Dobbiamo attraversare il braccio di mare con la bassa marea. Non abbiamo una barca.
Nostra nonna viveva sull’isola. Io me la ricordo poco. Il catarro nella voce e le mani nodose. La vedo che raccoglie ricci di mare nel sole e pettina a strattoni i capelli di mia sorella, stringendoli in una treccia. Io e Anna adesso viviamo vicino alla discarica, sulla terraferma.
“La nonna era buona, ma qui si sta meglio”, dice Anna.
Anna si prende cura di me. Ricordo che la casa di nonna era piena di altri bambini.
“Ma quelli non erano nostri fratelli”, dice.
Non riesco a ricordare il volto di nessuno di loro. Solo le grida. Squillanti, a piccoli singhiozzi. Anna ci vuole andare al funerale. Io me ne starei qui, nel container.
“Si è presa cura di noi per un po’, glielo dobbiamo!”, dice mentre cova le uova.
Anna addomestica gabbiani. Gli insegna a rubare il cibo alle altre famiglie che vivono nelle insenature e a portacelo. Poi dà loro una ricompensa: granchi spaccati al sole. Mentre vanno a caccia per noi, si occupa delle loro uova e dei piccoli.
I gabbiani hanno sguardi crudeli e a me fanno paura, ma non lo dico. Lo so che fingono di esserci amici e che un giorno ci mangeranno, beccandoci gli occhi, quando tutti i rifiuti saranno finiti e non avranno più niente con cui sfamarsi.
“I rifiuti non finiranno mai”, dice Anna.
Ma io non ho detto niente. Certe volte lo fa, mi legge nel pensiero e risponde ad alta voce.
Prepara le merende per la traversata. Le mette in sacchetti di plastica che terremo sulla testa. Sembrano meduse.
In un sacchetto ripone la treccia che si è tagliata in segno di lutto per il funerale della nonna.
Io sono emozionato e un po’ spaventato. Non so nuotare. Anna sì ed è alta il doppio di me. Forse il doppio no, però è più alta, ma solo perché è più grande. Quando crescerò, la supererò, mi dice.
“Non ti preoccupare, non ci sarà bisogno di nuotare. Durante la bassa marea, nel punto più alto, l’acqua ti arriverà appena sotto al mento”.
Anche stavolta non ho parlato.

Mentre Anna cova le uova, io vado alla ricerca di cose utili nella discarica.
Se trovo oggetti luccicanti, li porto a Marilù e lei mi fa vedere le poppe. Sono grosse. Al centro hanno come delle ventose da cui partono ragnatele di capillari.
Se trovo oggetti di ferro, invece, li porto a Pompeo e lui in cambio mi dà delle pesche sciroppate. Certe volte mi dà dei barattoli pure se non gli ho portato nulla in cambio. Ma a Anna dà fastidio. Dice che lo fa perché gli facciamo pena e lei non accetta l’elemosina da nessuno.
“A questo punto meglio rubare, ché almeno le cose te le sei guadagnate!”
Poi, però, le pesche se le mangia lo stesso.
Ma gli oggetti che mi piacciono più di tutti sono i giornali. Io non so leggere ancora. Anna sì, l’ha imparato sull’isola. Ha detto che il prossimo anno, quando sarò grande e con la testa arriverò a toccare la cornice della porta, me lo insegnerà. Ma comunque quello che mi piace delle riviste sono le figure, e più precisamente le foto di donne. Non quelle di poppe e culi, perché appiattiti sulla carta non mi fanno venire il solletico sotto la pancia. Mi piacciono le foto dei volti. Ci cerco le cose che somigliano a quelle della mia mamma. Io mia mamma non me la ricordo, ma certe volte viene a trovarmi nei sogni. I contorni del viso sono confusi, ma una notte è tutto ingarbugliato tranne il suo occhio, in un altro sogno si vede bene solo il naso. Allora appena mi sveglio cerco quel particolare sulle riviste.
Sul viso della statua di gesso di una Madonna, che ho trovato nella discarica, ho incollato tutti i ritagli delle riviste che ho scelto per ricostruire la faccia della mia mamma. L’ho quasi completata, mi manca solo la bocca. Ma in tutti i sogni ha sempre le labbra sfatte. Parla, ma io non riesco a capire cosa dice. Parla come sott’acqua.
Tengo la statuina nascosta in una nicchia, sul fondo di una piccola grotta che ho trovato lungo la scogliera. Metto i ritagli di giornale in un sacchetto di plastica che infilo sotto all’elastico delle mutande e saltello tra gli scogli. Anna non lo sa. Non vuole mai parlare di quello che è stato prima della discarica.
Sulla porta, mentre sto per rientrare in casa, recito delle preghiere a ripetizione, mentalmente, per confondermi i pensieri, così se mia sorella mi legge nella testa, non scopre niente.

