Siedo sulla poltrona di mio nonno, le mani sui braccioli rivestiti di lana scura, lo sguardo fisso sulla finestra rigata dalla pioggia. Le gocce d’acqua martellano il vetro ed emettono uno scoppiettio gradevole, che a tratti si fa più forte e copre il tamburellare dell’acqua sul tetto. Poi si smorza, l’acqua scorre giù lungo la finestra e riesco di nuovo a vedere il cielo nuvoloso e a sentire il rumore del fiume che lambisce la facciata, lava via l’imbiancatura, scrosta l’intonaco dal muro e s’insinua fra i mattoni. Il cielo rimane coperto di un grigio denso, senza nessuna sfumatura di luce.
Sento la mia pancia gonfia come una palla, tesa, sul punto di esplodere, ma decido di ignorarla. Invece ascolto le travi del tetto scricchiolare mentre l’acqua filtra fra le tegole e gocciola lentamente sul tappeto, sui pochi mobili rimasti, sulle mie ginocchia e sulla mia testa.
Non si può morire in questa casa.
Il bisnonno voleva morirci, piuttosto che abbandonarla sotto le bombe. Quando l’allarme cessò, sua moglie corse subito da lui, ma proprio mentre stava per entrare si staccò un pezzo di muro dalla casa dei vicini. Al bisnonno non successe nulla, ma lei stava passando là davanti e ci rimase secca.
Anche mio fratello voleva morire qua dentro. Aveva progettato tutto con entusiasmo, aveva scelto un giorno in cui nessuno sarebbe rientrato prima di sera e aveva studiato nei dettagli come sigillare le finestre e le porte, poi aveva aperto il gas in cucina e si era steso sul letto con due bottiglie di vodka.
Solo che a metà della prima bottiglia in qualche modo gli era passata la voglia e arrivato ai due terzi aveva deciso spontaneamente di uscire di casa e andare a smaltire la sbornia in riva al fiume.
Lo stesso fiume che adesso ha rotto gli argini e si sta mangiando la facciata.
Mia madre di tutta questa cosa del morire e della vodka non sapeva niente, ma spinta da un vago presentimento rientrò un po’ prima e, nella sua immensa perspicacia, quando sentì il puzzo del gas, la prima cosa che fece fu accendere la luce. La deflagrazione fu piuttosto violenta, dicono i vicini, ma la casa è solida e venne giù solo il soffitto della cucina. Cioè quello che era sopra la testa di mia madre.
Quindi tecnicamente in questa casa si può morire, ma solo se non lo si vuole, a quanto pare.
Improvvisamente il pavimento sotto i miei piedi ha uno spasmo, emette un rumore strano, come uno scoppio, che si propaga verso la finestra battuta dalla pioggia. La parete davanti a me comincia a rigarsi di crepe. Poi la vedo sparire, veloce come un lampo, inghiottita dai flutti del fiume che scorre qua sotto. Lascia un ampio squarcio asimmetrico sul cielo grigio, sulla pioggia e sul fiume gonfio di acqua sporca che sfreccia come un ubriaco fra gli alberi e le case. È una bella vista.
Il fiume ha inghiottito anche la strada all’ingresso del paese e si sta portando via il grosso castagno che è sempre stato là al bivio per casa nostra.
Il castagno ne sa qualcosa della gente che vuole morire in questa casa.
Era venuta anche a mia nonna l’idea. Decise di tornare a vivere qua da sola, dopo il primo infarto, e aspettare con calma la morte. Non voleva morire in ospedale.
Poi però, quando sentì di nuovo il petto stingersi e l’aria mancare, le prese paura, allungò il braccio e schiacciò quei due tasti sul cellulare, come le aveva mostrato mio padre.
Mio padre stava mangiando sushi con dei colleghi da qualche parte a un’ottantina di chilometri da qui. Più che mangiare, stava bevendo, perché l’offerta della serata prevedeva sakè gratis senza limiti per chi sceglieva il menù fisso. Mio padre decise di rispettare le volontà della nonna, gettò via le bacchette e saltò in macchina per rivederla prima che morisse. Fece ottanta chilometri a centosessanta all’ora e appena entrato in paese andrò a schiantarsi dritto contro il vecchio castagno. Mia nonna, dopo l’infarto, visse altri due anni in una casa di riposo.
