“Copriti però, a papà – le ha sussurrato Paolo in un bagno d’ansia – E stai poco poco.”
Ha aperto la porta con fatica ed è sgusciata fuori lasciando impronte da passerotto. L’abbiamo guardata a lungo correre, impacciata dal peso del giubbotto grande e scomodo: la finestra senza tende è un acquario e lei un pesce rosso.
Oggi è il mio compleanno, e anche oggi – come da quando ho memoria – nevica. Quando eravamo piccoli come Bianca ci piaceva, la neve, tra i nostri occhi e le cose reali come una carta da regalo a impacchettare un mondo di una bellezza selvaggia e pericolosa: durante una bufera io e Paolo siamo stati investiti da un vecchietto che guidava sbandando come un ubriaco, ma a passo d’uomo. Non posso dire che ci abbia davvero investito, ci ha semplicemente spinto, con una delicatezza sorprendente, contro un cumulo di neve raccolta al bordo della strada. Prima immobili per lo spavento, abbiamo lentamente alzato la testa e ci siamo guardati a lungo sorridendo scossi dall’eccitazione. Eravamo sopravvissuti. Ci sentivamo, anzi, più vivi di prima. Il fatto di non essere arrivati nemmeno vicini alla possibilità di restare feriti dall’incidente (perché così lo chiamammo), sarebbe rimasta poi una cosa solo nostra. A tutti parlammo di miracolo, e di fatto non smentiamo ancora.
Oggi, per noi, la neve è un castigo, la carta da regalo che non siamo riusciti a strappare.
In certi momenti capita che brusche folate di vento spostino per un tempo brevissimo la cappa di nuvole che copre la città, ed è come se non nevicasse più.
Il giorno del mio compleanno di un anno fa per esempio sembrava fosse primavera. Seduti a questo tavolo eravamo di più, e meno sgualciti.
Accanto a Paolo e Bianca era seduta Maria Diletta, distratta e irritabile. E c’era Nina, soprattutto: mangiava poco, mi diceva sorridendo di avere un po’ di nausea.
Di tanto in tanto Salò usciva dalla sua cucina e veniva a sedersi con noi: provava un gusto particolare nel provocare Paolo, e di fatto non perdeva occasione. “Vedi di non fare il brillante, giovane, che essere juventino e comunista è veramente un destino infame. Tu sei figlio della peggio razza possibile.”
“E tu, Giuse’?”
Per darci un tono, io e Paolo finiamo a parlare di lavoro e come ogni volta ci fingiamo interessati, coinvolti. Paolo mi racconta della signora Perlini, fuggita in lacrime dal suo lettino non appena lui le ha chiesto di aprire la bocca “ché la pulizia dei denti è una cosa fastidiosa ma necessaria”.
Nel mio caso. Ne parliamo serenamente, ormai, quasi con distrazione, come lanciando sassolini sullo specchio di un lago. Ma nel mio caso rovina tutto: si fa inghiottire dal lago e trascina giù anche me.
“E certo che no.”
Si reca ogni anno in pellegrinaggio a Predappio pieno di gratitudine e malinconia. Ma è un pezzo di pane e cucina da Dio. Si chiama Michele, non se ne ricorda nemmeno più lui.
“Uagliù, poche mosse, le cose o funzionano o non funzionano. Mo’, mi dovete dire: vi pare a voi che ci sta qualche cosa che va dritta?”
“Tengo la torta di mandorle che vi piace tanto, così state nu poc’ zitt’.”
La decisione giusta.
“D’altronde, lo sai meglio di me. Stavi andando giù. Io mi ricordo com’era, quand’è arrivata. Una botta di vita. Era la vita. Ero felice per te, ti giuro, ma poi oh: uno deve avere il coraggio di darci un taglio.”
“Oh, Charlie Chaplin – mi ha detto – offrimi qualcosa ché m’hai fatta stancare”.
Aveva appena finito di riempire di schiaffi quello che allora era il suo ragazzo. Era orgogliosa, fortissima. Sebbene poi giocasse a farsi piccola, infantile, non ha mai avuto bisogno della mia protezione.
C’è silenzio, e fosse per Paolo non ci sarebbe mai. Rientra tenendo per mano Bianca, che ha gli occhi del pianto e i capelli bagnati: è stata a rotolarsi nella neve “senza nemmeno mettere il cappellino”, mi dice, “quell’incosciente. Ti va se andiamo? Se resta così zuppa ancora un po’ le viene una febbre feroce. Non mi va poi di affrontare la questione con Diletta.”
