speedy gonzales

Di nome faccio Nando, di cognome Cipolla.
La data di nascita lascia ancora sperare, il luogo è quello delle mozzarelle di bufala e della munnezza bruciata nei cassonetti. Le esperienze di lavoro sono poche e male assortite e, se avete pazienza, ve le elenco qui sotto.

Ho iniziato a lavorare che ero ancora una creatura. Cominciavo a sentirmi adulto, volevo rendermi utile. A casa mi proponevo di dare una mano per preparare la tavola o la moka, ma finivo col seppellire il lavello sotto un campo di caffè macinato o col fare alzare i convitati tre o quattro volte da tavola perché mancava una forchetta, un bicchiere, e una volta la tovaglia stessa. Ero assai volenteroso, così mia madre pur di lasciarmi esprimere, pur di togliermi di torno, mi affidò a zia Assunta.
Lei preparava le tomaie per scarpe di moda. Funzionava così: alcune aziende d’alta sartoria, pregiandosi di essere medinìtaly, si affidavano a società della zona in cambio di una miseria. Queste, a loro volta, si affidavano a gente come mia zia, che era indubbiamente italiana, e indubbiamente si accontentava di paghe in nero senza garanzie. Mi metteva a fare cose semplici, zia Assunta, che io sbagliavo con pignoleria, e tirava un sospiro di sollievo quando, scorgendo in cortile mio cugino Pasquale, mollavo tutto e correvo a giocare con lui. Ciò nonostante mia zia mi riconosceva tremila lire a settimana per il mio rovinoso operato, soldi che poi scoprii essere indirettamente elargiti da mia madre.

Col tempo m’ammalai di una violenta passione per il cinema. Dovevate sentirmi: fra le mie chiacchiere di paese debuttavano termini come Hollywood e backstage.
Mia madre ha avuto sempre un rapporto complicato con gli anglicismi. Per lei, pronunciare compiuter era motivo di imbarazzo. Molto meglio computèr. Per la sua generazione, che pure era cresciuta a pane e sale parrocchiali, la parola film era eccessivamente forestiera, ineguagliabile alla comodità terminologica di cinema.
“Ho visto un cinema di Totò”, o “Non mi piacciono i cinema western” erano frasi che si sparpagliavano serene fra le nostre strade in dissesto. Ai parenti mia madre non diceva che per mestiere io volevo girare film. Diceva “Quello vuole fare ‘o cinema”.

Per lei che predicava il posto fisso al comune, sapere che mi volevo artista era una sconfitta.
“Non mi piace quell’ambiente, è gente sporca”, diceva mondando le patate mentre mio padre già sonnecchiava sul divano.
Poi tornava a concentrare la sua disapprovazione verso la Rai, che non aveva trasmesso la puntata di “Un posto al sole” per via del Festivàl.
Per un paesino come il nostro, scordato dal Padretèrno sopra ai fornelli del creato, il cinema era un’idea così lontana da rassicurarla sull’inconsistenza delle mie velleità. Ma io mi impuntavo, volevo fare il regista, continuavo a guardare film e a raccogliere storie.

Una storia interessante riguardò un mio compagno di liceo e, curiosamente, anche la mia ex ragazza. Un giorno il compagno mi raggiunse nei corridoi per dirmi “Stai attento che quella conta palle: mi aveva convinto di avere il tumore ma non era vero niente. Quella sta meglio di me e te!”, disse.
La notizia mi impressionò. Trovai allora opportuno parlarne con la mia ragazza per chiederle consiglio su come comportarmi. Il suo consiglio fu che il mio compagno era un cretino e che non ci dovevo parlare più. La cosa, in quel momento, mi sembrò tutto sommato ragionevole, e così mi regolai. Ci vollero anni per farmi scoprire che, a guardare bene, la mia ragazza mi contava le palle, e a guardare meglio, la gente mi contava le corna. La sua infedeltà era palese e il cretino, a guardare bene, ero io.
Col mio compagno avevo ormai chiuso i ponti, erano passati anni, anche lui stava per laurearsi. Presi coraggio, gli diedi appuntamento in un parchetto, gli chiesi scusa.
“Non ti preoccupare – mi disse. – È acqua passata – mi disse. – Per caso vuoi un pannello fotovoltaico?”, mi domandò.
Pensai di non avere inteso la domanda, ma lui insistette: “Sono il non plus ultra della tecnologia!”
Gli chiesi che cosa c’entrasse la mia ex coi pannelli solari ma intuii che a lui, della mia ex, non fregava più niente: lui mi voleva vendere un pannello. E dato che a me non serviva, mi propose un lavoro che era il lavoro di vendere i pannelli; per ogni pannello venduto lui si sarebbe preso una piccola percentuale, dato che mi avrebbe introdotto lui in quel mondo di futuro e di non plus ultra della tecnologia. Ci capivo poco, ma mi dissi Perché no.
Informai mia madre: “Ho ottenuto un colloquio!”
Lei si prese un po’ di tempo per rispondere. Mio padre faceva zappìng fra il telegiornale e una vecchia puntata di Speedy Gonzales.
Mia madre, seguitando a pulire l’argenteria, mi disse “Però ti laurei lo stesso”.