Voglio vedere cosa s’inventerà per me la vecchia casa. Anche se non dovesse portarsela via il fiume, dubito che ne uscirò vivo. In ogni caso non avrei la forza per tornare in clinica, non ho nemmeno la forza per alzarmi dalla poltrona.
Stavolta non c’è nessuno che possa venire a crepare al posto mio; nessuno sa dove sono e a nessuno importa.
O forse no, forse al primario importa. Non dev’essere una gran bella cosa quando ti scappa il paziente così da un giorno all’altro, anche se è un paziente che sta per crepare. Il primario è un bravo medico e mi è sembrato sinceramente mortificato quando dopo l’operazione ha dovuto ammettere che poteva andare meglio.
Lo sa anche la mia pancia, che ha appena svuotato i suoi contenuti sulla poltrona, che poteva andare meglio. Dovrebbe essere vuota, invece la sento tesa, sul punto di scoppiare, e piena di dolore. Una palla di dolore che raschia le pareti del mio addome e scalcia e si contrae e cancella ogni altra sensazione.
Il problema è che sta passando l’effetto della morfina, era una cosa che non avevo considerato. Per prendere la codeina avrei bisogno di acqua. Di un bicchiere. E di qualcuno che mi apra la fottuta bustina di alluminio blu attorno alla compressa. E probabilmente non mi farebbe più nessun effetto.
Guardo lo squarcio nel muro, il vento gelido porta dentro folate di pioggia, ma lo sento appena.
Poi vedo in lontananza, sul cielo grigio, una piccola macchia scura che galleggia fra le nuvole. Si muove lentamente, qua e là sopra il fiume. Si avvicina e sento il rumore delle eliche. È un elicottero. Lo guardo incantato.
Adesso che è più vicino riesco a distinguerne chiaramente i dettagli, i vetri della cabina, la portiera aperta sul fianco. Dalla portiera si sporge una figura che urla qualcosa in un megafono. Non capisco cosa.
Il tizio continua a urlare nel megafono cercando di coprire il frastuono delle eliche, della pioggia e del fiume in piena e io non sento nulla di quello che dice. Gli faccio cenno di no con la mano, di andarsene.
Ma ovviamente non può andarsene, ora che mi hanno visto devono tirarmi fuori in qualche modo.
L’elicottero si avvicina ancora di più, è sospeso proprio sopra la casa e il suo rumore è assordante, ma il tempo scorre lento come in sogno. Un uomo si cala giù appeso a una fune, oscilla per un po’ davanti alla parete aperta, imprigionato nell’imbracatura che stringe la sua tuta sgargiante da soccorritore, poi riesce a mettere un piede nel mio salotto. Riprende l’equilibrio, si volta e viene verso di me. È un bell’uomo biondo e ha sul volto un sorriso radioso, che si gela all’istante quando vede il mucchio di ossa, lividi e sangue avvolto nel pigiama dell’ospedale rannicchiato sulla poltrona davanti a lui.
Potevi anche risparmiarti la fatica, vorrei dire, ma la verità è che sono felice. La sopravvivenza è una strana sensazione e sono felice quando mi solleva dalla poltrona, mi chiude nell’imbracatura e mi spiega come tenermi aggrappato a lui mentre la fune ci riporta sull’elicottero.
E poi, mentre siamo appesi così a mezz’aria, in mezzo alla pioggia e al vento e vediamo quel che resta del muro di casa mia scorrerci accanto, la casa ha di nuovo un sussulto, un altro pezzo di parete si stacca e ci cade addosso in una pioggia fitta di calcinacci. Un ammasso di mattoni mi manca per una decina di centimetri e centra in pieno la testa del tipo biondo davanti a me.
L’elicottero continua a tirarci su per la fune, me e un cadavere biondo grondante sangue e briciole d’intonaco.
Immagini: Enrico “Stres” Giannini