siede a cavalcioni, mettendo davanti a se la borsa frigo a fiori che portava a tracolla, poi si volta a guardarlo con un occhio chiuso e uno aperto, arricciando il naso per il sole.
Sta in piedi davanti a lei. Con il sole dietro sembra un fascio di grano, uno spaventapasseri in un campo. A lui non piace quella panchina, è troppo al centro, e lui troppo al centro non si siede mai. È alto, molto alto, e quando si decide a sedersi sembra che si srotoli. Le sue mani sulla panchina, con le dita aperte e lunghe, sembrano pale da fornaio.
Il ricordo del suo arrivo lo immalinconiva sempre. Ma non era la fatica, o la paura. Erano le scarpe, che gli erano apparse davanti agli occhi di colpo, come una campanella avevano segnalato il suo arrivo. Scarpe da ginnastica bianche e candide, che si mescolavano con parole piene di vocali, tutte aperte e arrotolate. Così diverse da quelle che portava lui, così diverse dalla lingua della sua gente. Scarpe, non un tramonto sul mare, o una piazza piena di gente. Anche una stazione di servizio, o un sottopassaggio come quello del parco gli sarebbe andato bene, ma non scarpe. Quelle scarpe gli avevano guastato la gioia dell’arrivo.
Sta seduto davanti a lei, a cavalcioni della panchina, senza dire niente. Per lei si potrebbe sedere anche al centro di un campo da calcio, dentro allo stadio il giorno del derby. Con un piede scosta delle foglie un po’ più in là, copre una siringa con una lattina mezza vuota. Chissà se lei l’ha vista.
Elena gli sorride. Forse lo sa. “Allora” dice mentre fruga nella borsa “vediamo cosa abbiamo portato.” Comincia a tirare fuori i contenitori, impilandoli davanti a se, fino a quando la borsa termica non si affloscia su se stessa, vuota. Solo allora la appoggia a terra.
Le sue gambe sono così lunghe che sono dappertutto. Toccano la borsa frigo a terra, sbattono contro la panchina. Con le ginocchia potrebbe toccare il mare e tornare indietro. Potrebbe toccare quelle di lei, e permettere ai suoi pensieri di salire, da sotto le calze fino alla bocca, al naso, agli occhi.
Scarpe. Dopo il bagno al mare corse subito a comprarne un paio, buttando via le zappe di cartone marrone con ancora la terra appiccicata sotto. Bianche, con le strisce colorate, perfette. Ma non servì a niente. Il movimento di quelle scarpe, di quei piedi agili e sicuri, mentre lui restava attaccato all’asse del camion, lo perseguitava, giorno dopo giorno, notte dopo notte.
“Ciao Regina” si rivolge subito la ragazza al passerotto, per farsi perdonare. Lui la guarda, con la testa inclinata di lato, come piccato. Gambe così lunghe che sopra potrebbe starci una fila intera di passerotti, come su un cavo dell’alta tensione.
Le scarpe erano diventate la sua ossessione. Le osservava passare per ore intere, come se i corpi che ci stavano sopra non avessero molto di più da dirgli. Piano piano aveva smesso di frequentare la piazza sul mare, e anche di fare il bagno sugli scogli sotto. Adesso andava di rado sul lungomare. Non è che non gli piacesse, questo non poteva dirlo. Solo non si sentiva a suo agio, come se ventidue anni di colline verdi e mucche sopra gli avessero lasciato un segno indelebile addosso. Da prima dell’estate si era trasferito definitivamente qui. Un parco secondario e trascurato, senza giochi per bambini né alberi alti, i prati incolti e silenziosi. Un po’ come a casa sua.
Quanti modi di sorridere esistono? Di certo lei li conosce tutti. Adesso per esempio è interrogativa. Quando gli fa una domanda, ma solo quando la domanda è retorica, inclina la testa di lato, anche se in maniera quasi impercettibile. Non potrebbe mai giocare a poker, di certo non con quel ciccione di Nando e i suoi baffi cattivi.
Dalla superficie increspata del piccolo dolce il miele cola dorato, mentre i pistacchi sminuzzati si tengono ben saldi sopra.
Quando si spazientisce il mento spunta aguzzo e triangolare, dall’ovale tondo e perfetto.
“Certo, lei è turca, ma insomma, sempre di baklava si tratta!”, conclude mentre cerca di tagliare una porzione.
La lama del coltello affonda negli strati di pasta fillo con difficoltà. Il piccolo pezzo, pesante come deve essere, appiccica di ricordi la mano di Dado, fino a farla tremare. Lo morde, mentre il mescolio dell’arancia e della cannella gli invade i pensieri, e il piccolo diadema di Elena sembra luccicare ancora di più, tanto da fargli chiudere gli occhi.
“Il tempo in questa città è molto pazzo”, le dice guardandola negli occhi.
Il passerotto è volato via. Dove vanno gli uccelli quando piove?
Stare sdraiato sul prato con lei, togliendosi finalmente quelle scarpe sbagliate, ecco quello che voleva fare dopo mangiato, e non gesti scomposti, infilando contenitori vuoti nella borsa frigo, con le posate ancora unte di sugo.
Con i capelli che puzzano di pioggia è ancora più bella.
“Non buttare le briciole a terra”, sorride lei sfilandogli lo strofinaccio dalle mani: la raccoglie per le quattro punte, come un piccolo cestino.
“Le lasciamo per Regina. Quando smette di piovere avrà fame.”
Era arrivato un mercoledì di marzo, e pioveva, ma non come oggi. Anche se adesso il cielo è diventato nero, e le nuvole si inseguono e si sovrappongono fra i tuoni, Dado prende Elena per mano e la porta verso la siepe. Corrono insieme e poi si riparano, accucciandosi vicini alla borsa con dentro la sua vita della notte, ma Dado non ha più paura che lei veda, no. Il fango dipinge storie sul candore delle loro scarpe. Adesso che il fango traccia la loro storia sulla tela delle sue scarpe, non c’è più distanza fra la terra e il sole.
Immagini: Camilla Garofano