Mi sono guadagnato questa casa lavorando. All’inizio, quando stavo nel campo davanti al filo spinato, avevo sparato a un uomo perché ci metteva troppo tempo per tornarsene da dov’era venuto. Questo mi garantì una promozione e mi trasferirono su una torretta dietro il muro.
Lì, ero uno di quelli che sparavano. C’erano altre torri, più alte, dove stavano quelli che dovevano avvistare chi passava il confine. Loro suonavano una sirena e azionavano i riflettori. Noi imbracciavamo i fucili e sparavamo.

Mi dimostrai sempre diligente, stabilii il record di trenta soppressioni in un anno. Loro arrivavano da soli, al massimo in coppia, e correvano e si tuffavano tra i cespugli. Io li seguivo nel mirino.
Ogni tanto, ammetto di aver giocato un po’ con loro: aspettavo che fossero arrivati quasi fuori gittata, lasciavo che si abituassero all’idea di avercela fatta. A quel punto, di solito, loro si giravano per guardare un’ultima volta il confine che avevano superato. Io li centravo in mezzo agli occhi.

Non avevo mai lasciato passare nessuno, ma anche i miei commilitoni si accorsero che, col trascorrere del tempo, stavo diventando più lento. E quindi mi diedero questa casa. Non è l’unica, ce ne sono altre, a intervalli più o meno regolari, da questa parte del muro. Il nostro compito è fermare chi è riuscito a superare il filo spinato, il muro e i cecchini. Non tutti i cecchini, infatti, sono bravi come me.
È sera. Come ogni sera, me ne sto seduto davanti alla porta di casa, il fucile in grembo come uno di quegli stereotipi da desolazione americana. E guardo il muro: da qui è soltanto una pennellata grigia sull’orizzonte.
Entro in casa e mi verso due dita di whisky, poi raddoppio la dose, tanto non può uccidermi e io non ho nulla da fare. Quando esco di nuovo, le sirene stanno suonando, i riflettori sono accesi e li vedo ruotare sulle torrette e scomparire e poi illuminare sezioni del muro e sento gli spari. Uno, due, poi molti. Più di quanti ne abbia mai sentiti. E poco dopo s’interrompono.

Io bevo, mi siedo di nuovo, appoggio il bicchiere per terra e metto le mani sul fucile. Pochi minuti dopo, lei compare davanti a me.
È sporca di sangue e il sangue macchia il vestito bianco che indossa. È poco più di una bambina, ma io sono vecchio e tutti loro mi sembrano dei bambini, sempre.
Cammina verso di me, dice: “Aiuto”.
Questa ragazza è già morta. Stringo le dita intorno alla canna e al calcio del fucile. Lei si avvicina ancora, deve credere che questa sia una casa come le altre, normale, in cui una ragazza può essere soccorsa da un vecchio, fermarsi a dormire, riposare e poi ripartire. E io la lascio avvicinare, se l’è guadagnato.
Ha dimostrato coraggio ed è stata più brava di tutti gli altri. Mi alzo. Lei vede il fucile e si blocca. Appoggio il fucile e raccolgo il bicchiere. Entro in casa, riempio il bicchiere per me e poi ne prendo un altro e lo riempio per lei. Esco, glielo porgo. Lei fa un passo e lo prende, se lo porta alle labbra, beve e tossisce e fa una smorfia. Io sorrido.
“Siediti”, dico.
“Grazie”, risponde.
Lei si siede sul gradino della veranda e io mi sistemo al suo fianco. Guardiamo il muro insieme. Le sirene hanno smesso di suonare, i riflettori sono spenti.
“Ce l’hai quasi fatta”, dico.
Lei annuisce e beve di nuovo, questa volta senza problemi.
“Quanti anni hai?”
“Diciassette. E tu?”
“Non lo so. Troppi.”
Non c’è mai vento, qui. Non cambia mai nulla. Eppure, questa è una serata in cui vorrei che il vento spirasse.
“A cosa stai pensando?”, mi chiede.
Mi giro verso di lei.
“Perché ci provi?”, le chiedo.
“Per mia figlia.”
“Mai vista?”
“Mai.”
“Sai che non puoi.”
“Non è giusto.”
Questa ragazza è già morta, come tutti, qui.
Testo: Alessio Posar
Immagine: Martoz

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