Il colloquio si svolse in un albergo di lusso a Caserta, di fronte al quale era parcheggiata l’auto sportiva del tizio a cui dovevo essere presentato. Lui sedeva su un divanetto di pelle nera nella hall, con dei ragazzini che gli si avvicinavano a gruppi di due, parlavano un po’, si davano appuntamento, si salutavano.
Il mio compagno mi portò dal tizio e, con invidiabile sicurezza, gli disse: “Questo è Nando, è un amico mio, la ragazza gli ha messo le corna, lo avevo avvisato”.
Lo fissai, ma lui mi fece capire che non mi dovevo preoccupare: questo era un luogo di lavoro ma anche una famiglia. Il tizio, per rassicurarmi, disse che anche lui era stato tradito dalla ex, ma questo solo prima di iniziare a vendere pannelli, e io dovetti fare la faccia di quello che per la seconda volta non capisce bene il nesso fra le corna e l’energia rinnovabile.
Lui prese a fare un monologo su quanto fosse ricco e appagato, e mi chiese se tendenzialmente avevo preferenza di diventare ricco e appagato pure io. Avevo preferenza, tendenzialmente. Mi diede appuntamento per la settimana dopo allo stesso hotel per fare un incontro più formale.
“Porta pure degli amici”, mi disse il tizio.
“Va bene”, risposi io.
Ne portai due.

La settimana dopo tornai all’hotel di lusso con Carmine e mio cugino Pasquale. Avendo capito l’antifona, convinsi mia madre a farmi indossare per l’occasione il vestito buono, comprato a prezzo di fabbrica apposta per la laurea. Alla fine cedette, a patto che poi non lo toccassi più toccato fino al giorno della cerimonia. Dovevate vedere quanto stavo bene.
Dalle casse di uno stereo suonava la cover di una canzone americana che faceva pressappoco Simply The Best, Perché Tu Sei Simply The Best!
I tavoli erano disposti a ferro di cavallo e per ogni posto c’erano un quaderno, una penna e un libro. Il quaderno e la penna erano per noi, il libro era di un noto personaggio tv: lo aveva scritto per spiegare quanto era capace questa società che vende pannelli. A me sembrava un tema poco interessante per farne un libro, ma iniziavo seriamente a pensare che ero io quello che non capiva mai il resto di niente.
Arrivò il tizio e per un’oretta ci intrattenne con argomenti quali la bellezza del fotovoltaico, che era il non plus ultra della tecnologia.
Al che io alzai la mano per dire che questo fatto del non plus ultra me lo aveva detto anche un mio compagno, e lui disse “Ok”.
Il tizio ci disse che i pannelli si vendevano da sé: facevano risparmiare chi li comprava ed erano al centro di agevolazioni che ne incrementavano i vantaggi. A noi bastava piazzarne uno al mese per avere uno stipendio più alto della media delle nostre zone.
Alzai di nuovo la mano per chiedere “Se devo convincere un cliente dei vantaggi di un pannello, il cliente potrebbe domandare Ma tu ce l’hai?”.
Il tizio disse che la considerazione che avevo fatto era giusta, e che forse per risolvere il problema conveniva che comprassimo un pannello anche noi. Me lo segnai sul quadernino che ci avevano regalato.
Andai da mamma e le chiesi se poteva per cortesia comprarsi un pannello fotovoltaico, ché dovevo lavorare.
Ma mia madre era femmina spiccia, e mi chiese “Com’è che ogni lavoro che fai, alla fine, lo stipendio te lo devo pagare io?”.
Non volli insistere perché i miei avevano appena questionato circa la delicata controversia del dove festeggiare il pensionamento di mio padre: lui puntava per un ricevimento in qualche osteria alla buona, lei per una cena a casa, intima ed economica.
Li lasciai dibattere e andai a una riunione con Carmine e Pasquale. Nemmeno i loro genitori volevano saperne del pannello. Queste vecchie generazioni cocciute stavano compromettendo il nostro futuro. Con tutto che i pannelli si vendevano da sé, non saremmo riusciti a venderne nemmeno uno. Forse allora, pensammo, ci conviene trovare gente a cui far vendere pannelli, così per ogni loro vendita noi guadagneremmo una percentuale.
L’idea ci sembrava oltre che ragionevole. Chiamammo euforici un paio di amici a testa. La bravura in questo lavoro stava tutta lì, ce lo avevano spiegato anche a Caserta: quello che contava era l’arte di persuadere amici e familiari.
Non riuscimmo a convincere nessuno. Lasciammo perdere i pannelli, il futuro e il non plus ultra. Qualche mese dopo, l’arresto dei capi di quella società ci fece capire che la nostra inadeguatezza ci aveva salvato. Avevamo scansato un fosso.