Chiedo il conto a Salò, che mi fa pagare una miseria come sempre.
“Uagliù – mi guarda serio – eh. Mi raccomando.”
Io non so mai cosa replicare alle raccomandazioni, quindi annuisco e gli sorrido.
“Il phon – mi fa – il phon. A casa mia non ce l’ho”.
E gli viene da piangere, a quel cretino, che non sa come asciugare i capelli bagnati di Bianca. E dietro a lui viene da piangere anche a me, che da oggi ho quarant’anni e la sensazione orribile che mi sia sfuggito qualcosa.
“Ti dispiace se passiamo da mio padre? Lui ne ha uno di sicuro. Ti va di venire? Che compleanno di merda.”
Mi viene in mente di proporgli di usare il mio phon, ma mi terrorizza il pensiero del rumore delle mie chiavi sul mobile all’ingresso.
“Tranquillo – gli dico – ci vediamo lì”.
Entro in macchina, faccio qualche smorfia per riattivare i muscoli irrigiditi dal freddo. In casi come questo mi viene naturale immaginare la risata scomposta di Nina, che a volte mi infastidiva un po’, quando io da ridere non ci trovavo proprio nulla e avrei solo voluto chiederle “che cazzo ridi?”.
Mi limitavo a non unirmi alla risata: la mortificazione per lei era la stessa. Ho ucciso l’allegria così tante volte che non credo di meritarne più per almeno altre sette vite.
Li chiamavamo “pisciuotti”, Nina dalle risate si piegava in due.
“E ma sei un cretino, sei. Sbrigati, che si raffredda. E tu me lo volevi dire, a nonno, che ti dovevi asciugare? Birbante… Vai da papà, vai”, e di nuovo un’istantanea dolcezza.
Io faccio per sedermi al tavolo di formica, come mille altre volte in vita mia. Mi tolgo cappello, guanti e sciarpa, tiro giù la zip del piumino e sbottono il maglione, quando mi cade un bottone. Io e Carmine lo guardiamo a terra, quel traditore, sospiriamo.
Prende un cestino di vimini pieno di rocchetti di cotone e si risiede, affidandosi alla luce della tv accesa e del camino, il naso vicinissimo a bottone, ago e filo.
“Mannaggia la morte, mannaggia.”
“Forse”, Inforca le lenti opache e si rimette al lavoro.
“Il sentimentalismo – grida Peppone – è un atteggiamento borghese indegno dello spirito proletario”. Carmine alza gli occhi dal bottone e annuisce con convinzione. Mi si bagnano gli occhi all’improvviso, mi imbarazzo, poi sento Paolo ingoiare con forza un magone. Gli omini di Bianca sono gli unici a riuscire a guardarsi in faccia.
“Penserai anche a me – Don Camillo raggiunge l’onorevole Peppone alla stazione – che non sarò più lì a darti un cazzotto in testa quando te lo meriti – gli dice – vale a dire almeno una volta al giorno!”, mentre fuori intanto è buio, è arrivato il momento di alzarsi e tornare a casa, mi dico, ma ripenso al rumore delle mie chiavi sul mobile all’ingresso, poi alla risata forte di Nina e al suo naso curioso: non riesco a muovere un passo.
“Una mostruosità – dissi – con tutta questa neve”.
L’ultima volta che ho visto Nina aveva un cappello di lana verde, la faccia sconfitta e un borsone della Nike. Non mi ha nemmeno salutato prima di lasciare le chiavi sul mobile all’ingresso e uscire di casa, ma a tutti ho detto che sono stato io a lasciare Nina, a dirle di andarsene. È stato un anno orribile.
“Tra poco smetterà di nevicare.”
“Tra poco, ce ne andiamo, tra poco.”
Avrei dovuto, al contrario, raccontarle l’euforia di quando mi pensavo capace, di quando amavo la neve, tra i miei occhi e le cose reali come una carta da regalo a impacchettare un mondo di una bellezza selvaggia e pericolosa.
“Ma dimmi, Carmine – quasi urlo, quasi entusiasta – ti abbiamo mai raccontato dell’incidente?”
Paolo sorride. Io non aspetto risposta, e inizio a raccontare del giorno in cui, come per miracolo, siamo sopravvissuti.