Mia madre fumava lunghe sigarette notturne in cucina, la finestra aperta, la porta chiusa per non disturbare mio padre che dormiva da ore. Ergeva contro il sonno una lunga catena di MS mild dure sapor di catrame, e la pacata assenza di collo di Maurizio Costanzo. Sosteneva che dopo aver fatto i piatti e pulito la cucina gli passava la voglia di andarsene a letto; ma io conosco, perché l’ho ereditata, quella sua strana riluttanza ad arrendersi al sonno, quell’inquietudine di pensieri notturni su scelte prese e bilanci di vita.
Io, nel frattempo, ero su un muretto poco lontano, a fare l’imbecille o a bere con Albano e altri. Casa mia era al terzo piano, così, quando la compagnia si scioglieva e mi incamminavo verso casa, quando alzavo gli occhi la luce della cucina era ancora immancabilmente accesa. Era un po’ un faro minimo, una luce accesa non tanto dall’ENEL quanto dalla cocciutaggine di mia madre, e dal suo rosario di sigarette.
Rientrando, aprivo piano la porta della cucina. Maurizio Costanzo sussurrava, per non disturbare mio padre. Mi fermavo spesso un po’, a parlare con lei, e se avevo un rospo grosso lo tiravo fuori, e allora i miei pensieri inquieti danzavano con i suoi sulla tovaglia ancora da sgrullare, e la pubblicità dei detersivi illuminava i nostri angoli più oscuri.
Alle volte convincevo Albano a salire un attimo; in quei casi la condivisione con mia madre era rimandata, e lei per qualche ora era una loquace padrona di casa, e serviva ancora un bicchiere d’amaro in piccoli bicchieri.
E poi, stupidamente, continuai a crescere, e a fare sempre più tardi. E così una sera tornando a casa, alzai gli occhi, e la finestra della cucina era nera.
Provai un senso di trionfo che non mi abbandonò per mesi. Stavo facendo così tardi che persino mia madre era a letto!
Quasi ebbro, continuai a tornare sempre più tardi.
“A che ora sei rientrato, ieri?”, mi chiedeva mia madre il giorno dopo.
“Due, due e mezza.”
“Ma se sono andata a letto alle tre?”
“E allora alle tre, tre e un quarto”, rispondevo, palesemente bugiardo e sorridente.
Naturalmente, volli strafare. Mi imposi la regola di rincasare un’ora dopo qualsiasi orario mi avessero dato. Se mi dicevano di tornare alle tre, tornavo alle quattro. Se il limite massimo erano le quattro, non mi facevo vedere prima delle cinque. Non era difficile: spesso con Albano il tornare a casa si diluiva, e dopo avermi riaccompagnato a casa io riaccompagnavo lui perche bisognava finire il discorso o smaltire una sbornia, e poi lui riaccompagnava me e io lui, e così via.
Questo inaugurò la seconda fase della mia adolescenza, quella di mio padre.
Nella mia vita ho perso innumerevoli mazzi di chiavi; per questo, casa nostra aveva due serrature. Tempo che le aprivo entrambe mio padre era già sveglio e in piedi; mia madre, andando a letto, gli aveva comunicato il mio mancato rientro, e così pur russando come un orso raffreddato, vegliava a metà. In un modo o nell’altro, casa mia aspettava.
Quando finivo di aprire la seconda serratura, la scena che mi trovavo davanti era sempre la stessa: mio padre in piedi davanti alla porta del bagno, una mano già sulla maniglia, gli occhi resi piccoli piccoli dal sonno e da una miopia enorme; in testa una fascetta “Sergio Tacchini” contro la sinusite, addosso canottiera a coste e slippino. Per quanto ridicola fosse la mise, era pur sempre mio padre quello che minaccioso mi puntava un dito contro.
“Comunque tu – decretava categorico – non esci più”.
Dopodiché si infilava in bagno: appena sveglio doveva sempre fare pipì.
Il decreto perdeva evidentemente vigore con rapidità, perche il giorno dopo uscivo, facevo tardi di nuovo e doveva essere riemanato, sempre davanti alla porta del bagno e sempre in fascetta e mutande.
Adesso i miei genitori non vivono più lì, al terzo piano, e io non vivo neanche più a Bassano.
Adesso sono grande, lavoro a Milano, e condivido la casa con due coinquilini il cui sonno non è minimamente turbato dal mio essere rientrato o meno.
Però qualche volta torno al paese, naturalmente. E qualche volta passo nei pressi della mia vecchia casa, la sera, e se le sorelle russe che ci vivono ora sono in cucina, la finestra è illuminata; ma anche da lontano si vede che le tende non sono le stesse, che in televisione non c’è più Maurizio Costanzo, e che ciò che era il mio faro non può esserlo più.
Immagine: Luca Lenci