sara cuperlo 1

La mia vita tornò quella di un comune laureando, divisa fra i disperati tentativi di mettermi in contatto con il relatore della tesi e i download di vecchi film di Monicelli. Li guardavo sul tappeto sonoro costituito dal vociare dei miei, che mormoravano per questo e quello.
A fine giugno mio cugino Pasquale ci informò di aver cominciato a scrivere per una irrilevante rivista, con la speranza di prendere il tesserino da pubblicista.
“Ovviamente non mi pagano”, ci tenne a precisare.
“Ovviamente!”, rispondemmo io e Carmine comprensivi.
Pasquale ci disse che aveva intervistato nientemeno che il sindaco, al quale aveva chiesto conto dell’assoluta latenza di iniziative culturali in paese. Per tutta risposta lui gli disse che aveva ottantamila euro a disposizione per questo tipo di attività, ma che nessuno gliele organizzava. Era una proposta: il sindaco stava dicendo a Pasquale Occupatene tu. Pasquale accettò, poi corse a inserirci nell’affare, ché a gestire ottantamila euro da solo si cacava un po’ sotto.
Il primo brainstorming durò quasi dieci ore. Proposi subito una rassegna cinematografica con registi esordienti che sarebbero venuti a presentare i propri film. Pasquale suggerì un piccolo festival per band emergenti. Carmine pensò di invitare scrittori durante l’intero arco dell’anno per provare a fare da paciere fra il paese e la lettura. Eravamo tutti infuocati, sparavamo idee a raffica. Queste dovevano però passare al vaglio dell’assessore alla cultura, che gestiva un bar affacciato sulla variante. Ogni tanto ci mandava a chiamare e ci offriva il caffè, mentre valutava i nostri progetti. Né la rassegna, né il festival, né gli incontri d’autore sembravano interessargli. Il fatto che ogni due e tre dovesse assecondare le richieste dei clienti a secco di caffeina, non aiutava; la variante era molto trafficata e percorrerla doveva essere sfiancante. Quegli incontri furono un’ottima palestra sull’andare diretti al nocciolo del discorso, sul non perdersi in chiacchiere. Ma per quanto parlassimo senza cedere il passo al fiato, non eravamo capaci di finire una frase prima che l’assessore potesse alzarsi per fare caffè o svuotare sanbittèr. I clienti erano infiniti apostrofi rosa fra le parole Abbiamo-una-idea.

Mia madre e mio padre non avevano molti amici. Lui coltivava l’hobby di farle presente che stavano sempre in casa, che uscivano poco e che non ne poteva più. Qualche sera andavano a mangiare un gelato in Piazza del Cuore, lo spiazzo al coperto di un centro commerciale. La nostra zona non offriva molto altro, e il centro commerciale era vicino, con aria condizionata e parcheggio gratuito. Ogni volta che ci andavano ritornavano un poco più invecchiati.
A noi non riusciva di convincere l’assessore delle nostre idee. Nell’ultimo incontro gli proponemmo un festival di artisti di strada:
“Potremmo convocarli da tutta … due caffè, per favore
…Da tutta Italia. Abbiamo già … un cappuccino e una polacca
“Abbiamo già contattato alcuni di loro … fammi uno di quei caffè con la cioccolata dentro. Come si chiamano?
“I prezzi ci sono sembrati tutto sommato ragionevoli … allora, mi fai tre caffè, di cui uno decaffeinato. Sai com’è, l’ulcera…
L’assessore via via ci faceva capire che dovevamo puntare in basso, e che quegli ottantamila euro promessi dal sindaco erano in realtà molti meno. Bisognava metterci le tasse e tutto. Cercammo di sorvolare su quel E tutto.