Sotto la pianta dei piedi sento una melma viscida. Dentro ci sono detriti: gusci d’uovo, fondi di caffè e pezzetti di conchiglie che mi pungono i talloni. Girini e gamberetti galleggiano come polline nell’acqua. Sento funghi crescermi sulla pelle man mano che avanzo nel mare. Incrostazioni e licheni fioriscono all’istante sulle braccia a ogni passo. Sul fondale, lische di pesce e carcasse ondeggiano impigliate tra le alghe.
Anna mi stringe la mano. Cammina con la busta sulla testa. Lo sguardo fisso verso l’isola. Non mi guarda mai. Un gabbiano in alto ci segue. Vola in tondo sulle nostre teste. L’acqua mi arriva alle anche. Puzza di marcio. Vedo il sole tra le ciglia di Anna, che si affaccia dalla curva del suo collo, e per la prima volta mi accorgo che così luminosa è bella. Faccio aderire il mio braccio al suo, per sentirne la peluria.

Il sole si abbassa un po’. Sento granelli di sabbia accumularsi tra le dita dei piedi. Se non esco subito dall’acqua, i miei piedi diventeranno pinne e mi trasformerò in un pesce stupido e muto. I polpastrelli sono già rigati come quelli dei vecchi. Sento che le costole si stanno aprendo in branchie. L’acqua mi arriva al mento. Siamo nel punto più profondo. Il mare mi rallenta tutti i movimenti, mi trattiene. I pesci mi trapassano: entrano dalla schiena ed escono dal mio ombelico.

Arriva un vento caldo e tutto si fa arancione. All’improvviso dal mare si sollevano contemporaneamente tante piccole goccioline di vapore.
In una gocciolina rivedo Anna che mi insegna a fare le capriole all’indietro. In un’altra Anna che strofina le coperte nel buio per fare le scintille e dice ridendo: “Presto, esprimi un desiderio! Una stella cadente è finita sul letto!”.
Anna che mi fa le pernacchie sulla guancia quando sono triste per farmi sorridere. Poi ci vedo in fila davanti al casotto dei maiali. I bambini che non sono i nostri fratelli hanno una magrezza che quasi buca la pelle dei loro gomiti. Sono chiassosi e pieni di muco. Il contadino sgozza un maiale. La nonna riempie i bicchieri di sangue e ce li passa.
“Bevete ché vi fa bene, soprattutto alle femmine”.
È caldo. Sa di ferro. Anna, mentre trangugia, si pulisce il mento con il dorso della mano. Io vomito.

D’un tratto le goccioline si compattano in capriole di vapore che si ricorrono sul pelo dell’acqua. Non vedo più niente. Il gabbiano sopra le nostre teste diventa un puntino, poi scompare.
“È Caligo, la nebbia che viene dal mare. Viene a prendere le anime che si sono perse e le accompagna verso la pace. Le onde cullano gli spiriti smarriti fino alla luce, li tranquillizzano – dice Anna – Fatti il segno della croce con la punta della lingua sul palato”.
Abbiamo le mani occupate.

Nella nebbia mi sembra di sentire gemiti e carezze. Stringo più forte la mano di mia sorella. Sento un’animella che mi entra da un orecchio ed esce dall’altro, lasciando una ninna nanna sul fondo della cartilagine.
Quando la nebbia si dirada, ci accorgiamo che siamo quasi a riva. Il gabbiano è di nuovo sulle nostre teste. Siamo tutti bagnati. Anna ha i capelli corti incollati sulla testa. Sembra un maschio. Solo in quel momento scopriamo che tutt’attorno a noi galleggiano centinaia di cadaveri. Siamo circondati da morti di ogni età: uomini, donne, vecchi, bambini.
I pescatori corrono avanti e indietro sulla spiaggia.
“Che è successo?”, grida Anna.
“C’è stato un crollo al cimitero sulla scogliera e molte salme si sono riversate nel mare.”
D’un tratto tra i morti vedo un viso che mi sembra familiare. Prima riconosco un occhio, poi il mento, la linea diritta del naso. È azzurro. Galleggia sereno. È pieno di grazia. Ha una corona di alghe attorno alla testa, come un’aureola. Finalmente posso vederne la forma delle labbra. Sento nella testa la ninna nanna che ho ascoltato poco prima nella nebbia.

Quando Anna mi chiama, smetto di guardare la donna. Ave Maria, piena di grazia. Non voglio che mia sorella mi legga nel pensiero. Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà. La vedo poco distante che apre il sacchetto e lascia scivolare la treccia sull’acqua. Mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati. Si segna il petto e farfuglia qualcosa. E benedetto il frutto del tuo seno Gesù. Poi si avvicina e mi tira verso la riva, “Stiamo facendo tardi!”. In questa valle di lacrime. Le passa davanti, ma sembra non vederla. Per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa.
Quando riemergiamo completamente dall’acqua, mano nella mano, Come era in principio, ora e sempre, mi accorgo, Riposino in pace, che sono più alto di lei.
Amen.

Testo Emanuela D’Amore
Illustrazione Anna Dietzel

One thought to “La traversata”

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