Mi sono guadagnato questa casa lavorando. All’inizio, quando stavo nel campo davanti al filo spinato, avevo sparato a un uomo perché ci metteva troppo tempo per tornarsene da dov’era venuto. Questo mi garantì una promozione e mi trasferirono su una torretta dietro il muro.
Lì, ero uno di quelli che sparavano. C’erano altre torri, più alte, dove stavano quelli che dovevano avvistare chi passava il confine. Loro suonavano una sirena e azionavano i riflettori. Noi imbracciavamo i fucili e sparavamo.
Mi dimostrai sempre diligente, stabilii il record di trenta soppressioni in un anno. Loro arrivavano da soli, al massimo in coppia, e correvano e si tuffavano tra i cespugli. Io li seguivo nel mirino.
Ogni tanto, ammetto di aver giocato un po’ con loro: aspettavo che fossero arrivati quasi fuori gittata, lasciavo che si abituassero all’idea di avercela fatta. A quel punto, di solito, loro si giravano per guardare un’ultima volta il confine che avevano superato. Io li centravo in mezzo agli occhi.
Entro in casa e mi verso due dita di whisky, poi raddoppio la dose, tanto non può uccidermi e io non ho nulla da fare. Quando esco di nuovo, le sirene stanno suonando, i riflettori sono accesi e li vedo ruotare sulle torrette e scomparire e poi illuminare sezioni del muro e sento gli spari. Uno, due, poi molti. Più di quanti ne abbia mai sentiti. E poco dopo s’interrompono.
Ha dimostrato coraggio ed è stata più brava di tutti gli altri. Mi alzo. Lei vede il fucile e si blocca. Appoggio il fucile e raccolgo il bicchiere. Entro in casa, riempio il bicchiere per me e poi ne prendo un altro e lo riempio per lei. Esco, glielo porgo. Lei fa un passo e lo prende, se lo porta alle labbra, beve e tossisce e fa una smorfia. Io sorrido.
“Perché ci provi?”, le chiedo.
Questa ragazza è già morta, come tutti, qui.