Una sera, stremato dalle nostre idee ambiziose, ci interruppe per informarci: “Io sono anni che vorrei organizzare un fatto, ma non ne so molto di organizzazione. Voi potete aiutarmi. Mi basta che non mi rubate l’idea, perché mi piglierei collera”.
“Non ti rubiamo l’idea”, gli dicemmo.
“Ci penso da quando ero giovane”, disse l’assessore.
“Dicci pure!”, lo esortammo.
“Io ve lo dico, mi sto fidando”, ci disse.
“Fidati, assessore!”, lo incitammo.
“Embè io vorrei fare una serata di combattimenti fra galli. Una specie di ring per farli duellare, un poco di scommesse e tutto. Se riuscite a organizzare questo – ci disse – partiamo pure subito”.
E quella fu l’ultima volta che lo vedemmo.
Quando deluso spiegai a mia mamma come era finita la nostra avventura, lei disse soltanto “Che schifo”.

La cerimonia per la mia laurea fu un bel momento di autoindulgenza. I parenti stretti si congratularono, mio padre si commosse, mia madre apparecchiò un sorriso per le foto. Anche se le avevo chiaramente detto che non volevo bomboniere, lei le fece preparare lo stesso. Erano a forma di ciak.
Dopo un paio di mesi sperimentavo la vita di un comune disoccupato, diviso fra le estenuanti ricerche d’impiego e i download dei film di De Sica.
Un giorno mia madre interruppe Ladri di biciclette e mi chiese: “A te ti piace il cinema, sì? Ci stanno i figli di donna Brigida che cercano una mano”.
Cominciai la domenica successiva.

Funzionava così: i promessi sposi chiamavano il fotografo Ciccio per il loro matrimonio. Ciccio li convinceva che per una giornata così speciale avrebbero avuto bisogno, oltre che delle foto, anche di un video. Se loro si persuadevano convocava Tonio, il quale aveva bisogno di ingombranti strumenti di lavoro; così, alla fine della catena, arrivavo io, pagato cinquanta euro a giornata in nero per fargli da uomo di fatica col vestito della laurea. Macinavo chilometri nell’auto di Ciccio e Tonio affossato sotto pesanti borsoni, faretti e stativi. Una spiacevole disposizione che era il manifesto di una precisa divisione dei ruoli che mi si voleva rendere chiara: loro erano artisti, io attrezzatura. La cosa mi sembrava tutto sommato ragionevole.
Qualche mese fa mi sono ritrovato in una casa sbiancata di fresco. Il mio compito era accendere e spegnere all’uopo un faretto che dallo sgabuzzino faceva luce sul corridoio. Lì, come su una passerella, la sposa avrebbe potuto mostrare alla telecamera di Tonio l’organza del suo abito nuziale. Pronti. Luci. Azione. Mentre lei sfilava civettuola, io dovevo stare muto incastrato fra il faretto bollente e le ragnatele del ripostiglio.
La parte in chiesa era la più complicata. Tonio doveva riprendere i momenti salienti della funzione e aveva bisogno di me per creare poesia. Non potendo parlare, aveva stabilito un codice strutturato in occhiate: guardava freneticamente un punto e poi un altro e questo voleva dire che dovevo posizionarmi nel primo e puntare il faretto verso il secondo. Più volte però mi capitava di fraintendere le occhiate.
Una volta, al momento del Sì lo voglio, mi ero messo al posto degli sposi e avevo sparato la luce negli occhi del prete, già contrariato di suo perché, nell’ansia di decodificare i messaggi di Tonio, correvo come un indemoniato da un punto all’altro dell’abisde brandendo il flash, con le scarpe da ginnastica che scricchiolavano sul marmo dell’altare mentre la coppia si prometteva amore eterno. Il codice di Tonio non era un granché.
Ma gli sposalizi erano buone fonti di reddito. Inoltre gli sposi riservano sempre un tavolo al ristorante per i “tecnici”: fotografi, assistenti, musicisti del piano bar… non vi potete sbagliare, è quello nell’angolo più scuro e freddo della sala. Un giorno una cameriera si intenerì talmente per il mio disagio che approfittò di una pausa per attaccare bottone.
“Quindi a te piace il cinema! – mi disse – C’ho uno zio che ha appena aperto un’agenzia pubblicitaria. Cercano giovani con tante idee. Magari ti interessa!”

sara cuperlo 2

L’agenzia VadoComunicante era nata con l’arrivo della bella stagione. Oreste, il capo, era un infermiere in pensione che aveva sviluppato un pungente interesse per il marketing.
Nutriva questa sua passione parlando di spot divertenti con alcuni suoi coetanei, con i quali aveva poi deciso di fondare l’agenzia.
Appena arrivato gli porsi un curriculum che aveva in testa una foto in cui indossavo il vestito buono, ma lui accartocciò la mie stampa a colori da un euro e cinquanta e centrò il cestino della plastica con un tiro da due che gli valse l’applauso dei miei nuovi colleghi.
“Tu sei un bravo ragazzo. Ma creatività non fa rima con diligenza: fa rima con tempestività!”, mi disse. “Con impulso!”, azzardò.
“È pensare la cosa giusta al momento giusto, ed è quello che faremo oggi”, concluse appoggiando un braccio alle mie spalle, ché gli doleva l’anca.
Su internet Oreste aveva letto di uno studio che aveva dimostrato quanto la creatività potesse essere stimolata dall’ascolto di musica napoletana. Costrinse tutti a sedersi in circolo nell’unica stanza dell’agenzia e spostò la puntina del suo vecchio giradischi.
“Fatevi venire un’idea!”, ci esortò il capo.
Ma la concentrazione di noi tutti durò il tempo della prima strofa. Poi qualcuno iniziò a tamburellare l’indice sul ginocchio, qualcun altro portò il tempo con il piede.
Nel giro di un mese di briefing non avevamo trovato uno straccio di idea, ma conoscevo a memoria i testi di Luna Caprese e Tu si’ ‘na malatia.
Ma non mi lamento. Se poteste propormi un lavoro meglio pagato, vi sarei debitore. Però sto piano piano mettendo da parte le aspirazioni, e a fare il regista, da qualche tempo, non ci penso più.
“Sei contento lo stesso?”, mi ha chiesto mia madre.
“Penso di sì.”
Lei ha dato un’occhiata veloce a “Un posto al sole”, poi ha spento.
“Mi fa male la testa”, ha detto.

Mio cugino Pasquale continua a scrivere un paio di articoli al mese per quella rivista. Finalmente hanno iniziato a pagargli dieci euro ad articolo come rimborso spese. Più fortunato è stato Carmine, assunto in comune: suo padre ha diffuso la notizia dei mesi di lavoro con l’assessorato alla cultura per la realizzazione di un grande evento.
Mia madre e mio padre non si sopportano più. Il loro radicato cattolicesimo li ha educati all’ineluttabilità di una scelta di coppia infelice, per cui l’idea di un divorzio non è nemmeno contemplata: se le cose non vanno bene è normale, è la vita.
Mio padre continua a lamentarsi per una mancanza che non riesce a spiegare e che, di conseguenza, mia madre non riesce a capire. È femmina spiccia. Cresciuta a pane e miseria vive imperterrita nell’obiettivo di assicurare cibo e salute alla famiglia, convinta che tanto basta ad allungare un’ombra di felicità.

Da un paio di mesi la sede di VadoComunicante ha riconvertito la sua funzione. Il monolocale male arredato con affaccio su strada aspira adesso allo stato di sala da ballo. Per quattro ore al giorno ci vado a vedere dei vecchi danzare abbracciati sulle note di Io che amo solo te di Sergio Endrigo.
In principio ci provammo a spacciare i lenti per team building, ma ci volle poco a che Oreste facesse togliere la plafoniera centrale e installare faretti per la luce soffusa. A tutti la cosa parve in fin dei conti ragionevole.
Io sono stato riposizionato: le mie conoscenze nel settore audiovisivo mi hanno fruttato la promozione a tecnico del suono e delle luci. Devo assicurarmi che la cassa funzioni sempre, che i dischi non si inceppino, e ogni tanto raccolgo le dediche del pubblico.
Quest’osservazione metodica della senilità paesana seduto sotto al poster di Tenco mi frutta trecento euro al mese. Di pubblicità non parla più nessuno.
La cosa non mi infastidisce: ho un fisso e vedo pensionati divertirsi come mai avrei creduto potessero fare. Le riunioni sono sempre più frequentate.
Una volta ho convinto i miei a venirmi a trovare al lavoro: mio padre racconta continuamente di quella giornata. E come ballava.
Quando dal giradischi attaccò Speedy Gonzales dovette fermarsi a riprendere fiato. Gli diedi il cambio. Mia madre rideva, sembrava finalmente in pace per qualche ora. Oreste non si accorse di niente, o probabilmente finse di non accorgersene.
Batteva le mani dal centro della sala, urlando “Let’s Twist! Non fermatevi! Resistete!”
Mia madre lo prese alla lettera.
“Resisti, a mamma! – mi diceva tenendo ostinata il ritmo – Resisti, Nando – mi ripeteva, gli occhi annacquati. – Resisti.”

Testo Angelo Mozzillo
Illustrazioni Sara Cuperlo

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